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E tu lo chiami amore
Lei tirò su col naso.
Muco e sangue: ne sentiva il sapore dolciastro, denso e viscoso.
Spostò una ciocca di capelli dagli occhi e guardò nell'oscurità della stanza. Il suo respiro rauco che fendeva il silenzio.
Dolore.
Dolore.
Doveva avere un paio di costole rotte. Un occhio gonfio: lo sentiva pulsare. Le labbra spaccate. Lividi e segni sul seno. E si sentiva sporca. Appiccicaticcia in mezzo alle gambe: forse era sangue o forse no. Che differenza poteva mai fare adesso? Lo aveva sentito pesare su di lei, dentro di lei. Accanirsi sulle labbra e i capelli e coprirla di insulti e di botte. L'aveva sentito venire. Fece uno sforzo immane per cancellare da sé quell'immagine e contemporaneamente per rintracciare anche solo un briciolo di piacere in quello scempio. Era il tentativo che la sua mente faceva per renderlo meno intollerabile.
La cosa più lacerante è che lui l'aveva chiamata amore.
Amore.
Amore.
Non era il dolore, come una ragnatela sul viso, o i lividi sul seno o il seme che le colava dal ventre. Fu quella parola che la squarciò veramente. Che la passò da parte a parte.
Le aveva urlato contro. Puttana. E l'aveva colpita, e ancora e ancora e ancora, e poi era entrato dentro di lei e dentro di lei aveva grugnito e deposto il suo sperma mentre lei implorava.
Per favore. Per favore. Almeno questo. Dentro no. Ti prego.
Ma niente di tutto questo l'aveva ferita come l'essere chiamata amore.
Era stata la dolcezza agghiacciante nelle parole, e quell'accenno di carezza sul volto segnato, a farla riavere dallo stato di semi-incoscienza nel quale era scivolata, alla fine, per salvarsi. A volte la migliore difesa contro il dolore è l'assenza. Essere corpo morto per non morire.
Aveva urlato scrollandosi quell'uomo di dosso ed era corsa verso il bagno chiudendosi la porta alle spalle.
E finalmente aveva pianto. Scossa da singhiozzi che partivano da una qualche parte dilaniata al suo interno, si era accasciata in ginocchio con la faccia schiacciata fra le mani, nel buio. Tremando.
Lentamente, in qualche modo, si era calmata.
Ignorava da quanto tempo era lì, quando qualcuno colpì la porta.
«Sei ancora qua? ». Quella voce era una voragine nera.
Aprì la bocca ma non uscì nulla. Avrebbe voluto gridare e poi strillare ancora più forte, urlare fino a farsi sanguinare la gola, ma tutto ciò che riusciva ad emettere era una specie di guaito.
«Rispondi! » intimò la voce.
«S... si, sono qua. » Riuscì in qualche modo a dire, ma fu come se a parlare fosse un'altra persona.
«Esci fuori - ordinò imperiosamente dall'altro lato della porta - dobbiamo parlare».
Un secondo.
Due.
Tre.
Un altro colpo sulla porta.
«Allora? »
«Eccomi».
«Muoviti. Ti aspetto in cucina».
La donna accese la luce e si guardò allo specchio. Sarebbe potuta andare peggio: l'occhio non era così nero come poteva immaginare. Avvertiva però un dolore pulsante sul lato destro del costato. Suo marito sapeva come picchiare. Era come fare l'amore, una volta imparato non ti dimentichi più. Scacciò quel pensiero, rabbrividendo.
Aprì il rubinetto dell'acqua fredda e si sciacquò la faccia.
Lo specchio le riflesse la sua immagine. Il volto di una donna sola, precocemente invecchiata.
Si domandò come accidenti avesse fatto a finire lì, così. All'inizio sembrava tutto perfetto. In principio sembra sempre perfetto. Ma poi le cose cambiano.
Lentamente.
Inesorabilmente.
Ripensò alla balla da raccontare al medico di turno al Pronto Soccorso.
Sa come succede, no? La luce spenta... le scale... io mi sono alzata per andare al bagno e non ho acceso la luce, sa, mio marito la sera è sempre stanco, e non volevo svegliarlo, come una scema ho mancato il gradino e sono volata giù per le scale e non è neppure la prima volta. Sa come succede, no?
Certo che lo sapeva. Il medico sapeva perfettamente cosa succede. Conosceva la verità. Ma lei sapeva anche che non le avrebbe detto nulla.
E allora ripensò agli occhi tristi di quell'uomo: tutti i medici del turno di notte avevano gli occhi tristi, forse era la luce del neon a renderli tali, o magari erano le porcherie che erano costretti a vedere. Le cazzate che dovevano ingoiare.
