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Hotel Royal

Sotto le finestre del primo piano, il fiume melmoso di auto suoni lampeggianti stridori andava scemando.
Gli ultimi tram arancioni sfrigolando lanciavano scintille tiepide nella notte. La città si stava allestendo per il Santo Natale.
Le tende scostate appena erano di uno scuro velluto rosso, pregne di polvere e fumo.
La donna, gli occhi fissi come quelli delle sentinelle, stava immobile appoggiata, aggrappata alle tende, così in silenzio, sola nella stanza, pietrificata nella notte; non aspettava nulla, cosa c’era da aspettare, non c’era nulla da aspettare, era tutto finito.
Respirava lenta quell’odore pungente di polvere e fumo che si staccava dalla tende, ogni volta che la sua mano premuta sulla stoppa tremava in minuscole scosse.
Sotto forma di particelle invisibili agli occhi, la donna respirava incurante quella nebbia di polvere e fumo.
Il rumore ovattato oltre le vetrate sembrava il rimbombo di un cuore, la vena che pulsa senza stancarsi su per il collo, nelle tempie.
Non stava guardando niente di particolare, cosa ci sarebbe stato da guardare d’altronde, in quel groviglio di buio (un fondale finto di cartone, una scena di teatro) qualche lampione troppo alto, le macchine rare che sfrecciavano elettrizzate, e graffiate di nuvole grigie.
Nessuna finestra accesa di fronte, dove sarebbe stato possibile sbirciare la vita. Nessuna sagoma nel marciapiede di sotto. Solo la notte cocente dell’inverno in quella città sconosciuta.
Sconosciuta, ma la migliore per la loro faccenda. Forse cara, ma tutto era andato senza problemi, nessun intoppo, perfetto.
La donna, senza scostare lo sguardo da quel niente così attentamente scrutato, prese una sigaretta dal tavolo affianco e l’accese.
Ala polvere e al fumo stantii delle tende, ci aggiunse il vapore fresco e un po’ acido della prima boccata.
Ci resteremo anche domani, me l’ha promesso, certo, in questa città che già odio, che odiavo pria ancora di venirci.
Ha detto che mi porterà a vedere qualcosa, sarà come una piccola vacanza.
Perché poi si ritorna.
Al solito posto, ognuno nel suo angolo, e la pazienza, l’attesa, di nuovo l’illusione, le stesse cose, i gesti che lui si attende, i gesti che lui vuole che io mi attenda, e le parole (gonfie, sature, pregne di polvere e fumo come tende), pronunciate talmente tante volte che hanno perso significato, sono solo suoni che non stridono, che si amalgamano compatti, che ingoi e un po’ ti rimangono tra i denti, e hanno una loro durata, un loro tempo, poi smettono, scadono, e dopo c’è fare l’amore, un letto sempre diverso sempre uguale, la notte assume gradazioni di colore come se provasse emozione; il traffico del tutto scomparso, i lampioni, già altissimi, si allungano a dismisura verso l’alto nulla che lei scruta.
Cade la cenere sulla moquette verde, brucia una piccola porzione di stoffa rotonda, un isola minuscola ma evidente.
Aspettami un secondo, vado a fare una telefonata.
Questa volta non ha aggiunto “di lavoro”.

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