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Elisabeth

Portava il sari come chi ci è nato dentro, ma la sua pelle era bianca come il latte. Occhi verdi, capelli biondi raccolti sulla nuca, portamento degno di Buckingham Palace.
Nessuno pareva accorgersi della differenza, tra i fedeli stipati nel Tempio di Ramana Maharshi per la puja serale. Nessuno eccetto Majid, per l'anagrafe Alejandro Vàzquez y Garçia, economista rampante di Santander.
Mai una donna lo aveva incuriosito tanto.
Lei stava là, stretta nel gruppo di donne indiane accovacciate sul pavimento, il busto eretto a sovrastarle tutte, la voce a confondersi con tutte nel canto dei Vedaparayana... in perfetto sanscrito! Il gruppo degli uomini intercalava il canto, in un dialogo monotono e ipnotico che durava più di mezz'ora. Poi la campanella del nerboruto bramino chiamava tutti al fuoco sacro. Majid restava al suo posto e seguiva rapito la "sua" donna, che si alzava con garbo per mettersi diligentemente in fila con le altre. La osservava protendere le lunghe mani sulle fiamme del braciere, per poi portarsele sul capo, sul viso e sul cuore, dove si intrecciavano con umiltà per ricevere il tilack dal sacerdote. Il suo volto non tradiva nessuna emozione, solo un altero isolamento, venato forse di tristezza.
Lui non aveva la stessa dimestichezza con i riti che si consumavano al tempio.
Era venuto a Tiruvannamalai per seguire i satzang di un maestro dell'advaita vedanta, sperando di annullare in quella filosofia le sue ansie di occidentale del business. Aveva faticato non poco per fare a pezzi il proprio ego, ma in cambio aveva ricevuto una nuova identità: per tutta la durata delle sue ferie era Swami Deva Majid, indossava kurta bianche o arancioni, scopriva il cielo ciabattando nella polvere e si abbandonava con un certo gusto a quell'antica filosofia che dolcemente deresponsabilizza: tutto è maya, illusione. Tutto è uno e nasce dal nulla. Ma soprattutto non devi muovere un dito per far accadere le cose. A questo molti attribuiscono l'ignavia degli indiani, salvo restando che quando se la scrollano di dosso diventano subito numeri uno, specialmente nell'informatica, regno del non-reale.

Ormai Majid andava alla puja solo per vederla e mentalmente l'aveva battezzata Elisabeth. Finché una sera decise di seguirla.
La via del tempio era popolata di sadhu, che congiungevano le mani al suo passaggio, come se la conoscessero da tempo. Ogni tanto Elisabeth si fermava e lasciava una moneta nella mano ossuta del più anziano, racchiudendola per un attimo tra le sue, senza un particolare moto del cuore, ma con la condiscendenza di una dea.
Majid notò che sul lato opposto della strada un rickshò guidato da un tipo losco e butterato la seguiva a passo d'uomo senza perderla mai di vista. Che Elisabeth avesse dei nemici? Uno spasimante insistente? Era forse in pericolo? Già era pronto ad affrontare il brutto ceffo quando, con sua grande meraviglia, vide Elisabeth fargli un cenno. Il rickshò-man si avvicinò, le sorrise come un servitore sorride alla sua regina e la caricò ossequioso.
Majid non si lasciò prendere alla sprovvista: acchiappò un rickhsò al volo e si diede all'inseguimento. Attraversarono il piccolo borgo, si inoltrarono alle pendici dell'Arunachala, svoltarono su una strada sterrata e... All'improvviso il suo autista frenò bruscamente, estrasse un bidi e se l'accese serafico, nonostante le proteste del suo cliente: una grossa mucca bianca stava indolentemente attraversando e, si sa, in India le mucche hanno la precedenza assoluta sugli umani.

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2 commenti     1 recensioni    

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1 recensioni:

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  • Anonimo il 06/03/2013 08:41
    ... un racconto da leggere
    e rileggere, che induce alla
    riflessione, i miei
    complimenti...

2 commenti:

  • Ermete Marrocco il 21/12/2010 23:33
    Bel racconto. Nonostante la sua brevità, riesce a costruire un'atmosfera e poi a spiazzare più di una volta. Inoltre, mi arrischio a dire che lo stridente contrasto tra la magica aria di mistero che pervade l'inizio e l'ironia fatalista del finale condensino da una parte la concezione in qualche modo esotica e superficiale che gli occidentali tendono ad avere dell'Oriente, dall'altra la visione ricolma di saggezza e candore con la quale gli orientali guardano il mondo.
  • Anonimo il 17/12/2010 16:07
    Fuori dal comune... scritto molto bene e con scelta accurata delle parole. Periodi scorrevolissimi nonostante la terminologia orientale, nomi compresi, che possono disturbare l'attenzione del lettore come me che delle religioni se ne fa non uno ma tre baffi, pur rispettandole.
    la prima parte a dir poco stupenda, nelle mie corde e nei miei gusti. Poi diventa una specie di giallo, bello anche se devo confessare che non è il mio genere.
    pare quasi che sia un estratto di un romanzo più che un racconto a se stante.
    finale grottesco e divertente... la faccenda del peto personalmente mi disturba ma mi ha fatto sorridere. Comunque anch'io mi sarei smontato, per quello. ma per il nome no, via... Sally o Elisabeth, che differenza fa? Lo dice uno che amava sua madre come nessuna e si chiamava Elisabetta... però potevo innamorarmi pure di una che si chiamasse Asdrubala.
    Su Elisabetta( Bettina) ho scritto una poesia: A mia madre. ciaociao e brava davero.

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