Quante volte era già ricorsa alle cure dei medici per aver centrato una porta? O per aver mancato un gradino?
Prese la vestaglia dall'appendiabiti e si coprì. Avrebbe avuto bisogno anche degli slip, prima di andare in cucina da suo marito, ma era in bagno e lì non ce n'erano. Andare nella stanza a recuperarne un paio avrebbe voluto dire perdere tempo, e non le sembrava assolutamente il caso.
Ci sono delle medicine che vanno prese subito, diceva sempre sua madre.
Non le aveva mai domandato se fra queste c'erano anche i pugni e i morsi.
Si avvicinò alla porta e posò la mano sulla maniglia. La strinse fra le dita ma non riuscì a girarla. Non era la maniglia ad essere bloccata, era la sua mano, immobile anche se tremante. La sua mente voleva aprire quella porta, ma il suo corpo, e la memoria del dolore che in esso era conservata, si rifiutava.
Si accorse che il suo cuore batteva all'impazzata.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Una volta e poi ancora. E poi di nuovo, ed alla fine le parve di essere un po' più calma. Riprovò ad ruotare la maniglia con la mano ora più ferma e la porta si aprì.
Il corridoio era buio, e l'unica luce accesa era quella giallognola della plafoniera in cucina.
Dovrò sostituire la lampadina, quel colore è smunto e morto e non mi piace.
Ma non era il colore della lampadina, si rese conto, ad inquietarla, bensì ciò che sapeva avrebbe trovato seduto su una sedia con le mani sul tavolo e lo sguardo fisso verso un punto non ben definito.
Si incamminò, ogni passo pesante come un macigno, e si affacciò sulla porta della cucina.
«Eccomi» disse, un po' all'uomo e un po' a se stessa, quasi incredula di essere arrivata lì.
Lui non rispose, ma alzò la testa lentamente, come se pesasse una tonnellata, e la guardò senza vederla. Era come se il suo sguardo passasse attraverso di lei.
«Siediti» le disse.
Una goccia colava ritmicamente nel lavabo, echeggiando nel silenzio della stanza.
La donna camminò verso la sedia e la spostò dal tavolo strusciandone i piedi sul pavimento. Ogni rumore le sembrava amplificato in quell'aria tesa e immobile.
«No» disse lui. «Non quella sedia. Vieni qui vicino a me».
Come un robot staccato dall'alimentazione, abbassò la testa a guardarsi forse le scarpe o forse qualcosa di indefinibile fra i piedi.
Lei si morse il labbro superiore ma non rispose nulla; rimise la sedia al suo posto e ne scelse una affianco a quella dov'era seduto il marito.
«Tu lo sai perché è successo questo, vero? ». domandò l'uomo.
Lei mandò giù un sorso d'aria e di saliva: aveva la gola serrata ma provò comunque a rispondere.
«Sono stata cattiva», disse con voce atona.
«Infatti».
Lei non poteva vedere il suo volto perché teneva la testa bassa ma vide lo stesso la pelle delle guance tendersi verso l'alto.
Sta sorridendo. Questo grandissimo bastardo sta sorridendo!
«Sei stata cattiva. Molto cattiva e quindi è stato necessario punirti - continuò lui - Me lo diceva sempre mia madre, ma io non le davo mai ascolto. Me lo diceva sempre che saresti stata cattiva e che io avrei dovuto punirti proprio come papà puniva la mamma. Ma io non l'ho mai ascoltata perché pensavo che tu fossi diversa, che fossi migliore, più attenta, e che non facessi mai la cattiva».
Ma lei non lo stava sentendo. Pensava a quel sorriso. Pensava che non aveva detto di esser stata cattiva per compiacere il mostro col quale era sposata. Pensava di aver detto così perché una parte di lei in fondo lo pensava. E lui sorrideva perché immaginava che il lavaggio del cervello, a suon di botte, avesse finalmente avuto il suo esito.
La consapevolezza si fece strada a poco a poco in lei, ma superati i primi attimi la sua chiarezza divenne quasi inarrestabile. Stava diventando come lui. Se lui era colpevole delle violenze, dei calci, dei pugni e degli sputi e degli insulti e di averla più volte stuprata sul pavimento della casa, la sua colpa più grave non era aver fatto sì che ciò accadesse, perché ribellarsi avrebbe potuto significare cose ancora peggiori. La sua colpa, si rese conto, e questa idea la colpì con una forza ancora maggiore delle mani del marito, fu quella di lasciare che una parte dentro di lei morisse, e che un'altra parte accettasse le violenze come inevitabili e forse anche giuste.
