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Anestesia con l’A maiuscola

Camminavo di fretta nel corridoio verso la sala operatoria, arrabbiato e risentito quel pomeriggio, rimuginando tra me e me “voglio proprio vedere come andrà a finire " e " adesso gli dico io cosa farò!". Entrato in spogliatoio mi cambiai in fretta. Indossai la divisa operatoria senza dire una parola ed entrai dentro in sala.
Il paziente era già sul letto operatorio, disteso e in attesa; il chirurgo stava preparando tutto l'occorrente per quel delicato intervento chirurgico al polmone. Si trattava di una infezione da echinococco, malattia parassitaria diffusa tra i pastori karimojong, trasmessa dagli ovini e presente anche in Italia, tra i pastori sardi.
Stimavo il chirurgo, un bravo operatore, ben preparato da un'ottima scuola chirurgica in Africa, con un grandissimo numero di interventi alle spalle.
Non mi andava, però, proprio giù, che m’imponesse quale anestesia dovessi fare. Egli era convinto, dopo anni d'Africa, che l'anestesia generale si potesse fare sempre e solo con un farmaco, la Ketamina, con il paziente in respiro spontaneo, non attaccato al respiratore, e ripeteva che così aveva imparato in Africa e non vedeva la ragione di cambiare.
Ero deciso e gli dissi, tutto d'un fiato, che quel pomeriggio non avrei operato assolutamente con lui, perché sarebbe stato assurdo, in quel delicato intervento, non impiegare una buona e più sicura anestesia generale. Gli dissi, ancora, che sarei rimasto in sala operatoria, pronto soltanto a salvare il paziente in caso di necessità.
Quasi neanche mi badò, mentre parlavo e allora, visto il mio rifiuto di operare con lui, fece lavare un altro, al mio posto, perché lo aiutasse. Pensavo tra me: “È impossibile fargli cambiare idea tanto è cocciuto e testardo”.
L'intervento iniziò dopo la somministrazione della solita Ketamina ed io, in sala, mi detti subito da fare per controllare tutta l'attrezzatura del respiratore e il numeroso armamentario necessario per praticare un'anestesia generale.
Tutta quell’attrezzatura, disponibile in sala, era proprio vecchiotta, apparentemente funzionante, ma mai utilizzata prima, poiché, a Matany, non aveva mai lavorato un anestesista, ma solo chirurghi e suore infermiere, di buona volontà, che si tramandavano semplici tecniche di anestesia.
Niente di strano, perciò, che anche con la mia presenza di giovane anestesista in formazione, in quei primi mesi dal mio arrivo, l'anestesia continuasse come sempre si era fatto.
Quando, durante l'intervento, iniziò la fase delicata dell'apertura del torace, diedi un'ultima occhiata ai farmaci che avevo preparato e messo in ordine sopra al respiratore; ero tutto teso, contratto come un centometrista pronto a scattare sui blocchi di partenza allo sparo della pistola.
Passò meno di un minuto e i due chirurghi, in grande agitazione, si affannarono a guardare al di là del telo, che separa il campo operatorio, verso la testa del paziente. Il pastore karimojong era in arresto respiratorio!
I miei muscoli, tesi fino allo spasimo, scattarono come una molla e saltai verso il paziente per rianimarlo ed impadronirmi della gestione di quel povero disgraziato, altrimenti condannato da un’anestesia troppo rischiosa e inadeguata.

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