Finiti i compiti avevo l'abitudine, con la bella stagione, di sedere fino all'ora di cena, sul gradino di marmo della portafinestra.
Si abitava in collina e da quel poggiolo coglievi una Genova che ti si offriva generosa dalla Foce alla Lanterna, sere in cui tramonti d'uva fragola matura si allungavano da Portofino a Capo Noli, bastava un temporale per avere la magia, fatta colore, di un arcobaleno; a primavera la balaustra di ferro veniva sfiorata dalle ali delle prime rondini che, tornate ai nostri cieli, stridevano a coprire il rumore dei pensieri di chi, come me, stava naso all'aria a contemplare il cielo.
A seguire le nuvole.
Non ricordo quando è stato che il mio anziano vicino cominciò a leggerle - le nuvole - a voce alta, a tempo con il cigolio del dondolo su cui sedeva sul suo terrazzino, anticipandomi le forme diverse in cui si sarebbero trasformate e individuando, volta a volta, sagome di continenti, profili umani e criniere di leone o code di cavallo che si rendevano manifeste nell'azzurro sovrastante.
Timida, non dicevo nulla ma, da quella prima volta in poi, sul finire del pomeriggio, mi accoccolavo con la schiena appoggiata al muro in impaziente attesa.
Delle nuvole e delle parole del mio compagno di giochi.
Anni dopo, quando già non abitavo più nella casa dei miei genitori, seppi che il vicino, non più autosufficiente, era stato trasferito in una casa di riposo e che più tardi era trapassato a miglior vita. Da quel momento ho saputo che, quando alzo gli occhi e scorgo nuvole nel cielo, ce ne sarà sempre una che si muta in un profilo gibboso con la punta di una barba volta in avanti: è il suo modo di continuare a giocare con me.