Capitolo I
Tutto cominciò quel venerdì 17 di settembre: Elena, la mia assistente, come oggi si chiamano le segretarie, era rimasta a casa indisposta, il direttore della banca era ancora impegnato, i miei piedi gelavano nelle scarpe bagnate e fuori continuava a piovigginare dal cielo grigio.
Avvisai l'impiegata più vicina che non potevo attendere oltre senza un caffé, lei rispose di pazientare ancora un po' che il direttore stava arrivando.
Infatti, proprio in quel momento nel corridoio si materializzò il dott. Alibrandi, piegato in due come un compasso, che fissava ossequioso le natiche di una signora impellicciata che si allontanava altezzosa, lasciando una scia di profumo.
Non appena, la donna fu fuori della visuale, lui mutò espressione e, abbandonata la posizione servile, si volse nella mia direzione con la faccia più severa del suo repertorio, sibilando che qualcosa non quadrava nel mio conto corrente, invitandomi con la mano a seguirlo.
Nel suo ufficio, il direttore mi apostrofava per cognome e raschiandosi la gola, lamentava che il mio migliore cliente non aveva ancora onorato una fattura, ampiamente scaduta, naturalmente scontata nella sua banca. Poi, ricordandosi di un impegno urgente, mi congedò, suggerendomi di sollecitare seriamente il pagamento, concludendo con: "Sempre che il credito sussista veramente", mettendo in dubbio la correttezza dell'operazione.
Me ne andai maledicendo il funzionario che alla fine del mese riceveva un regolare stipendio, mentre io dovevo sgobbare per trovare i clienti e poi, ancora di più, per farmi pagare.
In fondo al viale, ancora più oscuro del cielo, si stagliava il tetto ovale del mio capannone e sulla destra si rifletteva, pallida come la luna, la palazzina uffici, rivestita di travertino.
Il telecomando mi riconobbe e il cancello girò sui cardini lasciandomi entrare.
Non avevo ancora chiuso la porta dell'automobile che mi raggiunse la voce di Giuseppe Mancini, il direttore della produzione, che urlava dalla cima delle scale che doveva dirmi una cosa urgentemente.
Nella saletta, attendeva seduto Oliviero, un giovane ingegnere assunto da poco, che tratteneva tra le mani un tubo blu di nuova produzione.
Il giovane, al nostro ingresso, saltò in piedi, mentre Giuseppe gli sottraeva il tubo.
"Sai cosa succede?" domandò, "no che non lo so" risposi "e sbrigati a dirmelo invece di giocare agli indovinelli, oggi non sono proprio in vena, anzi, raccontami mentre ci beviamo un caffé, secondo te porta più iella il venerdì 13 o il 17?", "Per quello che sta succedendo è più probabile il 17", riprese l'altro cupo.
Oliviero si precipitò a prendere i caffé dalla macchinetta. Giuseppe, intanto, sgranando gli occhi verso il soffitto, raccontava che la resina, con cui erano fatti i nuovi tubi, perdeva, infatti le prove di collaudo dell'ultimo impianto realizzato avevano evidenziato che la quantità di acqua rilasciata dai condotti risultava inferiore a quella immessa e il cliente se n'era accorto subito, perché dotato di un sistema di controllo per risparmiare sui consumi, e adesso pretendeva la sostituzione dei tubi.
"Ma dai!", sbottai spazientito, "ci sarà un tubo mal collegato oppure rotto, basta sostituire quello e l'impianto non perderà più, forse occorrerà attendere che il terreno si asciughi che con tutta l'acqua che è venuta giù, sfido chiunque a trovare la perdita, nel frattempo tranquillizza il cliente e risparmiami queste sciocchezze".
" Guarda che se fosse così, non starei qui a farti perdere tempo, non c'è nessun difetto, i tubi sono tutti ok, però l'impianto perde e non si sa dove, né perché" rispose Mancini, su di giri. "Ma i nuovi tubi sono già stati utilizzati in altre occasioni e non perdevano", dissi. "Sì, ma non per trasportare acqua. Faremo altri controlli, ti farò sapere", concluse lui.
Osservavo il cielo da alcuni minuti, immaginando che tra non molto sarebbe di nuovo piovuto, mentre riflettevo sugli ultimi avvenimenti. Per far fronte alle necessità di cassa avevo già emesso una fattura su quel lavoro che consideravo concluso e che era tra quelle anticipate in banca.
Chiamai Mariangela, la responsabile del laboratorio di analisi che giunse portando due caffé. "Allora cosa succede, ti trovo giù, cos'è che non va?", chiese aggrottando la fronte. La rimirai per qualche secondo, dimenticando i crucci, era ancora più carina del solito e, pensai che mi sarebbe piaciuto portarmela a letto.
Prendemmo il caffé in silenzio, io la guardavo e lei sorrideva.
Le raccontai dei tubi e chiesi la sua opinione. Lei rispose che doveva trattarsi di qualche errore di montaggio ma per maggiore cautela, mi assicurò, avrebbe controllato personalmente il ciclo di produzione dell'impianto e tutti i componenti utilizzati. La pregai di fare in fretta perché avevo necessità di fatturare il lavoro per far fronte a sopraggiunti impegni finanziari; lei assicurò la massima collaborazione e mi strinse la mano.
Al contatto della sua pelle liscia mi sentii subito meglio e mi tornò il buon umore, "quando abbiamo risolto il caso festeggiamo insieme in un bel locale" le dissi, salutandola, "quando vuoi", rispose strizzando gli occhi.
Parcheggiai di fronte casa mia con il mal di testa e intenzionato a non vedere nessuno, ma mia moglie, con la quale ero sposato da undici anni e che ormai era più spesso una sorella che un'amante, mi ricordò che eravamo attesi per la cena, a casa della sua amica Marilena, una tipa saccente che sapeva sempre tutto e il cibo lo avrebbe cucinato suo marito Carlo che sapeva fare soltanto schifezze troppo condite.
"Stasera menù brasiliano", avvertì Gianna, "in ricordo delle loro recenti vacanze a Salvador, mica come noi che invece siamo andati ad Alassio; lui, è un imprenditore che guadagna, non come te che lavori per hobby". "Va bene vengo alla cena se la pianti, altrimenti ci vai da sola e io mi faccio le penne all'arrabbiata", conclusi e me ne andai in bagno.
Marilena ci accolse tutta vestita di bianco, con una scollatura abissale che lasciava scoperta l'abbronzatura delle spalle e del seno che si indovinava libero sotto la stoffa leggera. Carlo indossava invece una camicia floreale comperata di sicuro in Brasile e in cucina ci offrì caipirinha, con tanto ghiaccio.
Più tardi, dopo la carne arrostita, ananas e molti bicchieri di vino, riappacificato con il mondo e di buon umore, sorseggiavo caciassa sul divano, sfogliando l'album delle foto delle vacanze. La padrona di casa sorrideva, da uno sfondo di palme e mare turchino, coperta soltanto da microscopici tanga che lei giurava castigati, rispetto a quelli indossati dalle altre bagnanti.
Gianna, allora, su di giri a causa dell'alcool, di rimando, scoprì le cosce per dimostrare che, senza arrivare in Brasile, anche lei si era abbronzata, " anche in Liguria c'era un bel sole", disse, sforbiciando le gambe.
Carlo osservava con interesse e lei, cogliendo il suo sguardo, si ricoprì arrossendo. "Che bello! Ti vergogni di me" osservò lui, battendo le mani, "e quando facevamo la sauna nudi in Alto Adige?" "Ma dai! Non essere ridicolo", rispose mia moglie, allontanandolo con una mano che lui trattenne tra le sue e, poi, rivolgendosi verso di me, con voce complice, propose: "senti, per pareggiare, non ti va di vedere le gambe di Marilena?" e poi in direzione della moglie, " su non farti pregare facci uno strip".
Lei ridendo di gola, si alzò in piedi, avviò una musica brasiliana e cominciò ad accennare alcuni passi di danza, poi, sollevò con le mani l'ampia gonna, mostrando ai presenti via via: le gambe abbronzate, il tanga nero e le natiche sode e infine, sempre a ritmo di musica, si sfilò l'abito dalla testa, liberando i capezzoli che sporsero curiosi, e si lasciò cadere al mio fianco. Carlo, intanto, sbottonava la camicetta di Gianna che lo lasciava fare, dicendo di essere lui ora in credito.
Senza rendermene conto, mi trovai ad abbracciare Marilena, mentre Carlo si baciava con Gianna; poi ci trasferimmo in camera da letto.
Più tardi, nella notte, sostammo per un ultimo saluto sulla porta: Marilena sussurrava nel mio orecchio che tra noi ormai tutto sarebbe stato diverso, Carlo continuava a baciarsi con Gianna.
In macchina, percorremmo il tragitto in silenzio, quando parcheggiai, lei domandò se lo avremmo rifatto, "visto come ti davi da fare penso di si", risposi, "così, io mi davo da fare e tu? Hai monopolizzato Marilena e non l'hai più lasciata", "perché tu eri troppo occupata con Carlo, però non litighiamo, è piaciuto ad entrambi e per me lo rifarei", conclusi.
Lunedì pomeriggio Mancini mi comunicò di avere individuato la tubatura difettosa e di averne segnalato i codici identificativi per i controlli. Chiamai subito Mariangela e lei non si fece attendere. Arrivò vestita con pantaloni attillati e un giacchino di velluto, da cui faceva capolino un filo di merletto, forse del reggiseno. Notai che, aveva accorciato i capelli, era truccata e, contrariamente al solito, portava scarpe con tacchi alti.
Appoggiò sulla scrivania due caffé, la ringraziai tentando un abbozzo di complimento, ma lei entrò subito in tema. Spiegò che la tubazione, difettosa, era stata realizzata con una miscela diversa da quella solita, prevista nel ciclo di produzione, e, di conseguenza, anche la lavorazione era stata modificata. Il responsabile del'iniziativa era il giovane ing. Oliviero che aveva fatto di testa sua, senza avvisare né lei né il suo capo e ancora non si conoscevano i motivi della perdita, "magari i tubi non reggono la pressione, ciao che ho da fare", concluse. Cercai di trattenerla ma lei, con un sorriso, si allontanò.
A casa trovai Gianna che frugava nei cassetti, al mio saluto rispose che Marilena ci aspettava per cena e, sparì in bagno. Feci la doccia nell'altro, di servizio e cominciai ad immaginarmi la serata. In camera da letto, lei, trafficava davanti allo specchio, cercando d'infilarsi un abito attillato sopra una guepiere nera e sgambata che non metteva da anni e, ancora per un attimo, potei ammirare, con risvegliato interesse, le cosce, solcate dagli elastici del reggicalze.