Si rese conto che stava tremando di nuovo. Ma questa volta non era la paura di ciò che l'uomo le avrebbe potuto fare, ma era la paura per ciò che lei stessa si era procurata. E poi non c'era solo paura in quel tremare, ma anche rabbia e un senso di solitudine fortissimo e pungente. Dal giorno del matrimonio era precipitata in un gorgo che le aveva strappato, in maniera centrifuga, amici e parenti.
E pensò di nuovo al medico del Pronto Soccorso. Pensò ai suoi occhi e alle bugie che dovevano bersi, e pensò che non era giusto. La sua mente le riflesse, senza alcuna logica, le immagini degli occhi del marito, la prima volta che lo incontrò. E si rammentò di aver pensato che un uomo con degli occhi così belli non le avrebbe potuto mai fare del male. Che stupida che era stata.
Ma dov'era finita la sua vita? Che cosa aveva fatto per arrivare a questo punto?
Non credeva di meritare ciò; non credeva, in realtà, che nessuno dovesse meritarsi questo.
Forse non era tardi. Forse si poteva ancora aggiustare qualcosa. Era stata una stupida ad illudersi così, e, cosa ancora peggiore, era stata maledettamente stupida a far sì che quel mostro che chiamava marito uccidesse tutti i suoi sogni. Ma si poteva ancora rimediare.
Si alzò dalla sedia.
Fu sorpresa quando si sentì parlare.
«Io me ne vado», disse.
Passarono alcuni secondi che sembrarono interminabili, poi l'uomo alzò la testa e finalmente sembrò vederla per la prima volta da quando era entrata in cucina. Ma i suoi occhi non erano più quelli blu di cui si era innamorata, ma erano due stelle nere spalancate sull'abisso.
La donna ebbe paura, perché sapeva che quando assumeva quell'espressione vacua, di solito finiva sempre con lei distesa o rannicchiata in un angolo a piangere.
Indietreggiò verso il lavandino mentre il marito la guardava sbarrando gli occhi. Si alzò dalla sedia di scatto, facendola scivolare stridendo sul pavimento.
«Tu sei mia moglie e non vai da nessuna parte», disse l'uomo.
«No, io me ne vado», rispose lei, ma la sua voce non era più ferma come pochi secondi prima.
«Stai facendo di nuovo la cattiva, lo sai? », disse.
Lei non rispose nulla. Indietreggiò di un paio di passi verso il lavandino. Si rese conto che era stata attirata lì dal suono delle gocce che cadevano, che le sembravano un suono calmo e riconoscibile in quella follia.
La incalzò fino a che le natiche della donna non cozzarono sul bordo del lavello; lei provò a dire qualcosa, e forse ce l'avrebbe anche fatta, ma sapeva che, quando assumeva quello sguardo, lui avrebbe riconosciuto solo un suono, che non era quello delle parole.
L'uomo emise una specie di ruggito e si lanciò verso di lei. Le fu addosso in un istante, afferrandola al collo con una forza inaudita. Gridare in quelle condizioni, senza che un briciolo d'aria riuscisse a passare nella sua trachea era impossibile. E comunque non sarebbe servito: non era mai servito.
Annaspò alla ricerca di qualcosa, di qualsiasi cosa potesse salvarla e trovò uno dei piatti nel lavandino. Lo afferrò più o meno come si potrebbe afferrare un salvagente quando si sta per affogare, piegò il braccio con una forza dettata più dalla disperazione che dalla consapevolezza e colpì il marito in testa, poco più sopra della tempia.
Lui non gridò, emise invece una sorta di sibilo lasciandole il collo e si portò le mani alla testa, allontanandosi di un passo. La donna vide che il sangue colava dalle sue dita e una parte di lei provò un perverso brivido di piacere.
Ora capisci che si prova a sanguinare, stronzo.
L'uomo si guardò la mano incredulo. Poi guardò la moglie e poi di nuovo la mano. Aprì la bocca come per dire qualcosa, poi scosse la testa e sorrise. Ma forse più che un sorriso fu un mostrare i denti, come un predatore fa prima di mordere la sua preda.
La donna si spostò lateralmente, verso la porta della cucina.
Lui aggirò il tavolo per porsi di mezzo, tagliandole ogni possibile via di fuga. Lei lo capì e scattò verso l'uscita. Un istante troppo tardi. Anche l'uomo si lanciò in avanti e la colpì con tutto il peso del suo corpo. L'impeto sorprese anche lui che non fece a tempo ad afferrarla ma entrambi finirono a urtare contro il mobile alle loro spalle. Un paio di bottiglie e alcuni piatti con avanzi del giorno prima, e un portacoltelli di legno volarono via nell'impatto, sparpagliandosi al suolo.
