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L'ultima possibilità

Lizzy tentava d'ipnotizzarmi, come sempre, comodamente distesa sul mio torace, le zampe allungate fino sotto il mio mento, mi fissava come una statua d'ebano, con i suoi occhi gialli, due spicchi di luna tentavano di sondarmi, o almeno così mi pareva.
A volte protendeva il suo muso nero fino a toccarmi il naso, poi si esibiva in uno sguaiato sbadiglio, voltava la testa su di un lato, e con gli artigli piantati nel mio maglione si addormentava, così, come sanno fare solo i gatti, un sonno vigile e leggero.
L'avevo trovata dentro un cassonetto della spazzatura, di quelli con l'apertura basculante, probabilmente era scivolata all'interno attraverso lo spazio lasciato dal coperchio non perfettamente chiuso, attratta da qualche avanzo puzzolente che poteva far gola solo ad uno stupido gatto.
Me ne stavo affondato nel mio "buco nero", un vecchio divano le cui molle avevano ceduto definitivamente alle lusinghe del mio peso, e stavo scivolando da queste considerazioni verso un sonno profondo, quando il suono del telefono, trafisse il sogno che mi stava cullando.
Quello squillo insopportabile si mascherava, cambiava sembianze, assumeva credibilità all'interno del sogno, recitava la sua parte e mi conduceva verso l'uscita, come la cosa più ovvia di questo mondo, fino a quando non riemergevo e sentivo le pieghe del divano, e il calore di Lizzy allungata sul mio torace.
Dovevo rispondere, forse si trattava di qualcosa d'urgente, mi misi seduto sul divano, feci mezzo giro su me stesso e appoggiai i piedi per terra, solo allora mi accorsi che gli artigli di Lizzy non volevano mollarmi, ostinatamente rimaneva aggrappata al mio maglione, e mi guardava con aria interrogativa, la sollevai da sotto e la depositai nella fossa del divano, non parve apprezzasse la nuova disposizione ma per il momento non potevo dedicargli altre attenzioni.
Dall'altro capo dell'apparecchio, una voce che conoscevo da vent'anni, disse "Guarda che ce né un altro che vuole imparare a volare".
Così il mio capo definiva gli aspiranti suicidi che volevano lanciarsi nel vuoto, il suo cinismo in fondo, lo difendeva dagli orrori di cui spesso eravamo testimoni.
Uscii lanciando un'ultima occhiata a Lizzy, ignara e indifferente ai drammi del mondo se ne stava avvoltolata su se stessa, mi avrebbe aspettato, come sempre.
Mi sentivo come lo zerbino davanti alla mia porta, non dormivo da oltre ventiquattrore, e soprattutto non sapevo come sarebbe finita questa storia.
Raggiunsi nella parte vecchia della città la casa che mi era stata indicata, una costruzione in stile Liberty di una decina di piani, prossima alla demolizione a giudicare dallo stato di conservazione.
L'aspirante Icaro se ne stava seduto, con le gambe a penzoloni nel vuoto, sul parapetto del terrazzo all'ultimo piano, fra le antenne e i piccioni che tubavano senza sosta, sembrava un ragazzo, poi guardandolo con più attenzione mi accorsi che era un uomo di circa trent'anni, i cui tratti infantili non l'avevano ancora abbandonato completamente.
A circa trenta metri d'altezza si percepiva una lieve brezza, mescolata con gli scarichi dei sistemi di condizionamento, da cui uscivano, forzatamente, gli odori e i profumi della vita sottostante.

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2 commenti:

  • Marco Uberti il 23/05/2010 09:05
    Grazie Nunzio! si, l'umanità... nota dolente di questa umanità!
  • Anonimo il 23/05/2010 08:54
    Ci vuole una buona dose di pietà verso se stessi, per poterne avere verso gli altri. Gran bel racconto, ricco di umanità. Ottimo!

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