Tornammo molto tardi e su di giri. Gianna canticchiava, mentre cercavo parcheggio e, quando l'aiutai a scendere, si aggrappò a me, lamentando con voce roca, di aver bevuto troppo.
Rideva ancora mentre aprivo la porta d'ingresso, poi si precipitò in bagno perdendo le scarpe e gridando: "mi scappa forte". Quando mi affacciai, lei era già sotto la doccia, i suoi abiti ammonticchiati in disordine. "Ti è piaciuta la serata?", chiesi con finta indifferenza, cercando lo spazzolino. "Sii", rispose, "sono una sporcacciona, non è vero? Hai visto con Marilena? Non credevo che mi sarebbe piaciuto con una donna e anche lei godeva forte" , "È vero eravate due porche, non ti avevo mai vista così" "anche per me è stata una scoperta, il sesso non mi era mai piaciuto tanto, non vedo l'ora di rifarlo", canticchiava lei. Poi, a letto, ci stringemmo ancora eccitati, ma il sonno ebbe in breve la meglio.
Il giorno successivo, Martini mi informò di aver fatto sostituire i tubi difettosi e che ora l'impianto funzionava a dovere: il cliente mandava saluti ed attendeva la fattura, pronto a pagare subito, i tubi rimossi erano stati consegnati a Mariangela per i controlli.
Il cassiere della banca avvisò poco dopo dell'avvenuto pagamento delle fatture scadute.
La giornata volgeva al bello in tutti i sensi e anche il cielo aveva assunto un colore azzurino.
Presi due caffé e andai da Mariangela. Lei era in camice bianco, intenta ad osservare qualcosa con il microscopio. "Stavo giusto per chiamarti" disse al mio ingresso, "grazie per il caffé ne avevo giusto voglia, ho fatto una scoperta strana e sto cercando di scoprirne la causa".
Prendemmo il caffé e poi lei riprese il discorso: "I tubi perdono in modo invisibile; sembra che l'acqua in essi contenuta evapori ed il vapore se ne vada, in modo misterioso, attraverso la struttura stessa del condotto, senza lasciare tracce di umidità e in assenza di calore".
Assicurò che avrebbe presto risolto il mistero. Io la ringraziai per la disponibilità, elogiai la sua capacità, ricordandole la promessa di festeggiare insieme; lei sorrise e rimandò la cosa alla soluzione dell'enigma. Io proposi di festeggiare due volte: subito e poi di nuovo, quando fosse stato trovato l'origine del difetto. Lei ribatté il suo no e tornò al lavoro, io mi allontanai contrariato.
Trascorsi una settimana in giro per il Veneto ad incontrare clienti e a visitare una fiera di settore. Era venerdì quando tornai in fabbrica allegro e con un bel contratto firmato nella cartella. Elena si era fatta bionda, la guardai stupito e lei disse che era stanca del suo colore castano e mi chiese se l'avessi preferita più scura, risposi che stava benissimo così e che, per conto mio, avrei anche tagliato i capelli più corti.
Poi chiamai Mariangela, un'impiegata rispose che la dottoressa Galli era uscita e che l'avrebbe avvisata al suo ritorno. Andai a prendere il caffé da solo.
Subito dopo la pausa pranzo, Mariangela si fece viva al telefono e con voce professionale mi invitò a raggiungerla nel laboratorio.
La trovai china su un tabulato zeppo di numeri e non potei evitare di ammirare le gambe che s'inerpicavano snelle su in alto, dove sparivano sotto la corolla di una gonna corta. Al mio saluto lei rispose facendomi cenno con la testa di avvicinarmi, scoprendo nel movimento l'attaccatura dei capelli vicino l'orecchio, dove notai una piccola rosa rossa con le iniziali M e G, tatuata proprio dove avrei voluto poggiare le mie labbra. "E questo quando te lo sei fatta?" Chiesi sfiorando il fiorellino. "All'università, il giorno della laurea ma torniamo a noi, questi tubi mi stanno facendo diventare matta, sembra che, insieme all'acqua, conducano anche quantità di ossigeno ed ozono, che sostituiscono in qualche modo il liquido mancante. L'acqua, come sai, non può essere compressa e deve dunque defluire da qualche parte, invece nel nostro caso le molecole in eccesso evaporano senza danneggiare il contenitore". "Vuoi dire che, sotto pressione, l'acqua libera ossigeno. E, l'idrogeno dove finisce?" chiesi incuriosito, "bella domanda, ancora non lo so, ma stai tranquillo che lo scoprirò presto e poi lo farò esplodere", "brava, magari costruisci un nuovo tipo di bomba, non sarebbe il caso, invece, di dedicarti ad attività più urgenti?, Il lavoro è stato ormai accettato e fatturato, tanto vale archiviare il caso", ma, visto che la ragazza non demordeva, salutai e tornai in ufficio.
Quella sera aspettavamo gli amici a casa nostra.
Gianna aveva indossato un abito che le lasciava scoperte le spalle e si era spruzzata un nuovo profumo. La tavola era già apparecchiata con il servizio buono ed un bouquet di fiori in centro tavola.
"Che dici? Mi metto direttamente la vestaglia con il dragone oppure mi bastano i boxer rossi con babbo natale?" domandai ironico, "non fare lo scemo, vestiti che tra poco arrivano e non fingere di sopportare, lo so bene che la cosa ti piace e Marilena si è comprata un completino carinissimo, proprio per stasera".
Anche Carlo aveva portato una sorpresa, un pacchetto che, disse, bisognava aprire dopo mangiato.
Più tardi, mentre sorseggiavamo champagne, aprimmo il pacchetto misterioso e, ridendo, Carlo ci mostrò, ben adagiato in un cofanetto cilindrico, un nuovo tipo di vibratore color carne, che, spiegò, poteva essere utilizzato a mano ma ancor meglio indossato tramite alcune cinghiette e che, lui, disse, era impaziente di vederlo usato dalle signore tra di loro.
Dopo i saluti, ci mettemmo a riordinare un po'. Nel letto rinvenimmo il vibratore e Gianna ruppe, finalmente, il silenzio: "Hai visto? Mio padre aveva ragione, nelle cose occorre sempre usare pugno di ferro e guanto di velluto, infatti, con decisione e un po' d'olio, Marilena, dopo tanto frignare, l'ha preso tutto", "ho visto, sei stata implacabile", "e tu, da bravo porco, non appena ti ho lasciato un po' di spazio ne hai approfittato, infilandoti subito nel suo buchetto", ridacchiò lei, "Definirlo così, dopo il tuo intervento, mi sembra riduttivo, però, visto che ne parliamo, mi viene in mente che anche tu dovresti provarlo, con decisione e un po' d'olio, come ricordava il tuo povero papà".
"Ciao! Hai dormito bene?" Chiese Mariangela varcando il mio ufficio "Si, perché, cosa succede?", Risposi. "Reggiti forte, ho fatto una scoperta incredibile" riprese lei, "la resina modificata da Oliviero si comporta come una sorta di catalizzatore e le molecole dell'acqua che ne vengono in contatto, liberano gli atomi di idrogeno che fuoriescono dai micro fori della struttura del tubo, perdendosi nell'aria, mentre l'ossigeno rimane nella conduttura, insieme all'acqua residua".
"Impossibile! Ne sei certa? Sembra una specie di fusione fredda, potremmo ricavare idrogeno dall'acqua senza costi energetici, hai misurato la resa?", Chiesi, "non in maniera precisa ma siamo intorno al 15% dell'acqua immessa, una quantità enorme". Ci lasciammo promettendoci di mantenere il riserbo assoluto sulla scoperta.
La settimana successiva, incaricai lo studio Mariotti di svolgere le pratiche, necessarie per la registrazione del brevetto, del processo di fabbricazione della resina, denominato "Hidromake" e la costituzione della società che lo avrebbe sfruttato, che battezzammo Hidrogen, al 30% con Mariangela e Oliviero.
Per pranzo, avevo prenotato una saletta tutta per noi. Mariangela era allegra ed io sprofondavo nel verde dei suoi occhi. Giovanni Oliviero, invece, dopo il dolce, un po' imbarazzato, ci informò d'aver già preparato i disegni di un prototipo di pompa capace di comprimere in un serbatoio l'idrogeno ricavato per mezzo di un circuito di tubi Hidromake. Mariangela gli fece i complimenti, lui arrossì ed io l'incoraggiai a realizzare il prototipo. Brindammo, con un passito profumato e ambrato, alle future fortune e poi tornammo in fabbrica.
In banca, il direttore mi spiegò, paziente, che lui non poteva concedere nemmeno un euro di scoperto alla nuova società, in quanto le mie garanzie coprivano, a malapena, le linee di credito esistenti; mentre i nuovi soci non avevano nulla da offrire, oltre le buste paga, a meno che non si procurassero avalli da parenti, e/o amici, proprietari di beni immobili; infine mi consigliò una banca di medio credito, di cui conosceva il direttore.
In un salone assolato del settimo piano, trovai il dottor Giacomelli che si nascondeva dietro un ficus enorme. Emozionato più di un padre in attesa, mi informò, che si era appena dischiuso un fiore, raro e di profumo prelibato, che volle farmi ammirare. Poi, dopo un lungo monologo sull'origine della pianta e le sue capacità filtranti, chiese come poteva essermi utile.
Raccontai della nuova società nata per mettere a frutto un nuovo brevetto che aveva bisogno di un finanziamento per iniziare ad operare. Lui ascoltò attentamente, lodò l'iniziativa ed assicurò che la sua banca era proprio quella giusta, specializzata nello start up di giovani imprese e mi sollecitò la stesura del master plan del progetto, comprensivo del budget quinquennale. Per la redazione del documento, che definiva abbastanza complicato, suggerì di utilizzare uno studio di consulenza specializzato, dove lavorava sua figlia Daniela ed il fidanzato di lei.
La signorina Giacomelli, era magra e somigliava, purtroppo, al padre, ma, almeno era simpatica. Spiegò che la sua azienda svolgeva il difficile mestiere della consulenza per la richiesta di finanziamenti bancari, statali e regionali e correlate agevolazioni. Concordammo un contratto di assistenza per un finanziamento di medio credito e a tal fine incaricai l'ing. Oliviero dei collegamenti.
Mariangela suggerì di preparare un progetto per la realizzazione di una centrale elettrica di piccole dimensioni, alimentata ad idrogeno, prototipo di una nuova generazione di centrali pulite, a bassi costi energetici adatte per fabbriche, condomini, e altro. L'idea piacque a tutti e fu approvata.
