racconti » Racconti su sentimenti liberi » Il mondo di Giulietta e Romeo. Parte finale.
Il mondo di Giulietta e Romeo. Parte finale.
Giulietta e Romeo fecero la Prima Comunione a maggio. Romeo andò a fare la sua preparazione in un Istituto religioso che praticava la semiclausura: la sera i ragazzi potevano andare a dormire a casa.
Giulietta, invece, secondo la tradizione della sua famiglia fu mandata in un vecchio convento del centro di Roma che praticava la più stretta clausura. Per una settimana le comunicande vivevano un rigido ritiro spirituale basato su prediche e preghiere. Giulietta era angosciata dall'idea del ritiro del quale molte cose la inquietavano, come il dover vivere tanti giorni lontana da sua madre con la quale aveva un rapporto di dipendenza che denunciava la sua insicurezza. Giulietta andò in crisi molto tempo prima di entrare in convento e la sua angoscia aumentava di giorno in giorno. Confidò alla madre il suo timore che in convento, nella camerata in cui avrebbe dormito non ci fosse una piccola luce della quale non era mai riuscita a fare a meno. La madre aveva risposto vagamente e, poiché lei stessa aveva fatto la Prima Comunione nello stesso convento si era lanciata a descrivere le meraviglie del suo ritiro il cui punto forte erano state le prediche: così belle e commoventi - diceva - che spesso le bambine tutte insieme, scoppiavano a piangere.
Giulietta arrivò psicologicamente logorata al giorno del suo ingresso in convento. Le sue pessimistiche previsioni si rivelarono tutte al di sotto della realtà. Il convento era un vecchissimo edificio tetro e labirintico con un triste giardinetto dalle piante polverose che si affacciava su una strada secondaria. Delle prime ore passate in convento Giulietta non ricordò più nulla, ossessionata com'era dalla notte incombente. Anche questa fu peggiore di quanto avesse immaginato. Per motivi logistici non molto chiari fu detto alla bambina che, per quella notte, avrebbe dovuto dormire nella stanza di una suora. Ormai incapace di reazioni, Giulietta seguì la monaca nella sua stanza. Un paravento nero divideva due letti, uno vicino alla porta, l'altro vicino alla finestra. "Quello è il tuo letto" - disse la monaca indicando il letto sotto la finestra. Gli occhi di Giulietta ispezionarono subito la finestra: dalle persiane di legno filtrava una bella luce rassicurante. Ma che cosa avrebbe fatto la monaca delle tapparelle che ora erano aperte? Come se avesse letto il suo pensiero la monaca andò alla finestra, accostò le tapparelle e, prima di chiuderle completamente, si voltò verso la bambina e le chiese: " Preferisci dormire al buio o con un po' di luce?" "Con un po' di luce, grazie" - rispose Giulietta. Tirò un respiro di sollievo e sperò di passare una notte tranquilla.
La monaca si inginocchiò ad un inginocchiatoio che si intravedeva sul lato del paravento vicino alla testata del letto. "Diciamo una preghiera" - disse la monaca. Giulietta si inginocchiò sul pavimento e rispose alle preghiere. "Buona notte - disse la suora - dormi tranquilla!" Allungò il paravento in modo che tutta la sua zona rimanesse coperta e non pronunciò più parola.
Giulietta si spogliò e, infilatasi nel letto, stette un po' a considerare la situazione. La luce che filtrava dalle persiane non era sufficiente ad attenuarle l'angoscia. Si sentiva scaraventata su un'isola deserta da cui desiderava soltanto fuggire. Il sonno trasformò l'angoscia in sogni cupi, spaventosi che la facevano svegliare, sudata e ansimante, per pochi attimi per riafferrarla subito in un giro di vite sempre più stretto.
