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Il racconto di un saluto

Ieri mattina sono scesa dal treno senza indossare la giacca, bastava un maglioncino di cotone, per affrontare la temperatura dolce di una bella giornata autunnale, profumata con fragranza familiare, di casa. Nessuna giacca e nessuna scusa, nessuna giustificazione al mio gesto; in autunno cadono le foglie naturalmente, ogni autunno.
Stranamente ho la vista annebbiata e confusa, come se l’esperienza che ho di questi colori risalisse a tempi perduti, atavici, mi sento lontana, reduce da chissà quale vita, un’altra realtà.
Fortunatamente, questo disagio è, solo mio personale, e mi consola il saluto ingenuo di un bambino che passa sul marciapiede di fronte al mio, con l’altra mano stretta in quella del suo papà.
Il treno è arrivato puntuale nella stazione, silenziosa di domenica mattina; quasi mi aspetto che la temperatura si alzi, che debba, ancora, iniziare tutto quello che ho lasciato scendendo dal treno.
Avendo due inutili ma pesantissime valigie, cerco un carrello e trovo un facchino loquace, con la vi­siera del berretto che nasconde ogni traccia della fronte e dei capelli; ha la parlata e la corporatura ti­pica della gente di qui, un incrocio beffardo fra Aladino ed uno scaricatore di porto, ma la sua presen­za mi rassicura, finalmente sono nel posto giusto.
“Ha visto che bella giornata? Non si direbbe già metà ottobre; tutta la settimana è stata mite, inusuale, anche per noi, un tempo così sereno. ”
“Guardi che vivo qui, per me è, solo, un buon ritorno. ”
Sono partita a questa stessa ora di tre settimane fa: settembre, quando le spiagge si vuotano dalle voci dei bambini in vacanza e tornano i clacson del traffico cittadino, non ricordi quando hai iniziato ma sai che tutto finisce, questo limite mi mette tristezza, non potrei consumare le ferie a settembre, con i bambini intenti nel comprare il diario, le ragazze abbronzate che non si truccano le guance con fard e fondo-tinta, le vetrine con le camicie a maniche lunghe e scarpe chiuse.
Patrizia mi telefona per chiedermi se, domani, andrò al mare o se inizierò a preparare le mie valigie, vuole salutarmi e devo ricordarmi di darle gli auguri per il suo compleanno.
La incrocio, esclusivamente, d’estate; nonostante l’affetto reciproco, non c’è confidenza, non sono stata mai a casa sua, nemmeno, per un caffè.
Quest’incontro, non saldamente afferrato, racchiude il senso di progetti “a tempo determinato”, preca­ri, instabili, accennati, che si confondono con desideri appena accennati ma non sicuri, affidabili, qualcosa di probabile o, meglio, possibile non tangibile; una condizione che farebbe impazzire se, fosse importante.
Pensieri come guizzi spontanei e liberi dalle regole del consenso logico, leggi che, dopo i fatti, cerca­no le cause nelle conseguenze e ne trovano, almeno, una a costo di costruirla.
Prima della partenza ero agitatissima al pensiero dell’esame da fare, e c’era da fare e non sapevo cosa, mentre tornavo da mare, rapita dai colori di settembre, dalle loro sfumature che ricordano i car­toncini a china: non abbagliano la vista riflettendo la luce per puntarla contro gli occhi, i colori assor­bono ed accarezzano la luce sciogliendosi in tonalità particolari di settembre qui.

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1 commenti:

  • Alessia Amato il 10/04/2009 19:34
    Un artista abbastanza grande può mangiare qualsiasi cosa: deve mangiare ogni cosa e poi trasformarla. Patrizia incarna la realtà che mescolandosi alle fantasie genera ipnosi... brava!

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