Capitolo II
Quella sera rincasai presto e non trovai Gianna. In camera, una scatola rossa, priva di indicazioni, giaceva aperta sul letto. Incuriosito la rigirai tra le mani e scoprii su un lato un numero, 42, l'indicazione della sua taglia, doveva contenere un capo di abbigliamento. Tornai in cucina e cominciai ad armeggiare con i fornelli, per farle trovare qualcosa di pronto, al suo ritorno. Lei arrivò mentre iniziava il telegiornale, scusandosi del ritardo causato dal traffico. Cenammo in silenzio e poi, accusando un male di testa, se ne andò a letto, tirandosi dietro la porta. A quel punto, abbandonato il programma erotico che avevo abbozzato per il dopo cena, svogliato, mi misi a fare zapping, alla ricerca di un film decente.
Lo studio del progetto, ci impegnò per un mese e, quando, finalmente, il documento fu pronto, Daniela, con la quale ci davamo ormai del tu, avvertì che per completare la pratica mancavano soltanto l'allegato delle garanzie, a copertura dell'intervento bancario, e l'impegno formale, da parte nostra, a versare, al momento della stipula del contratto, una somma in denaro o l'equivalente fideiussione di valore almeno pari al 40% del finanziamento richiesto o, in mancanza, l'indicazione di eventuali aziende partner nel progetto che se ne assumessero l'onere.
"Ma tuo padre non aveva parlato di garanzie, aveva detto che la banca era specializzata proprio in start up! Allora qual è la differenza con la mia banca che è sempre pronta ad offrire soldi su pegno", chiesi irritato. "Le banche chiedono sempre garanzie, e mi fa specie che tu mi faccia questa domanda, la tua banca di breve credito è pronta a prestare soldi, dietro garanzie di valore almeno doppio dell'importo richiesto, e, inoltre, può recedere in qualsiasi momento e senza spiegazioni; una banca di medio termine si impegna, invece, a finanziare per un lasso di tempo definito, un progetto valutato economicamente vantaggioso, richiedendo garanzie più limitate, e pretendendo che il cliente partecipi in proprio ad una parte dell'investimento, a dimostrazione della sua serietà".
"E se il cliente ha un buon progetto ma non ha soldi?", "peccato vuol dire che resterà nel libro dei sogni, tu, però, sei in grado di trovare un partner, credo che non ti sia difficile convincere un'azienda del settore energetico a partecipare alla costruzione della centrale, con il tuo brevetto e il prototipo. Inoltre, potremmo cercare di ottenere finanziamenti agevolati dallo Stato". Daniela salutò e ci lasciò a meditare.
Mariangela ruppe il silenzio, per suggerire che si poteva cercare di parlarne con la locale Azienda energetica municipale per saggiarne l'interesse. Mi ricordai, allora, che un amico dei tempi dell'università lavorava proprio lì, decisi di incontrarlo per avere consigli.
Al telefono, Riccardo rispose subito e si ricordava perfettamente di me, decidemmo di vederci il mattino successivo.
Lui era magro come ai tempi di scuola, portava gli stessi occhiali di allora e vestiva sportivo, giacca a quadretti e pantaloni di flanella, come quando veniva a casa mia a studiare. Mi raccontò che dopo la laurea era stato assunto da una multinazionale che vendeva grandi computer, per conto della quale aveva allestito il centro di calcolo dell'azienda municipale che poi lo aveva trattenuto asssieme alle macchine. Ora era diventato il responsabile delle procedure automatizzate, in pratica tutte.
Io gli raccontai della mia scelta di mettermi in proprio, della nuova società e del progetto dell'idrogeno. Riccardo chiese informazioni e poi si congratulò con me della scoperta che giudicava incredibile e di portata storica. Assicurò il suo appoggio e si propose come tramite verso la Direzione Generale.
Prendemmo il caffé, servito da una gentile segretaria e poi ci lasciammo con la promessa di rivederci presto.
Tornando in ufficio mi ricordai che quel giorno era il compleanno di Elena che, per la ricorrenza, avrebbe di sicuro portato una torta in ufficio. Decisi di fermarmi in un negozio di bigiotteria che piaceva anche a Gianna, per comprare un regalino. La commessa sorrise complice, mentre incartava il braccialetto, e io realizzai che stesse immaginando un peccato che invece non avevo commesso, pagai ed uscii.
Pensavo che avrei dovuto avvisare Gianna del regalino, mentre rallentavo il passo davanti al suo negozio di biancheria preferito. Sbirciai all'interno e, tra una cascata di calze colorate che addobbavano la vetrina, le vidi, Gianna e Marilena ridevano mentre aprivano scatole trasparenti che contenevano indumenti che sembravano fatti soltanto di velo e merletti. Poi, sparirono dentro uno stanzino di prova.
Rientrai in fabbrica giusto in tempo per il taglio della torta, Elena tubò contenta, alla vista del regalo, che volle indossare immediatamente, mentre Mariangela, in disparte, osservava la scena.
Quella sera, Gianna raccontò di aver trascorso tutto il giorno tra scartoffie ammuffite. Io chiesi notizie di Carlo e Marilena che non incontravamo da tempo, lei rispose che Marilena non era stata bene e che non aveva voglia di ammucchiate. Carlo, che invece ne avrebbe, comprendeva e aspettava. "Potremmo invitare lui da solo, saresti la reginetta della festa" proposi, "sei matto! Senza Marilena non lo farei mai" rispose.
Riccardo mi attendeva all'uscita dell'ascensore e, appena le porte si spalancarono, mi invitò a rimanere nella cabina, dove salì anche lui. "Andiamo all'ultimo piano, dove ci aspetta il direttore".
Sedemmo nella sala riunione, attorno ad un tavolo di cristallo, apparecchiato con block notes, bottiglie di minerale e una caraffa di caffé americano. Il direttore ci raggiunse accompagnato da una signora che presentò come responsabile delle strategie di mercato. La signora Maria Giraudo avrà avuto cinquanta anni ed era ancora molto bella ed elegante, con un leggero accento milanese, che ne accentuava il fascino; precisò che fare elettricità con l'idrogeno era una tecnologia già accantonata, in quanto falsa soluzione, mentre il futuro avrebbe richiesto sempre più l'utilizzo sia di energia atomica che di fonti rinnovabili, in un mix variabile. L'Azienda municipale era orientata verso il nucleare di nuova generazione, per il quale aveva già pronto un piano di investimenti, da usare in joint venture con una consorella americana, leader nello specifico settore.
Chiesi perché l'utilizzo dell'idrogeno era considerato superato e lei, con un sorrisetto di sufficienza, spiegò che l'idrogeno era un gas che non esisteva in natura e produrlo, richiedeva un notevole consumo di energia, che, quindi, lo escludeva dalle fonti. Semmai poteva considerarsi un vettore, cioè un mezzo per immagazzinare energia prodotta da altre fonti, da utilizzare per scopi ben precisi, perché immagazzinare ha un costo energetico di circa il 25% dell'energia coinvolta, e quindi, a parità di energia utile, richiedeva un consumo superiore della fonte energetica primaria, di solito idrocarburi. L'unico merito potrebbe perciò essere quello di allontanare l'inquinamento dalle città, per spostarlo altrove.
Risposi che avrebbe ragione, nel caso l'idrogeno dovesse essere generato mediante energia elettrica di origine fossile (petrolio, gas, carbone e derivati) oppure, per "reforming" degli stessi materiali. L'idrogeno può, però, essere prodotto in modo diverso, per esempio da cellule fotovoltaiche oppure con catalizzatori in forni solari. Lei rispose che erano soltanto bei sogni, mentre per intervenire sul serio sull'inquinamento, in tempi ragionevoli, non c'erano soluzioni alternative al nucleare.
Ovviamente, precisò, la soluzione ottimale l'avremmo da centrali a fusione di idrogeno, ma in attesa di risolvere il problema delle altissime temperature, oppure di scoprire tecnologie di fusione fredda, ci dovevamo accontentare delle nuove tecnologie di fissione dell'uranio; sicure e con scorie limitate.
Io allora rivelai che ero in possesso di un brevetto per la produzione di un catalizzatore capace di liberare l'idrogeno dall'acqua, per mezzo di un processo chimico a temperatura ambiente, che potevo dimostrare con un prototipo.
Ci accordammo per una prova da effettuare nel nostro laboratorio la settimana successiva, salutai Riccardo e avvisai Elena che sarei rincasato senza passare dalla fabbrica.
Gianna non c'era e sul comò, in bella mostra, era aperta la scatola rossa che avevo già notato, incuriosito aprii i cassetti alla ricerca di contenitori simili, ne trovai un altro sotto gli asciugamani. Aprii il coperchio e all'interno ammirai, coordinati in pelle nera, un reggiseno, un tanga, quattro bracciali dotati di fibbie e anelli d'acciaio e, sotto, nascosto, come un serpente, un enorme fallo nero, realizzato in legno lucido. Non trovai, invece, il vibratore, che solitamente riposava nel comodino. Raccolsi la mia roba e uscii di casa senza lasciare segni del mio passaggio. Girovagai per un po', mi fermai in un bar e poi tornai a casa.
Gianna era in cucina e sembrava allegra. La camera da letto era in ordine e l'astuccio del vibratore al suo posto. Cenammo e poi lei, maliziosa, con una scusa mi chiamò in bagno dove ci abbracciammo.
Nel laboratorio la tensione era alle stelle, la Giraudo osservava attenta, poi chiese la ripetizione dell'esperimento e volle controllare più volte le quantità di idrogeno ottenute e le temperature che si erano generate nei due passaggi. Chiese poi particolari sulla produzione del catalizzatore ma le fu risposto che il procedimento, per motivi precauzionali, doveva rimanere riservato. Lei non insistette, salutò e ci lasciò assicurandoci di farci avere presto notizie riguardo le decisioni del suo Direttore.
Pochi giorni dopo, la signora mi avvisò al telefono che il gran capo aveva dimostrato interesse e autorizzato un nuovo incontro durante il quale avremmo parlato di strategie e possibili alleanze, lei insistette per essere chiamata signora Maria o meglio, soltanto per nome.
Mi affacciai, per sgranchirmi, sul corridoio c'era Elena che, con un bel sorriso, mi chiese se desideravo un caffé, indossava un vestitino svasato che le stava bene, notai che aveva tagliato i capelli più corti ed aveva rinfrescato il trucco, era diventata decisamente più carina. Sorpreso, risposi di sì, era la prima volta che si offriva spontaneamente alla incombenza.
La signora Giraudo o meglio Maria, come ora la chiamavo, mi invitò a sederle accanto sul divano che completava l'arredamento del suo ufficio. Rallegravano le pareti stampe raffiguranti uccelli in volo sopra magnifici paesaggi. Bevvi il mio tè, ammirando, sulla parete di fronte, l'ascesa di due condor sopra picchi innevati. Lei sedeva accavallando le gambe ed emanava un profumo dolce di fiori e frutta, indossava dei bellissimi stivaletti neri e calze fumè.
