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Il foglio

La penna girava tra le dita e l’orecchio. Un po’ di saliva tra le righe gialle e nere della scocca di plastica. Per altri fini forse, avrebbe avuto più successo. Come ci si sta con una Stedtlaer tra le gambe? Ci provai. Niente. Nemmeno la fatica di aver sbottonato i jeans.
Un mondo in quarantena, sembrava ci fosse la fuori. Il ronzio incessante di formiche ipnotizzate, il trotto dei tacchi sui marciapiedi, gambe depilate e petti impostati. A cantare una marcia impolverata.
Proviamo di nuovo. Mi tolsi la penna dai pantaloni e andai alla finestra. Un movimento della mano, delicato, ammaestrato. Bello vederli muoversi a comando. Il cane alza la gamba per pisciare sulle scarpe uvaviola della signora appena uscita dal parrucchiere che imprecando furibonda finisce per cadere tra le braccia del macellaio dal camice ancora sporco di sangue e insieme si rotolano tra le buche del marciapiede. Un tango. Senza rosa. E con un tonfo. Lo spettacolo finì. Noia.
Delusa da Merlino tornai al foglio e cambiai penna. La intinsi nel bicchiere di the, qualora di inchiostro non ce ne fosse abbastanza. Provare a coltivare forse. Eppure restava bianco, immobile.
Il sonno indisturbato del foglio, prima di lamentarsi della sua macchia marrone proprio nel suo angolo preferito. Non valeva più la pena sentire le sue lamentele. Lo accompagnai verso il cestino. Un volo di prima linea. Rapido. Rapidissimo.
Presi un altro foglio e lo posai sul tappeto. Io ero in piedi. Scalza. Lo guardavo dall’alto. Il soffitto ed il foglio. E sarei stata molto grata ad entrambi se si fossero mesi ad urlare e macinare le parole confuse e incollate allo smalto sulle mie dita. Ma c’era silenzio. E odore di polvere.
Per via delle tende, credo. Non avevo mai avuto il coraggio di togliere, per non aver perduto il coraggio di continuare a spiare da dietro il vetro. Pensavo di poterci capire qualcosa delle marionette sul marciapiedi guardandole da dietro il velluto rosso impolverato piuttosto che presentarmi. Sarebbe stato piuttosto imbarazzate. Soffro di ereutofobia. Ma non ci soffro. Come se mi penzolasse costantemente una ciliegia dal naso. Notevole. Si nota. Ma finisce che la mangio. E nessuno mi nota più.
La stanza, la mia stanza non mi dava nessun segno. Probabilmente mi aspettavo troppo. È sempre stato un mio grandissimo difetto, lo ammetto. E mi inginocchiai a guardarlo più da vicino. Il foglio. Senza macchie, nudo, a suggerirmi l’assenza totale della mia voce andata in vacanza. Due ore sono troppe, passate a camminare in 12 metri quadrati e mezzo e aspettarsi la rivelazione di un nuovo poeta da un A4. Il senso era proprio quello. Il bianco mi intristiva. Mi sbatteva sulle labbra e sul petto. Si dice rifletta la luce e, aggiungerei, la rabbia di una testa troppo rumorosa che ancora non ha imparato a parlare.
Mi infilai un paio di scarpe aperte. Rosse. E uscii.
Un’altra porta tra me e l’aria, tra me una falsa ispirazione. Meglio prendere le cose di petto. E aprii il cancello usando l’incavo tra le natiche e la schiena. Per farmi una sorpresa. Immaginando quello che sapevo già.
Il cielo non era poi quello che volevo. Pensai per un attimo che i vetri della mia camera avevano bisogno di una lucidata. Ma poi mi passò di mente.
E pensai che dovevo pur avere una destinazione, se non volevo star li a guardare la vecchia e il macellaio innamorarsi insanguinati. Patetico.

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3 commenti:

  • Aurora F il 16/06/2009 11:08
    io quel pittore invece vorrei vederlo più spesso
  • Anonimo il 16/06/2009 01:14
    uhhhhhhhhhh... mi ha fatto venire tremila brividi, inutile negare che mi sono immedesimato nel pittore ehehehe
  • Anonimo il 16/06/2009 00:31
    piaciuto

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