Occhi espressivi sognanti, pochi gesti apparentemente semplici, vestito in modo dimesso quasi in bianco e nero, abiti larghi e buffi ma nessuna maschera, salvo il proprio volto, consapevole di appartenere a questo mondo triste e folle, una vitalità fanciullesca quasi senza parole, fatta solo di gesti e d'oggetti d'uso comune, animati quasi per magia dalla sua fantasia, dalla sua voglia di stupire e di stupirsi ancora.
Ad ogni applauso abbozzava un sorriso incredulo, come quello di un bambino che non crede ai propri occhi, in realtà sapeva di averci trafitto, e per una frazione di secondo con lo sguardo contemplava quell'effetto, i suoi occhi ridevano felici appoggiati sulle rughe.
Mentre l'osservavo il mondo che mi circondava si sgretolava lentamente, come le mura cadenti di un vecchio rudere, o scintillanti città ipertecnologiche travolte da uno tzunami, tutta quella complessità che mi circondava colava come la cera di una candela e si perdeva in mille rivoli fra le assi sconnesse del palco.
Riemergevo finalmente dopo una lunga apnea a pochi passi dal palcoscenico, seduto su una sedia di legno con gli occhi rapiti da quell'uomo, da quel bambino di cinquant'anni che mi urlava nell'anima.