Disse che il direttore l'aveva incaricata di sondare a Roma l'interesse del Ministero e la possibilità di ottenere un finanziamento per un prototipo. L'azienda municipale chiedeva in cambio, nel caso di assenso ministeriale, la costituzione di un consorzio paritetico, dove sarebbe dovuto confluire il brevetto, quale nostro apporto, mentre loro avrebbero garantito i finanziamenti e coperto tutte le ulteriori necessità economiche necessarie al progetto. Accettai e ci lasciammo con l'accordo ad andare avanti.
Rientrai in ufficio allegro, giusto in tempo per la pausa pranzo. Chiamai Mariangela ma era già uscita, in ufficio c'era ancora Elena. Le proposi di pranzare assieme e lei non se lo fece ripetere. Corse in bagno e tornò con qualche ritocco al trucco. Al ristorante avevo riservato un tavolo defilato.
Ordinammo una cotoletta alla milanese con contorno di patate, un calice di vino rosso e, per finire, un dolce alla crema. Mi sentivo euforico e spiritoso, raccontai storielle divertenti che lei ascoltava attenta, ridendo di gusto al momento giusto, poi propose di prendere il caffé in ufficio che lei, disse, sapeva fare più buono di quello del ristorante.
In piedi accanto alla finestra del corridoio, con le tazzine ancora in mano, osservavamo il paesaggio triste, sfumato dalla nebbia. La guardai e poi, fatto audace dall'atmosfera di complicità che si era creata tra noi, la cinsi alla vita e lei rispose all'abbraccio, abbandonandosi morbida contro il mio fianco. Avvertii con un brivido la curva dell'anca e il suo calore piacevole, poi lei, si volse verso di me, sollevò il braccio e con una carezza al rallentatore, con dita lievi, aggiustò tra i capelli un mio ciuffo ribelle. Poi sorrise con occhi dolci, sussurrando che sarebbe stato meglio non farsi vedere dagli altri che stavano rientrando.
Maria attendeva nell'anticamera, tra due statue romane raffiguranti ninfe seminude. Seguimmo una segretaria che ci guidò nell'ufficio del Viceministro. Lui era seduto al capo di un tavolo antico e al nostro ingresso si levò di scatto e ci venne incontro, baciò, ossequioso, la mano della signora, trattenendola a lungo tra le sue, sedemmo sul divano e lui su una poltrona.
Fece portare acqua e caffé poi chiese del nostro progetto. Ascoltò attento, fece alcune domande e poi chiamò il funzionario responsabile dei progetti attinenti l'energia.
L'ingegnere Farina era un ometto paffuto che nascondeva la calvizie con un vistoso riporto di capelli laterali e che si dava del tu con il Viceministro. Si presentò come professore di fisica di una importante Università del Sud.
Parlammo della nostra scoperta e del progetto che volevamo realizzare. Lui fu prodigo di complimenti e ci invitò a riempire i moduli da lui predisposti che avremmo trovato sul sito internet del Ministero, accompagnati da una breve descrizione del progetto e dal relativo master plan dell'iniziativa, raccomandò di attenerci all'indice degli argomenti, allegato, poi saremmo dovuti tornare da lui. Ci salutammo calorosamente e ci congedammo con la promessa di rivederci presto.
Attraversata la Via Veneto, ci avviammo a piedi verso il ristorante, godendoci il sole caldo che dalle nostre parti faceva vita più ritirata. Lei poi scappò in taxi verso l'aeroporto, mentre io rimasi a Roma ancora un giorno, per incontrare un cliente.
Alle undici, Maria mi pregò di raggiungerla, in un noto ristorante del centro, per fare con lei il punto del progetto, all'indomani dell'incontro romano. Lei aveva riservato una saletta presidiata da un cameriere che ci servì, ossequioso, un aperitivo, a base di ostriche e champagne, poi, seguirono: una grigliata di pesce, insalata e un vino bianco di Verona che, lei disse, era il suo preferito e il pesce, assicurò, freschissimo. Al caffé, Maria raccontò di avere già messo al lavoro il suo staff, per l'espletamento delle incombenze burocratiche. Da parte nostra, avremmo dovuto fornire la descrizione dei processi industriali per la fabbricazione del catalizzatore e del prototipo. Risposi che lo avremmo fatto non appena costituito il Consorzio e sottoscritto gli accordi.
Quella sera giunsero i nostri amici. Loro portarono l'antipasto e lo spumante, Carlo era allegro e scherzava sul troppo tempo trascorso dall'ultima volta che ci eravamo visti, disse che Marilena conservava, già da un mese, un nuovo completino nel cassetto, che non aveva ancora mostrato a nessuno. Lei, allora, esclamando "sorpresa!", scoprì il fianco mostrando un tanga rosso fuoco. Carlo insistette per vedere cosa invece indossasse Gianna e lei lo accontentò, sollevando, con le mani, l'orlo della gonna, mentre l'altro fischiava d'ammirazione. Qualche ora dopo, Gianna e Marilena, abbracciate e carponi sul letto, si baciavano appassionatamente, incuranti degli amanti che le incalzavano da retro.
Ci salutammo con la promessa di trascorrere insieme il Capodanno, "a mezzanotte in punto ci facciamo gli auguri nudi nella sauna" concluse Carlo.
Poco dopo le ferie natalizie, un mattino di gennaio, avvisai Maria che le nostre carte erano pronte e che era urgente stabilire la data della costituzione del Consorzio. Lei rispose che in Azienda erano ancora in attesa della nomina del nuovo CdA e che fino ad allora non si poteva procedere, però si poteva tornare a Roma, per consegnare una copia del progetto, per una verifica.
Al Ministero incontrammo il professore che si mise a sfogliare le carte che avevamo portato. Lui si soffermò, annuendo con la testa, su alcune pagine, poi, riposto il tomo, disse che lo avrebbe letto tutto, per essere certo che non avessimo dimenticato qualcosa, e ci invitò a pranzo. In una saletta del Ministero, accanto ad un tavolo apparecchiato con un buffet di assaggi, ci attendeva un cameriere con giacca bianca. Durante il pasto, l'ing. Farina ci disse che il nostro Consorzio, ubicato nel Nord Italia, poteva sperare soltanto su modesti finanziamenti regionali, mentre lo stesso progetto, se fosse sviluppato al Sud, avrebbe potuto accedere a più ricchi stanziamenti statali ed europei e lui poteva presentarci un'azienda siciliana, attiva nel settore petrolifero, che avrebbe fatto proprio al caso nostro. Ci salutammo con la promessa di rivederci presto.
Trascorsero alcune settimane senza notizie da parte del Ministero. Il nuovo CdA dell'Azienda municipale non si era ancora riunito e Maria, a tale proposito, rispondeva che con la Pubblica Amministrazione non si poteva avere fretta.
Dopo le ferie natalizie, che avevamo trascorso insieme a Merano, con Carlo e Marilena continuammo ad incontrarci regolarmente, sia per giochi erotici, ma anche per andare al cinema e al teatro, e le signore, ne ero certo, si vedevano anche più spesso, da sole.
Al mattino, in ufficio, Elena aveva preso l'abitudine di raggiungermi con il caffé e di salutarmi con un bacino sulla guancia e, quando poi eravamo soli e vicini, la cingevo alla vita e lei premeva con il fianco.
Una volta la sorpresi assorta a guardare fuori dalla finestra; la serrai così da retro, a lungo, respirando i suoi capelli, mentre lei rispondeva alla mia pressione, muovendo le natiche. Un'altra volta, mentre era china sul computer, la baciai sulla nuca, subito sotto l'attaccatura dei capelli, mentre lei mormorava, "no! Lì mi piace troppo, mi fai gridare". Poi, tornavamo ai nostri ruoli come se nulla fosse accaduto. Mariangela, invece, da quando eravamo diventati soci, si era allontanata, divenendo, in compenso, assidua con il giovane ingegnere Oliviero, con il quale trascorreva la maggior parte del suo tempo in fabbrica, dietro il prototipo.
Un lunedì, eravamo di nuovo a Roma al Ministero, dove ci attendevano, in una saletta defilata del piano terreno, il professore ed un signore alto, pelato e con un naso imponente che disse di chiamarsi Salvatore Nicotra, Presidente della Trinacria PetrolGas, come si leggeva sul suo biglietto da visita, di dimensioni extra large.
Lui si esprimeva con una marcata inflessione siciliana. Elencò una lunga lista di amici importanti, con cui intratteneva rapporti amichevoli e commerciali, disse di aver dato uno sguardo al nostro progetto che aveva trovato interessante e che, senza di lui, non saremmo andati lontano.
Propose di spostare il Consorzio a Catania e cominciò a parlare di milioni e dell'azienda che, grazie a lui, sarebbe diventata una multinazionale tra le più importanti. La signora Maria che, per tutto il tempo, aveva taciuto e annuito ai discorsi di Nicotra, disse all'ing. Farina che lei non poteva impegnare la sua Azienda ma che avrebbe riportato al suo capo la proposta.
In albergo chiamai Elena per conoscere le novità del giorno. Lei rispose che non era successo nulla degno di nota, ma che era triste a causa della mia assenza, io risposi che anche lei mi mancava e scherzando, dissi, che avrebbe dovuto darmi una fotografia, per farmi compagnia, quando fossi lontano. Lei allora suggerì che, se bastava così poco per farmi felice, poteva inviarmene una con il telefonino.
Arrivò una immagine triste, in formato tessera, scattata davanti allo specchio dell'ingresso. Le rimandai una mia con il viso imbronciato a causa del "santino" ricevuto, come le scrissi, incitandola ad inviarmi qualcosa di più sexy. La nuova foto la ritraeva in costume da bagno, dove lei sorrideva con gli occhi socchiusi. Risposi che le foto fatte al mare non valevano, lei doveva farne una sensuale in ufficio. Dopo alcuni minuti ne giunse una dove sorrideva, riflessa nello specchio di tre quarti, con la camicetta aperta a scoprire le spalle. Insistetti per vedere anche le gambe, ma lei rispose che avevo già avuto molto.
Maria consigliava di andare avanti senza di loro, "consorziarsi con la ditta siciliana e presentare il progetto". Solo a quel punto la sua Azienda sarebbe stata disposta ad entrare e le condizioni le avrei potute dettare io. Risposi che preferivo presentare il progetto da solo in attesa del loro ingresso, ma lei ribatté che da solo non avrei potuto fare nulla e che il mio progetto sarebbe finito in qualche sotterraneo polveroso. Era meglio seguire il consiglio di Farina che evidentemente riportava il pensiero del Viceministro.