Finalmente fu svegliata definitivamente da un suono di campane che le mise addosso una pesante tristezza, acuita dal reiterato canto di un gallo. La stanza era illuminata dalla luce dell'alba che doveva essere nuvolosa perché non si percepiva alcun segno di bagliore solare. Suonarono di nuovo le campane: suoni più gravi e suoni più acuti. Annunciavano l'ora ma Giulietta non riusciva a decifrarla perché, prima che le campane finissero di suonare, lei, ogni volta, si era distratta, perdendo il conto dei colpi. L'angoscia della bambina aumentava fino a diventare un peso fisico che le chiudeva la bocca dello stomaco.
Iniziò così la prima giornata in convento, tutta occupata da prediche e preghiere, con i due grossi intervalli del pranzo e della cena e due piccoli momenti di ricreazione nel giardinetto polveroso dove non si poteva parlare a voce troppo alta né fare giochi sfrenati o rumorosi. Gli spostamenti avvenivano attraverso corridoi lunghissimi con volte a botte altissime, sempre scarsamente illuminati. Quei corridoi divennero l'incubo di Giulietta, insieme alle prediche. Non erano commoventi, come raccontava sua madre, ma terrorizzanti. Tutte incentrate sul dramma del peccato e delle sue metafisiche conseguenze: la morte in croce del Figlio di Dio, la condanna all'inferno dell'uomo impenitente. Soprattutto l'idea e l'immagine dell'inferno terrorizzavano Giulietta. Soltanto la possibilità di un luogo così tremendamente doloroso - e per sempre - generava nel cuore della bambina tanta furiosa angoscia che avrebbe voluto non essere mai nata per non dover correre un rischio così disumano. Ed era tanto dominante questa immagine negativa che nessun'altra immagine riusciva a sovrastarla, né quella della infinita misericordia di Dio, né quella dell'espiazione salvifica di un Cristo mite che aveva amato gli uomini fino alla morte.
Carica di emozioni negative, Giulietta arrivò al refettorio per la cena, decisa a fare di tutto per non mangiare, tanto era sicura di vomitare qualsiasi cibo prima ancora che arrivasse nello stomaco. Spinta da un impulso di legittima difesa, alla monaca che stava per mettere al suo posto un piatto di minestra, disse convinta: "Suora, io veramente, fin da ieri sera, volevo dirle che non ceno mai. Mia madre mi tiene leggera altrimenti la notte ho mal di stomaco, come mi è successo la notte scorsa" La suora rimase un po' perplessa. "Vuoi una mozzarella fresca?" - chiese, premurosa. "No, grazie - rispose Giulietta - la sera sono abituata a non mangiare niente". La suora la guardò a lungo; gli occhi della bambina sembravano assolutamente sinceri. "Va bene" - disse - e mise il piatto di minestra ad un altro posto. Giulietta aveva mentito spudoratamente e non percepiva nemmeno come una colpa la sua prima bugia che, certo, come gravità, era la prima.
Passarono sei lunghi giorni tutti ugualmente opprimenti.
Veramente il sesto ebbe un'impennata negativa. Le bambine dovevano fare la loro prima confessione. La predica della mattina aveva come obiettivo quello di formare una coscienza rigorosa anche per il sacramento della Penitenza. Giulietta seguiva distrattamente le parole del sacerdote. La sua mente era come offuscata dall'angoscia che ormai aveva fissato su un unico registro le note della sua affettività. "Sapete, bambine, che cosa successe ad un ragazzo che, volontariamente, nella sua prima confessione, non si era accusato di un peccato mortale?". La voce del sacerdote era modulata per suscitare interesse. La mente di Giulietta ebbe un guizzo.
Ora la bambina era tutta tesa ad ascoltare la conclusione della storia. "Quando il ragazzo tornò a casa fu afferrato dai rimorsi per il sacrilegio compiuto. Mentre sua madre intratteneva i parenti e gli amici venuti a festeggiarlo, andò in camera sua, prese la corda con la quale era solito giocare, la fissò bene al lampadario e s'impiccò. Dopo un po' sua madre, preoccupata per l'assenza del figlio, entrò nella sua stanza e lanciò un grido alla vista della corda dalla quale pendeva suo figlio, morto". Giulietta fu percorsa da un brivido. Terrorizzata dal pensiero della confessione ormai prossima, fra sé pensava: "Come si fa ad essere sicuri che un peccato non sia mortale?". Non le furono di nessun aiuto le distinzioni fra i due peccati che le avevano insegnato alla scuola di catechismo. Il rischio del sacrilegio le sembrò terribile quanto quello dell'inferno e sentì le sue forze assolutamente inadeguate a fronteggiarli entrambi.