Finirono per terra uno sull'altro, con la donna schiacciata dal peso del marito.
L'uomo approfittò dell'insperato vantaggio e immediatamente la afferrò per i capelli tirandole la testa all'indietro e con l'altra mano le strinse il collo, come una tagliola stringe le zampe di una lepre.
La donna cominciò a colpirlo sui fianchi, a tempestarlo di pugni sui reni ma sembrava insensibile al dolore. I suoi occhi erano quelli di uno squalo, due pozze nere senza espressività.
Sentì che la coscienza cominciava ad abbandonarla, raccolse tutte le sue energie residue e colpì l'uomo sulla testa, proprio dov'era ferito.
Ma niente da fare, non si scosse neanche un poco, e lei lasciò cadere le braccia, disperata e rassegnata. Pensò che almeno sarebbe stata una cosa veloce.
Ma con la mano urtò qualcosa che stava sul pavimento. Era il portacoltelli caduto nell'impatto col mobile. Non si rese neppure conto di cosa stesse facendo ma lo afferrò e lo scaraventò, quasi alla cieca, addosso al marito, colpendolo sulla nuca.
E questa volta lui lo sentì. Emise un grido gutturale e lasciò la donna che riprese a respirare. L'ossigeno ebbe un effetto quasi drogante sul suo cervello.
La terribile certezza di essere là a lottare per la sua vita si fece strada in lei, e per la prima volta la donna decise di lottare fino alla fine.
Cerco di raccattare dal pavimento qualche altro oggetto e trovò una pirofila che, miracolosamente, non si era distrutta cadendo sul pavimento. La prese e colpì il marito su un lato del volto. La pirofila questa volta si distrusse all'impatto. Lui accusò il colpo e si inclinò da un lato tenendosi la faccia con entrambe le mani.
La donna si scosse da sotto a l'uomo e riuscì a scivolare via, quasi strisciando.
La porta di casa. Devo raggiungere la porta di casa.
Si girò a pancia in giù per provare a rialzarsi e correre via il più velocemente possibile. Ce l'aveva quasi fatta, quando sentì una mano che le afferrò la caviglia. Cadde in avanti. Scalciò con il piede libero, e sentì che colpiva qualcosa, ma la presa non si allentava.
«Io ti ammazzo, lurida puttana! », gridò alle sue spalle.
E lei sapeva che sarebbe potuta finita così.
C'era un coltello lì sul pavimento e lei lo prese, si girò e lo conficcò nella spalla del marito che mollò la presa.
La donna si alzò finalmente in piedi.
«Adesso io me ne vado. E non provare a fermarmi», disse, con una voce stranamente calma.
«Ma non penso proprio che te ne andrai, puttana, perché ti ammazzo», grugnì lui. Balzò in piedi e si scagliò verso la donna.
Lei impugnò il coltello con entrambe le mani e lo tese davanti a sé un attimo prima che l'uomo le fosse addosso.
La lama del coltello penetrò nel suo torace fino all'impugnatura a causa dello slancio dell'uomo che sgranò gli occhi e urtò contro la moglie, ma ormai quasi senza forze.
Avvinghiati in un macabro balletto fecero un paio di passi lateralmente mentre l'uomo boccheggiava qualcosa fino a che lei non sfilò il coltello dalla ferita. Il rumore che fece fu quello che, a distanza di anni, ancora perseguiterà i sui ricordi.
Lui barcollò all'indietro, la bocca aperta e dei rivoli di fiato che uscivano rumorosamente dalla gola. Lei vide i suoi occhi. Non sembravano più quelli di uno squalo, neri e spalancati. Ma erano tornati quelli di anni prima, gli occhi per i quali si era innamorata. Blu e con un taglio mediorientale.
L'uomo tese la mano davanti a sé, come se volesse tentare di fare un'ultima disperata carezza alla moglie. Crollò sulle ginocchia, inclinò la testa da un lato e in una specie di sorriso, con una voce che ormai non apparteneva più a questo mondo disse «Amore mio».
Cadde a faccia avanti sul pavimento.
Ebbe un ultimo sussulto e morì.
Per qualche minuto la donna rimase immobile, in piedi, con ancora il coltello stretto tra le mani. Si sentivano solo le gocce del rubinetto che cadevano nel lavandino.
Quasi al rallentatore aprì le mani, un dito per volta, il coltello scivolò dalla sua presa e cadde sul pavimento rimbalzando lateralmente. Il rumore che fece in quel silenzio opprimente era quasi un urlo nel deserto.
Si inginocchiò accanto a lui.
«Amore... », sussurrò.
Gli passò una mano fra i capelli.
Urlò.
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