"Perché perdere tempo, non avrebbero potuto dirmi di non essere interessati al progetto?", insistetti. "Si vede che non conosci la burocrazia", riprese Maria, "Essa non ha nessun interesse a far presto e a semplificare, anzi il suo potere si espande in proporzione al tempo in cui si esercita e poi, non si espone mai alle seccature che potrebbero derivare da un deciso diniego, specialmente nei confronti di persone che potrebbero vantare amicizie altolocate; perché dire no, quando è sufficiente rimandare di volta in volta, finché la cosa si arena da sé, per rinuncia o per stanchezza. Le cose che vanno avanti spedite sono soltanto quelle volute "colà ove si pote quel che si vuole" come diceva Dante e quindi da qui la necessità di uno sponsor, Nicotra, per esempio".
In fabbrica, assistetti al collaudo della piccola centrale che, con poca acqua pompata attraverso un circuito di tubi hidrogen, ricavava l'idrogeno necessario a produrre l'elettricità che manteneva accesa una lampadina e alimentava la radio da cui proveniva la musica di sottofondo. Abbracciai contento Oliviero e, poi, strinsi e sollevai, con una fitta nello stomaco, Mariangela che si agitava, contro di me, tutta eccitata. Andammo a festeggiare nel vicino ristorante.
A tavola raccontai degli ultimi sviluppi e sulla necessità di spostare al Sud il Consorzio. Proposi di tornare a Roma insieme, al prossimo incontro. Mariangela era tutta presa dalla dimensione sociale e democratica del nuovo scenario, parlava, ispirata, di un mondo, in cui tutti creeranno la propria energia ad emissioni zero ed invieranno ad una rete intelligente, simile ad internet, le proprie eccedenze, da stoccare in forma di idrogeno. Cambieranno le nostre vite e si annulleranno le distanze tra paesi ricchi e poveri che potranno competere in parità, concluse.
A Roma, in un salone del Ministero, firmammo l'accordo di collaborazione e Nicotra disse che avremmo potuto utilizzare la forma giuridica del "contratto di programma", per richiedere al Ministero competente, il finanziamento agevolato, con una quota a fondo perduto, secondo lui non inferiore al 70%. Il Consorzio, inoltre, avrebbe potuto contare, per tutte le esigenze finanziarie, sulla sua azienda che avrebbe fatto fronte alle necessarie garanzie bancarie e a pagare tutte le spese vive; da parte nostra, avremmo dovuto consegnare il brevetto e il prototipo quale nostro apporto. Lasciammo aperta, a sua discrezionalità, l'adesione dell'azienda della Giraudo.
Il matrimonio fu officiato da Farina che lodò l'iniziativa a nome del Ministro e a pranzo fummo tutti suoi ospiti nella solita saletta, dove faceva bella mostra un buffet più ricco dell'ultima volta, ai brindisi si unì brevemente il Viceministro, giunto appositamente a benedire l'unione.
Nicotra era raggiante e non finiva di complimentarsi con Mariangela che, giurava, doveva avere di sicuro del sangue siciliano nelle vene, a causa della sua bellezza altera, tipica delle donne dell'Isola. Ci salutammo con la promessa di vederci presto per conoscere tempi e modi del finanziamento, poi, strizzando l'occhio, disse che "un bravo picciotto si batte con i fanti ma obbedisce ai santi".
Decidemmo di fare due passi per andare a visitare il Pantheon e prendere il caffé in un noto bar, nelle vicinanze. Oliviero, che, non era mai stato a Roma, camminava con il naso all'insù senza curarsi di dove metteva i piedi, poi, estasiato, rimase a fissare la grande cupola con il foro circolare che aveva visto, soltanto in fotografia, sui libri. Mariangela, invece, camminava immersa nei pensieri. Le chiesi se stava sognando il suo principe azzurro, Nicotra, a cui doveva aver conquistato il cuore. Lei sorrise e rispose che avrebbe preferito non averlo conosciuto, poi prendemmo un taxi che ci condusse all'aeroporto.
Un bel mattino, Nicotra, al telefono, mi avvisò raggiante che il Consorzio era stato costituito, con l'adesione di tre aziende, la nostra Hidrogen, la Trinacria e un'altra società di amici, che aveva convinto ad aderire e che, in seguito, ci sarebbero tornatati utili. Restava in attesa dell'ingresso della quarta, la municipalizzata di Maria. Lui avrebbe fatto il Presidente e Mariangela, se ero d'accordo, l'Amministratore, nelle casse aveva già versato una bella somma per affrontare le spese correnti e a cui noi potevamo fin da ora attingere.
Il Master plan del progetto, infine, era già al Ministero in buone mani. Salutò dicendo che mi aspettava presto a Roma per la consegna del brevetto e del prototipo.
La telefonata non mi rese felice, avvertivo un certo malessere, chi erano gli amici della terza azienda? Con il nuovo assetto eravamo finiti in minoranza, mi sentivo il vaso di coccio tra quelli di ferro. Chiamai Maria che mi chiese di raggiungerla nel suo ufficio.
Lei mi accolse sorridendo rassicurandomi che tutto stava andando per il meglio, la sua azienda sarebbe entrata ristabilendo gli equilibri ma, in ogni caso, io avrei dovuto esigere, a garanzia, da parte del Consorzio il riconoscimento di una forte somma a fronte del brevetto e del prototipo, così da uscirne bene, anche in caso di mali estremi.
Il mattino successivo, trovai un fax di Nicotra che, come se avesse ascoltato il suggerimento di Maria, conteneva, "per prevenire incomprensioni", una bozza di accordo, tra il Consorzio e la Hidrogen, che prevedeva il pagamento, da parte del primo, di parecchi milioni per la cessione del brevetto e del prototipo, in caso di fuoruscita dal Consorzio della nostra azienda, esigendo, in cambio, l'impegno da parte nostra, di astenerci, in futuro, da qualsivoglia attività, inerente la produzione di energia, che non fosse svolta in favore del Consorzio o di aziende da esso indicate. Chiamai Mariangela ed Oliviero per informarli della proposta di Nicotra che essi ritennero corretta, anch'io convenni che la clausola ci era favorevole, di reciproca protezione. Ne discussi anche con Maria che, disse, il fax anticipava proprio le condizioni che lei avrebbe suggerito di richiedere e che, quindi, ora avremmo dovuto procedere spediti.
Capitolo III
Trascorsero, invece, altri mesi, durante i quali il progetto continuava a riposare su qualche tavolo sconosciuto, in attesa di un sì, ormai rimandato al dopo ferie. Gianna e Mariangela avevano prenotato due residence attigui in Corsica dove passammo due settimane di mare e sesso.
Da qualche tempo avevamo cominciato ad utilizzare i fondi del Consorzio, per pagare gli emolumenti degli amministratori, le altre spese e la quota di competenza dei costi dell'azienda madre. Infine fatturammo anche una parte del lavoro svolto per realizzare il master plan e le successive modifiche. Nicotra pagava senza fiatare e continuava a garantire sul buon esito finale del finanziamento. La signora Maria, da parte sua, assicurava l'interesse della sua azienda e il suo sicuro ingresso nell'affare nel momento opportuno.
Il Consorzio divenne, così, un nostro buon cliente, facendo lievitare il fatturato e la stima del direttore della banca che, improvvisamente, divenne prodigo di regali che non avevo mai ricevuto, prima.
Un mattino di settembre, trovai tra la posta, una busta della Banca, contenente due biglietti d'invito per una "prima" e i complimenti del direttore. A casa, Gianna mi fece notare che la data dello spettacolo coincideva proprio con il compleanno di Marilena a cui lei avrebbe voluto offrire la serata. Approvai l'iniziativa e proposi in cambio di accontentarci di un cinema, lei precisò che a teatro ci sarebbe andata lei assieme alla sua amica, mentre Paolo ed io saremmo potuti andare al cinema o restare a casa a vedere la tv. L'incontro, già programmato a casa loro, sarebbe, invece, slittato alla sera successiva. Pensai allora di approfittare della serata libera per uscire con Elena. Quando glielo proposi lei accolse con gioia la notizia, pizza e cinema insieme.
Per la "prima" Gianna aveva indossato l'abito più sexy del suo guardaroba. Quando arrivò il taxi, l'accompagnai in strada e restai ad osservare, con un po' di tristezza, il suo profilo, dietro il lunotto posteriore dell'auto che si allontanava lungo il viale.
Elena era carina e spiritosa e, avvertendo il mio sguardo ammirato, sorrideva compiaciuta. Lodai la sua pettinatura e il suo vestitino e poi, fattomi più ardito, le domandai cosa indossasse sotto gli abiti. Lei rispose di indovinare, io replicai che avrei preferito vedere, lei mosse la testa in segno di diniego e pensosa replicò che, se fossi stato buono, avrebbe potuto inviarmi più tardi una foto, per la buona notte. Risposi che, per stare buono, la foto avrei dovuto fargliela io.
Lei allora rimase assorta e, per alcuni minuti, si concentrò sulla sua pizza, poi, guardandomi con gli occhi socchiusi, domandò se davvero volevo fotografarla. Io risposi di sì e lei, allora, chiese dove avremmo fatto le foto.
Pagai il conto e guidai l'auto verso lo stabilimento, parcheggiai nel vialetto buio ed entrammo nel mio ufficio.
Da uno scaffale presi una macchina fotografica e cominciai a inquadrarla attraverso l'obiettivo. Elena sembrava bloccata, si muoveva a disagio e mi fissava con un accenno di rossore, poi, riacquistata la parola, mi pregò di portarla via.
Io, però, su di giri, insistetti finché lei, rassegnata, chiese cosa dovesse fare. Le dissi di rimanere seduta sul divano, limitandosi ad allentare un po' le ginocchia. Dopo alcuni scatti, Elena aveva riacquistato il controllo e preso gusto alla cosa. In breve entrò nel ruolo da protagonista e cominciò a suggerire lei le pose.
In uno scatto, porgeva, con aria compunta, il libro firma ad uno sconosciuto manager, mentre, dall'abito lasciato un po' aperto, faceva capolino il seno florido. In una foto controllava una calza, davanti alla porta chiusa di un ufficio, mostrando la coscia, stretta dalle autoreggenti, ben attenta a non far cadere le cartelline che teneva sotto il braccio. Seguirono altri scatti che la ripresero da retro, mentre, con i glutei in primo piano, cercava di raccogliere delle buste finite sotto una scrivania.