Quando arrivò il suo turno per la confessione decise che era meglio non cercare di distinguere. Fece un lunghissimo elenco di colpe al confessore che, dopo una breve esortazione ad essere buona e ad avere fede, le dette l'assoluzione e la penitenza. Ma Giulietta non era serena. Nonostante l'impegno che ci aveva messo non era affatto sicura di aver fatto una buona confessione.
La bambina arrivò al giorno della Prima Comunione psicologicamente molto provata, gravemente diseducata sul piano della fede, affettivamente delusa perché, più o meno consciamente, considerava un tradimento della madre quella lunga separazione che aveva subito come una violenza.
Quando entrò in chiesa per la cerimonia solenne, vestita di un bianco abito monacale, come tutte le altre, guardò subito tra i banchi e si rasserenò un po' vedendo i volti dei parenti.
Il dubbio della confessione sincera si era quasi dissolto - più tardi avrebbe assunto forme patologiche - e tuttavia l'incontro con Gesù al quale Giulietta non cessò di credere per tutta la vita, non fu affatto felice. Fingendo con se stessa un amore che in quelle condizioni non poteva avere spazio nel suo cuore, la bambina si ritrovò presto a pensare al suo ritorno a casa come all'uscita del carcerato dalla galera.
Il ritorno a casa fu un'altra delusione. Non un segno di festa, né fiori, né dolci, né amici invitati, ma un pranzo usuale e insignificante. Giulietta se ne risentì e i parenti si giustificarono dicendo di essere sicuri che le monache conservassero l'antica tradizione di trattenere a pranzo le bambine.
Giulietta, che in quei giorni aveva maturato parecchia malizia, non credette nemmeno una parola e, scrutando i volti dei suoi parenti, giudicò in cuor suo che avessero litigato. Prese i regali di cui tutti erano stati prodighi e cercò di consolarsi con quelli.
Poco tempo dopo la Prima Comunione, Giulietta che aveva vissuto fino allora un'infanzia fatta di esperienze intensamente felici, ma anche di sofferenze e traumi psicologici, cominciò a manifestare gli inequivocabili segni della nevrosi. Anche la sua adolescenza non scorse tranquilla; i disturbi psicologici si consolidarono e col passare del tempo divennero una componente della sua personalità.
Forse furono proprio i momenti felici della sua infanzia a impedire che Giulietta fosse travolta dalla sua nevrosi. Per molto tempo provò un risentimento simile all'odio verso gli adulti che non l'avevano capita, che l'avevano offesa e turbata. Poi imparò a capire le loro debolezze, i loro errori, le loro nevrosi probabilmente causate da altri adulti. Con molta fatica e un po' di anni riuscì a recuperare un certo equilibrio affettivo che le consentì di amare non solo i suoi parenti, ma tutti i sofferenti, da quelli più vicini a quelli più lontani. Quel Dio che, attraverso le parole stupide o empie degli adulti, l'aveva terrorizzata per anni, a poco a poco le si rivelò come un tenero padre, un amico affidabile.
Quando dalla zona oscura del suo essere riemergeva l'immagine minacciosa del Dio della sua infanzia, Giulietta ripeteva le parole delle Beatitudini: "Beati coloro che sono nella tristezza perché Dio li consolerà" Giulietta pensava: "Come potrebbe un Dio che ha sofferto la morte in croce ed ha provato tutto l'amaro della tristezza, negare il suo sorriso a chi è stato molte volte triste?. E quale essere umano non ha conosciuto, almeno una volta, l'amaro sapore della tristezza?".
1234
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- Bella storia, fa riflettere molto e il finale me lo sono chiesta molte volte anche io.
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0