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La vendetta di Artemide

Il cielo stava ormai volgendo all'imbrunire. Nella valle regnava un silenzio quasi irreale, e la natura era talmente immobile che pareva in attesa. Artemide stava per raccogliere le proprie armi e andarsene; si era già caricata la faretra in spalla e fece per alzarsi e rivelare la propria presenza alla natura circostante, quando le parve di udire qualcosa muoversi tra gli alberi. Si immobilizzò dietro al cespuglio di more che aveva scelto come nascondiglio, e rimase in ascolto. Poco dopo, ciò che si era mosso si palesò in tutto il suo splendore nell'ampia prateria davanti a lei, e Artemide non credette ai propri occhi. Si trovava di fronte un magnifico esemplare di unicorno, dal manto immacolato, che si muoveva circospetto, quasi avesse sentore della sua presenza.
Artemide impugnò l'arco e sfilò cauta una freccia dalla faretra, posizionandola sull'arma. Poi puntò il dardo contro la creatura, che ora si era fermata al centro della radura, proprio di fronte a lei. Artemide quasi non credeva alla propria fortuna; stava per scoccare la freccia, segnando irrevocabilmente la sorte del malcapitato esemplare, quando qualcosa le si parò dinnanzi, facendo improvvisamente capolino da dietro il cespuglio e facendola sobbalzare. Artemide riconobbe subito la creatura femminile che le era comparsa davanti, una ninfa bellissima, con un vestito di panno bianco e i lunghi capelli biondi, e che stava tentando di spaventarla mostrandole il proprio angelico viso trasfigurato e deformato in un modo inusuale, con gli enormi occhi sporgenti e le fauci spalancate. Ma lei non si sarebbe fatta sorprendere: lei, Artemide, l'intrepida dea della caccia, spaventarsi di fronte ad una ninfa dei boschi?
“Chi credi di spaventare? ” le domandò infatti, con il tono più sprezzante che le riuscì.
La ninfa si dileguò in fretta così com'era venuta, e quando Artemide tornò a guardare verso la radura, anche l'unicorno era sparito. “Maledizione! ” si lasciò sfuggire.
Solo allora comprese: la creatura che si era lasciata scappare non era un unicorno, bensì Afrodite, che giocava a nascondersi nella valle assumendo sembianze di animali. La ninfa che le si era parata dinnanzi era una delle sue inseparabili accompagnatrici, Eufrosine.
Ma che cosa ci faceva lì, la figlia della schiuma del mare, l'eterea e splendida Afrodite, da tutti gli dei ammirata e da tutti gli uomini venerata, la bella, intoccabile, preziosa Afrodite? Per poco aveva rischiato di trafiggerla: a quale scopo si era esposta così, in quella valle deserta, alla stregua di una umile e miserabile preda dei cacciatori?
Artemide si sentì montare dalla rabbia: le sue ninfe non erano mai presenti quando servivano.
“Callisto, Antea, Aura, dove diavolo vi siete nascoste? ” esclamò impaziente. Nel giro di qualche istante le sue fedeli accompagnatrici furono al suo fianco, ubbidienti.
“Avevo bisogno di voi, perchè non ci siete mai quando ho qualche compito da affidarvi? ”. Le alseidi abbassarono lo sguardo, a mostrare la loro vergogna, ma lei non era in cerca di solidarietà. Aveva bisogno dei loro servigi, prima che fosse troppo tardi.

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1 commenti:

  • salvatore maurici il 26/03/2012 16:05
    Non c'è dubbio che a molti di noi i miti greci fanno sempre saltare di gioia, bello far scivolsre su un piano mitico la storia che noi viviamo nel nostro quotidiano. In realtà ci appare scandita da ritmi temporali non sempre esaltanti. Trasferire le nostre problematiche nel mondo del mito ci libera dalle ambasce quotidiane così "Artemide si caricò nuovamente in spalla il suo arco e si alzò in volo", noi voliamo con la Dea! Bel racconto questo di Micaela.

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