Poi, ci ritrovammo stretti sul divano a respirare i nostri baci, finché, al culmine dell'eccitazione, quando l'abbraccio ormai stava per mutarsi in amplesso, lei si divincolò decisa, scusandosi che doveva andare in bagno, poi volle essere riaccompagnata a casa sua.
La siepe del vialetto aveva ormai perso le foglie e i monti lontani, già imbiancati, apparivano nitidi sotto i raggi del sole. Osservavo il panorama, respirando l'aria frizzante, mentre il cancello ubbidiente accoglieva la mia auto nuova. Elena sedeva compunta e, al mio saluto, rispose con un cenno eloquente del dito per avvisare che in ufficio c'era qualcuno. Varcai, incuriosito, la porta aperta, e salutai Mariangela che sedeva sul divano accanto a Oliviero che, al mio ingresso, subito si alzò in piedi. "A cosa devo l'onore", chiesi, poggiando la mia cartella sulla scrivania.
Lei rispose che aveva scoperto una cosa gravissima, "spero che la centrale non abbia smesso di produrre idrogeno" interruppi allarmato, lei assicurò di no, ma che forse la sua era una notizia ancora peggiore. Insomma, mentre cercava di scaricare un nuovo modello informativo dal sito del Ministero, aveva scoperto, attraverso un "link" collegato, che il Consorzio aveva ottenuto, già da alcuni mesi, un finanziamento di oltre cinque milioni di euro per la realizzazione di un prototipo e per l'allestimento delle infrastrutture necessarie a produrlo, edifici, mobili attrezzature e macchinari. Lei chiedeva in conclusione, se io ne fossi al corrente e, in caso affermativo, perché avevo taciuto, mentre, in caso negativo, esigeva il ritiro immediato dall'accordo che ci univa a soci sleali.
Nicotra accolse la notizia con una risata. Il finanziamento di cui parlavo si riferiva ad una prima tranche che era riuscito ad ottenere per ristrutturare il suo balio di famiglia, un grosso edificio agricolo abbandonato di nessun valore che, però, si trovava in un posto incantevole vicino al mare, dove lui avrebbe voluto ritirarsi in vecchiaia e, dove, io avrei potuto trascorrere splendide vacanze.
Risposi che consideravo invece la cosa gravissima e che intendevo troncare la nostra collaborazione. Lui cercò di minimizzare l'accaduto dicendo che me ne avrebbe parlato quando i fondi fossero arrivati, per farmi una sorpresa.
In fondo, noi avevamo già preso e in anticipo una parte di quei soldi che lui aveva provveduto ad anticiparci ed ora potevamo prenderne tanti altri.
Io rimasi intransigente e conclusi, affermando che saremmo usciti dal Consorzio. Lui, allora, divenuto improvvisamente serio, assicurò che avrei sicuramente cambiato idea quando ci fossimo incontrati e, a tale proposito, sarebbe venuto a trovarmi, insieme ad un suo amico, di nome Di Ninno per sistemare il malinteso.
Due giorni dopo, Nicotra era già a Milano e al telefono chiedeva di incontrarci in un ristorante di un suo compare, dove si mangiava siciliano. Avvisai Mariangela e Oliviero che vollero essere presenti.
Nicotra salutò affabile e ci presentò il suo amico Di Ninno che, disse, era il proprietario della "EdilTrinacria", l'altra ditta associata nel Consorzio che si sarebbe occupata degli interventi edili e che avrebbe ristrutturato il balio. Poi si profuse in complimenti nei confronti di Mariangela.
Durante il pranzo Nicotra ricordava che tutte le opere, che a vario titolo saranno realizzate, resteranno di proprietà del Consorzio e cioè nostre, poi invitò tutti a brindare al progetto che era felicemente decollato.
Di Ninno per tutto il tempo era rimasto silenzioso con il volto impassibile. Assaggiò le fritture e lodò il vino, poi allentò la giacca e la cravatta, rivelando un cinturino di cuoio che, dalla spalla, attraversava lo stomaco prominente in direzione del fianco.
Io insistetti che aver taciuto l'approvazione del finanziamento, era per noi un motivo sufficiente per uscire dal Consorzio e per tanto non ci saremmo uniti al brindisi e avremmo incaricato il nostro avvocato di agire di conseguenza.
Nicotra divenne paonazzo, mi guardò torvo e rispose che la cosa non era così facile, "c'erano ormai troppe cose a bollire in pentola che noi non conoscevamo e che era meglio, molto meglio ne rimanessimo fuori". Di Ninno, invece, si alzò in piedi e, puntandomi con occhi spiritati, sibilò che il mio era un comportamento meschino, a casa sua, lui mai avrebbe tollerato certi insulti al suo onore, intorno alla tavola apparecchiata, dove eravamo stati accolti come amici, noi eravamo dei "marrani fetusi" e, così dicendo, scoprì il fianco, mostrando il manico di un revolver custodito in una fondina sostenuta dalla cinghietta che avevo già notato.
Oliviero e Mariangela si guardavano pallidi, cercai di calmare l'energumeno, ma intervenne Nicotra a sdrammatizzare, dicendo al compare di stare calmo che aveva equivocato, perché, da uomo del sud, non capiva i ragionamenti milanesi. Noi, giurò, eravamo amici e a me piaceva scherzare.
Nessuno voleva offendere e nessuno intendeva lasciare il Consorzio perché, anche se del nord, non eravamo stupidi, specialmente adesso che erano in arrivo bei soldi e, quindi, lui doveva chiedere immediatamente scusa alla dottoressa che si era spaventata.
Mariangela minimizzò, disse che non era successo nulla e che in fabbrica era pronto un prototipo funzionante che potevamo già fatturare e che lei era d'accordo a proseguire il progetto. Nicotra sorrise e lodò ancora una volta la sua intelligenza e bellezza e ci invitò tutti a Catania a visitare i nostri nuovi uffici.
Più tardi in fabbrica, commentavamo l'incontro coi catanesi. Mariangela era ancora spaventata, avrebbe voluto denunciare l'accaduto alla polizia, Oliviero, invece, sosteneva che Nicotra aveva ragione e che era meglio andare avanti, fatturare e approfittare della fortuna che ci aveva baciati. Anch'io pensavo che ci convenisse sfruttare l'occasione che difficilmente avrebbe potuto ripetersi, prestando in ogni caso attenzione ai nostri soci. Alla fine anche Mariangela si associò al nostro parere e promise di collaborare senza fare storie.
Andai a trovare la signora Maria che, ascoltò attentantamente il racconto degli avvenimenti, lodò la nostra decisione di proseguire la collaborazione con Nicotra anche perché la sua azienda non aveva ancora preso una decisione in merito al Consorzio. "Il motivo principale che ci frena", disse, "è la consistenza economica. A noi interessano unicamente i grossi lavori, capaci di muovere importanti investimenti e generare ricadute economiche ed occupazionali per il territorio di riferimento". Le ricordai l'importanza qualitativa e strategica del nostro progetto che avrebbe potuto cambiare gli assetti consolidati dell'energia. Lei rispose che non tutti avrebbero apprezzato tali mutamenti, per esempio quelli che puntavano sul nucleare e altri, poi, salutandomi, sussurrò che me ne sarei accorto presto.
Mancini continuava a lamentare il troppo tempo che, secondo lui, dedicavo al progetto, trascurando la nostra attività primaria, quella dei tubi che, forse dimenticavo, era ancora il lavoro che ci dava da vivere. Promisi che mi sarei occupato di più dei vecchi tubi, intensificando l'azione commerciale.
Più tardi, pregai Elena di organizzarmi un giro di un paio di settimane, per visitare nuovi e vecchi clienti.
Lei disse che la mia partenza le causava tristezza, allora le chiesi di trattenersi dopo l'orario d'uscita per stare un po' insieme, lei rispose che era meglio di no, ma che ci saremmo sentiti per telefono e ci saremmo spediti tante foto.
Gianna invece accolse la notizia con malcelata soddisfazione e, mentre mi aiutava a preparare la valigia, mi ricordò che venerdì sera sarebbero venuti a casa nostra Marilena e Carlo e quindi di non farmi attendere.
Partii che era ancora buio e, intorno alle nove, mi fermai a fare colazione, ne approfittai per chiamare Elena, ma lei rispose, con un tono molto professionale, a proposito di una fattura scaduta, pensai che non fosse sola e riattaccai deluso, dicendole che l'avrei richiamata.
La settimana passò in fretta e il venerdì rincasai in tempo per ricevere gli amici.
A cena Marilena giocava a fare la sexy e il marito rideva mentre lei da sotto il tavolo, faceva piedino, sussurrando "speriamo che Carlo non veda, lui è così geloso!", poi cominciò a provocare Gianna finché questa, all'apice della tensione, propose un gioco: bendare e legare Marilena e farle indovinare da chi avrebbe ricevuto attenzioni. Poco dopo, Marilena, nuda, con la bocca atteggiata a cuoricino, attendeva in ginocchio, mentre Gianna, in guepier, le bendava gli occhi con una calza, serrandole, con l'altra, le braccia dietro la schiena, rovesciandola, infine, carponi.
Più tardi, esausti ed appagati, ci ritrovammo, abbracciati sul letto in disordine. Marilena lamentava che aveva male dappertutto e che la prossima volta il vibratore lo avrebbe usato lei, Carlo zittì tutti, implorando di lasciarlo riposare, perché troppo stanco per andare a casa.
La settimana successiva ero di nuovo in giro. Al telefono Mariangela mi avvisò che Nicotra sollecitava l'invio del prototipo in Sicilia, le dissi di organizzare la spedizione del materiale.
In Sicilia splendeva il sole che si rifletteva sul mare blu. Nicotra ci portò a visitare la fattoria destinata a diventare la sede del Consorzio, nonché luogo di svaghi dei soci.
L'edificio era situato proprio in cima ad una collina a picco sul mare che degradava dolcemente, da un lato su una insenatura sabbiosa e dall'altro su campi di grano e papaveri rossi. Sullo sfondo, imponente, si arrampicava l'Etna verso il cielo.
Gli uomini della scorta stesero teli bianchi sulla sabbia e allestirono un tavolo con seggiole pieghevoli e avvicinarono due ceste di provviste.
Il sole era caldo e i gabbiani indaffarati con i piccoli lanciavano richiami incessanti.
Sdraiati sui teli ascoltavamo Nicotra che raccontava di quando, bambino, trascorreva l'estate su quella spiaggia e la governante, per convincerlo al riposo pomeridiano, lo stringeva contro il suo petto e lui ricordava ancora, con emozione, l'odore della ragazza, le braccia bianche e i seni floridi su cui alla fine si addormentava. Mariangela, intanto, cullata dalla voce monotona, si era assopita.
I nostri uffici che erano ubicati al piano nobile di un antico palazzo del centro storico, che ospitava anche altre società e studi professionali, tutti collegati con la famiglia. Conobbi il commercialista, l'avvocato, un notaio. Su una porta era indicata la EdilTrinacria e sul corridoio incontrai Di Ninno, mentre sulla porta accanto, una targa d'ottone segnava la sede delle "Interessenze Nicotra Spa".
La sera cenammo da soli, Mariangela si era abbronzata, rideva ed era allegra. Mangiammo un pesce squisito, accompagnato da una bottiglia di buon vino.
Proposi di fare una passeggiata per favorire la digestione, ma lei disse di sentirsi stanca e suggerì di andare a guardare un po' di televisione nel salottino.
Sedemmo su un divano con un bicchiere di cognac. Al secondo bicchiere Mariangela mi osservava con uno strano sorriso, io le presi la mano e lei lasciò fare, allora accostai la mia gamba alla sua e restammo a lungo vicini, poi, eccitato dal contatto, le proposi di salire in camera sua, lei sbarrò gli occhi e poi, scuotendo i capelli, sussurrò "non se ne parla proprio, tu sei sposato ed io non voglio perdere la tua amicizia", si alzò e augurandomi la buona notte e si allontanò in silenzio.
Dopo il nostro ritorno a Milano, come d'accordo, fatturammo una bella somma a fronte del brevetto e del prototipo, utilizzando, come intermediaria, una società svizzera, di fiducia di Nicotra, che trasferì all'estero i nostri compensi, graziati dalle tasse. I soldi migliorarono immediatamente il clima aziendale. Mancini divenne tutto sorrisi ed attenzioni ed Elena che aveva ricevuto un bell'aumento insperato, trovò, come per incanto, alcune serate libere, in cui poteva trattenersi oltre l'orario di lavoro e anche la qualità delle prestazioni migliorò.
Capitolo IV
Con l'arrivo dell'estate, Nicotra mi invitò a trascorrere le vacanze nella nostra residenza al mare, ormai pronta. Gianna estese l'invito anche ai nostri amici che accettarono subito entusiasti. Mariangela e Oliviero, invece, declinarono l'offerta, la prima perché non voleva incontrare Nicotra e i suoi accoliti, l'altro perché già impegnato in un viaggio con amici.
La casa era spaziosa ed incredibilmente fresca, il mare bellissimo. Carlo e Marilena non finivano di meravigliarsi della fortuna che ci era capitata. Al mattino presto ci raggiungeva Bruno, un ragazzo che portava le provviste e accudiva la casa e, quando lo desideravamo, ci conduceva a visitare i dintorni.
Il clima vacanziero, l'ottima cucina e la splendida località, accesero i sensi che ci spinsero a ricercare amplessi ripetuti e senza freni.
Bruno si aggirava discreto, vegliando sulla nostra sicurezza.
Il mattino del venerdì della settimana successiva al nostro arrivo, giunse Nicotra con sua moglie, una donna vistosa di circa quaranta anni, con i capelli rossi e un corpo statuario. A pranzo, lui insistette per farsi chiamare Totò e la moglie, soltanto Lina.
Bruno portò in tavola una cassata che lei disse di avere fatto con le sue mani. Tagliate le fette, Lei volle servire personalmente le porzioni e porgendo la mia, si avvicinò sfregando il suo ginocchio contro la mia gamba. La cosa fu notata e, quando Marilena servì il marsala, ripeté la carezza contro la gamba di Gianna, mentre questa mimava meraviglia. Totò rise divertito della burla e, alzandosi, propose un riposino prima di tornare in spiaggia, avviandosi su per le scale, con la moglie che lo seguiva ruotando le natiche ad ogni scalino.
Nel tardo pomeriggio, i coniugi Nicotra ci raggiunsero in spiaggia. Lei indossava un costume da bagno bianco sgambato che metteva in risalto cosce e glutei, lui robusto e abbronzato, slip neri antiquati, però ben gonfi sugli attributi virili. Sedettero vicini sui teli e raccontavano di aver fatto proprio un bel sonno. Lina, abbassò il sopra del costume esponendo due seni generosi. Gianna e Marilena, per non essere da meno, la imitarono e, sotto lo sguardo attento di Nicotra, si scoprirono, anche loro.
Più tardi camminando sulla sabbia, lui raccontava che, quello che si diceva sulla gelosia dei siciliani erano soltanto luoghi comuni, anche loro si erano evoluti, sua moglie usciva da sola quando ne aveva voglia, prendeva il sole in topless e se le aggradava guardare un bel ragazzo, che male c'era? Anche noi ci giriamo al passaggio di una bella "fimmina". Anzi era certo che lei avesse un debole per me. E al mio diniego, insistette che non c'era proprio niente di male.
Poi, prendendomi per il braccio, lasciò che gli altri ci distanziassero e poi mi disse, con voce più bassa, che aveva notato che con i nostri amici formavamo un bel quartetto affiatato e questo lo incoraggiava a farmi una confidenza. Lui e sua moglie erano scambisti, vale a dire che frequentavano un locale particolare dove si faceva l'amore libero e, scusandosi in anticipo, se la cosa potesse dispiacermi, confidò che a lui piaceva Marilena, senza sminuire minimamente mia moglie che era una bella donna, mentre Lina, era, invece, attratta da me. Lei era una vera siciliana, molto calda, con cui avrei potuto vivere una bella esperienza. Se, però, non fossi stato d'accordo mi pregò di non dire nulla a nessuno e di dimenticare.
Rimasi turbato dalla rivelazione, a me Lina solleticava molto, però avrei dovuto parlarne con gli altri. Risposi che non aveva nulla da scusarsi e che lo ringraziavo della franchezza, in linea di massima, io ero d'accordo, ma dovevo sentire prima mia moglie e gli amici. Lui allora, svelò ancora che Lina era bisex, amava cioè anche le belle donne e le piaceva pure alternare il piacere con il dolore e concluse: "Qualche cinghiata è quello che le procura i maggiori orgasmi". Poi raggiungemmo il resto della comitiva. Totò propose di andare, prima di cena, in un vicino locale a bere un buon bicchiere di vino mangiando frutti di mare.
In casa, mentre ci cambiavamo, riferii la proposta di Nicotra e i particolari riguardanti sua moglie e il suo interesse per Marilena. Gianna ascoltò e poi disse che doveva parlarne con l'amica che, subito, raggiunse in bagno.
Più tardi mangiavamo allegri ricci ed ostriche. Le signore parlottavano tra di loro. Notai che Gianna, con noncuranza accarezzava la coscia di Lina, cominciai allora a fantasticare sulla serata che ci attendeva.
Dopo cena, ci trattenemmo a bere un bicchiere di marsala, ridendo l'un l'altra. Infine, mentre Totò raccontava l'ennesima barzelletta, Lina lo interruppe e, scusando una improvvisa stanchezza, si avviò verso la camera da letto, pregando gli amici di seguirla.
Più tardi, in ginocchio e con le mani serrate con un foulard alla spalliera del letto, lei frignava, dimenando le natiche, ad ogni colpo che Gianna e Marilena le assestavano, a turno, con due cinture di tela, sotto gli occhi attenti dei compagni. Poi, finalmente, potei penetrare nella grotta della preda agognata, mentre Marilena chiocciava contenta, sotto le spinte del grosso batacchio di Nicotra. Gianna, intanto, con gli occhi serrati e la bocca dischiusa, spronava Carlo.
Poi, Nicotra, sussurrò qualcosa all'orecchio di Marilena che approvò, andando subito ad abbracciare l'amica che si protendeva in avanti, senza interromperne il suo andirivieni. Nicotra, allora, da retro, con un sol colpo penetrò nel solco indifeso.
Il sole del mattino ci colse ormai allo stremo. Nicotra, in mutande, salutò, tirandosi dietro Lina che raccattava le sue cose, Marilena, che aveva ancora voglia, tentava, inutilmente, di interessare i maschi superstiti che desideravano soltanto dormire, Gianna invece continuava ad inveire contro Totò, lamentando il male che le aveva procurato il randello della " bestia".
Alle dieci del mattino salutammo Nicotra di ritorno in città che ci ricordò di non dimenticare di passare da lui prima di rientrare in continente e di salutare, da parte sua, la signora Gianna che era rimasta in camera afflitta da mal di testa.
Più tardi, rientrando dalla spiaggia, Bruno avvisò che mia moglie si era fatta accompagnare all'aeroporto in tempo per prendere l'aereo per Milano. In camera aveva lasciato una lettera nella quale, in sintesi, diceva che aveva bisogno di restare un po' da sola.
Trascorremmo il resto della giornata parlando di lei, poi, dopo cena, Carlo propose di restare ancora insieme e, per allontanare la malinconia, sollecitò sua moglie a mostrarci le mutandine. Lei non si fece pregare, inumidì con la lingua le labbra e, accarezzandosi i fianchi, lentamente sollevò la gonna ampia di lino, scoprendo le cosce abbronzate, poi, sul letto, si alternò su di noi, finché godemmo insieme.
A Milano, Gianna mi accusò di averla trattata come una puttana, lasciandola alla mercè di quella bestia che lei non voleva più sentire nominare, così pure, diceva, avrebbe rifiutato in futuro di concedersi a maschi volgari, me compreso, almeno finché non le fosse sbollita la collera. Accettai le sue decisioni e attesi, dormendo nello studiolo, il suo perdono.
Ad alleviare la forzata castità, in ufficio c'era, fortunatamente, Elena, con la quale continuavo a tenere, in pubblico, un rapporto affettuoso ma distaccato, salvo poi dar sfogo alle voglie sul solito sofà, dopo l'orario di lavoro, almeno una volta alla settimana.
Un giorno di fine settembre, Nicotra si fece vivo per informarmi di aver presentato un nuovo progetto per la costituzione di una azienda di produzione di piccole centrali elettriche a Idrogeno, che avrebbe dato lavoro a più di cinquanta operai siciliani e subito, a noi, un bel po' di milioni, di finanziamento ministeriale. A tale scopo chiese di mettere subito al lavoro Mariangela e il giovane Oliviero per la realizzazione di un prototipo di centrale di circa mille kilowatt.
I mesi passarono veloci e, una mattina della prima decade del mese di marzo del nuovo anno, mi ritrovai a Catania per parlare del bilancio del consorzio e del nuovo progetto. Nicotra aveva organizzato per la serata una festicciola in un piccolo hotel sul mare. Arrivò con sua moglie Lina e un'amica carina di nome Sabrina. Dopo cena ci ritirammo in un appartamento dove passammo la notte alternandoci con le due donne che, infine, carponi, alle prime luci dell'alba, accolsero, non senza qualche difficoltà, il saluto del buon giorno che Nicotra volle tributare loro a turno, alla sua maniera preferita.
Al mio rientro a Milano, assistetti al collaudo della nuova centrale. Mariangela indossava jeans aderenti che mettevono in risalto le gambe lunghe e il sedere ben fatto. Aveva raccolto i capelli a coda di cavallo che lasciavano il collo nudo e ben visibile il piccolo tatuaggio sulla sua nuca che avevo già notato. Lei, avvertendo il mio sguardo, accarezzò con le dita i fiorellino tatuato, mentre Oliviero, distogliendo da lei, con difficoltà, lo sguardo, avviava la centralina che, ronfando come un grosso gatto, accese le luci dello stabilimento.
Gianna mi informò che avrebbe trascorso alcuni giorni a Parigi con Marilena, in concomitanza del ponte di Pasqua e quindi mi consigliò di vedermi con Giorgio.
Le accompagnammo all'aeroporto il venerdì e a mezzogiorno, con il naso per aria, osservavamo l'aereo che si allontanava nel cielo terso, poi pranzammo insieme. Giorgio mi confidò che Marilena, dal lato sessuale, aveva perso smalto e che lui aveva cominciato da qualche tempo a frequentare una sua lontana cugina che invece era molto passionale. Io raccontai di avere problemi sul lavoro e di non avere testa per certe cose, tacendo che in realtà anch'io avevo una storia con la mia segretaria. Ci salutammo con l'aria afflitta, come due vedovi che speravano di non rivedersi per dimenticare il comune dolore.
Una mattina di poco successiva alle festività pasquali, nel mio ufficio irruppe Mariangela con due bicchieri di caffé e un bel sorriso, disse che aveva una notizia in anteprima. Le risposi che ero curioso di ascoltarla.
Lei, allora, prendendola alla lontana, raccontò di avere pensato più volte a come investire il denaro che aveva guadagnato con il progetto, aveva chiesto consiglio alla sua banca e ad amici competenti, poi aveva deciso di fare da sola. Aveva comperato un piccolo attico dalle parti della via Monte Rosa, che aveva appena finito di arredare e, per l'inaugurazione, aveva organizzato una festicciola alla quale io dovevo essere presente, sia perché mi era riconoscente della fortuna e soprattutto perché mi considerava il suo amico speciale. La ringraziai e le promisi di esserci.
La casa era carina e il terrazzino era in grado di ospitare un tavolo per quattro. I miei fiori furono allineati a fare compagnia agli altri, in attesa di vasi ed acqua. La serata trascorse in allegria, io non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla padrona di casa che, almeno in un paio di occasioni, ricambiò l'attenzione, regalandomi un sorriso tutto per me. Poi, ci ritrovammo sul pianerottolo in attesa dell'ascensore, Mariangela baciò tutti gli invitati e, quando fu il mio turno, poggiò le sue labbra sulla mia guancia con più forza e più a lungo, così almeno giudicai, di un normale contatto di circostanza. In strada salutai gli amici della serata e mi allontanai lentamente dalla parte opposta degli altri.
Attesi dietro l'angolo del palazzo e, quando la strada fu di nuovo deserta, tornai veloce al portone e suonai il citofono. "Hai dimenticato qualcosa?", chiese lei allegra, "Sì" risposi, "te, fammi salire". Lei rise divertita, "Non vorrai farmi credere che adesso ti interesso un po', con tutte le donne che ti girano intorno?" "Tu non mi interessi solo un po', io sono pazzo di te", risposi d'impeto. Lei rise di nuovo e mi invitò ad andare a casa perché di certo avevo bevuto un po' troppo, io insistetti e lei concluse dicendomi che, se avessi fatto il bravo, mi avrebbe invitato a cena, da soli, e in quella occasione, da sobrio, le avrei potuto ripetere se era vero che io tenessi a lei, mandò un bacio con lo schiocco e riattaccò.
Elena pareva insaziabile e malgrado fosse ormai tardi non sembrava intenzionata ad andare a casa. Le ricordai che era ormai notte e che dovevamo allontanarci, prima dell'arrivo del guardiano notturno. Lei allora si stirò voluttuosa e, chiudendo la lampo dei pantaloni, domandò perché Mariangela aveva ripreso a venire nel mio ufficio con il caffé, dal momento che me lo preparava già lei, con il rischio che a berne troppi mi sarei rovinato la salute. Insomma, avrei dovuto dirle di venire solo per ragioni di lavoro e soprattutto di non portare nulla.
Il mattino successivo, superando la spessa cortina d'odio dello sguardo di Elena, arrivò Mariangela con il caffé. Mi chiese se volevo andare a cena da lei e, alla mia risposta affermativa, salutò, dicendo di arrivare per le otto che avrebbe preparato baccalà a modo suo e di portare il vino.
Mariangela indossava un vestitino corto e profumava di fiori e spezie orientali.
La baciai sui capelli ancora umidi, che aveva lasciato lisci sulle spalle. Mangiammo a lume di candela sorseggiando il costoso vino che avevo comperato per l'occasione. Lei aveva anche preparato dei biscotti che tuffammo nel vinsanto. Per finire, prendemmo il caffé seduti vicini, sul divano, ascoltando un pianoforte che, in sottofondo, suonava Chopin. La strinsi verso di me e lei lasciò fare, poi poggiò il suo viso sul mio torace e chiese se non fossi malato, il mio cuore andava al galoppo.
Ci baciammo, la sua lingua si muoveva pigra mentre io assaporavo il suo sapore. Quando la mia mano risalendo le cosce, incontrò l'elastico delle mutandine, lei sospirò , strinse le cosce di velluto e si sollevò, scuotendo i capelli, dicendo "basta così". Alle mie insistenze, rispose che se la volevo veramente avrei dovuto trasferirmi da lei, a casa sua e lasciare mia moglie.
Risposi di sì che l'avrei fatto, avevo solo bisogno di un po' di tempo, replicò che sapevo dove trovarla.
Ero impegnato nell'immaginare come avrei fatto a confessare a Gianna la mia volontà di rompere il matrimonio, quando trillò il telefono. Era Nicotra che, con aria tronfia, urlando di fare bene attenzione, mi annunciò che "babbuccio" aveva fatto approvare il nuovo progetto e che potevo cominciare a prendere un po' di "picci" e concluse ricordandomi quale grossa fortuna avessi avuto a conoscerlo e di sbrigarmi a spedire a Catania la centralina appena ultimata, non oltre la fine del mese di maggio.
Chiamai Mariangela, lei ascoltò con interesse la notizia e chiese se dovesse proprio andare a Catania da sola, risposi che poteva farsi accompagnare da Oliviero. Domandò se poteva ricevere qualcosa delle nuove entrate per pagare un po' di spese. La rassicurai e poi, abbassando il tono della voce le dissi che presto mi sarei trasferito da lei, lei mi guardò seria e chiese come l'avesse presa mia moglie e quando pensavo di traslocare, risposi che lo avrei fatto al più presto. Ci baciammo a lungo, poi filò via a prepararsi per il viaggio.
Tornò preoccupata e anche il giovane ingegnere aveva l'aria mogia. Raccontarono che secondo loro Nicotra e il consorzio non avevano nessuna intenzione di iniziare la costruzione delle centraline. Chiesi se avevano visitato la nuova fabbrica, loro risposero di sì e proprio per questo erano dubbiosi, li rassicurai e promisi di chiamare subito per spiegazioni.
Nicotra confermò i dubbi di Mariangela, disse che la nuova fabbrica avrebbe prodotto, o meglio assemblato, contatori elettronici di misurazione del consumo elettrico, di provenienza asiatica, destinati ad un'altra azienda del gruppo che si occupava della distribuzione dell'energia elettrica alle piccole aziende, in attesa, come disse lui, di commercializzare, non appena possibile, le centraline ad idrogeno.
Rassicurai Mariangela che il ritardo, che lei aveva giustamente rilevato, era solo provvisorio e strategico, necessario per creare i presupposti commerciali e la clientela alla quale offrire le centraline, poi insistetti per vederci ma lei rispose risoluta che senza la valigia non mi avrebbe fatto salire in casa sua.
Capitolo V
Arrivò luglio accompagnato da caldo afoso, Nicotra avvertì che a Catania, al mare era tutto pronto per trascorrere settimane di sogno. Gianna però ignorò l'invito, preferendo una vacanza dalla sorella a Capoliveri, nell'isola D'Elba.
Arrivammo di venerdì e subito il mare e la compagnia della sorella giovarono al suo umore, tanto che, già dal primo giorno, dopo il bagno, stesi sulla spiaggia, mi cercò la mano e poi la sera si lanciò in un repertorio di preliminari amorosi, a cui da tanto non ero più abituato, che ci riportarono al tempo dei nostri primi incontri.
Nei giorni successivi ci ritrovammo a fare l'amore dietro gli scogli e tra i cespugli, come fidanzatini impegnati nella prima scoperta del sesso.
Un pomeriggio, inerpicandoci su una collina a picco sul mare, ci fermammo ad osservare il tramonto in prossimità di una grossa pianta di agave. Incuriositi, sondammo le spine, facendoci scorrere il dito sopra. Improvvisamente, cambiando l'espressione del volto e con un sorriso strano, lei posò decisa il polpastrello del dito indice sulla punta aguzza, poi si avvicinò e lasciò rotolare alcune gocce vermiglie sulla mia lingua assetata.
Il sapore del sangue mi procurò una immediata eccitazione che a lei non sfuggì.
Fissandomi negli occhi, abbassò le spalline del prendisole e si accostò ad una foglia che le arrivava giusto all'altezza del torace, sollevò un seno e lo lasciò ricadere sulla punta che penetrò nella carne tenera. Urlai che era matta e succhiai il sangue che le scorreva lungo il ventre, facemmo all'amore come invasati, ululai alla luna che ci osservava e, scosso da un orgasmo mai provato, lappai le ultime gocce di nettare che, premendo con entrambe le mani, riuscii ancora a strappare.
Passammo la notte abbracciati e nel dormiveglia la sua voce roca, continuava a ripetere nella mia mente: Ti è piaciuto?"
La sera della vigilia della partenza, mi confessò che malgrado mi amasse e fosse pronta a fare tutto per me, soffriva, suo malgrado, la mancanza di Marilena. Propose di riprendere gli incontri con loro, affermando che di sicuro non me ne sarei pentito. Accettai di buon grado e il mattino successivo raggiungemmo la nostra amica pianta, alla quale asportammo una decina degli aculei più lunghi ed acuminati.
A Milano, il riavvicinamento con Gianna diminuì il mio interesse nei confronti di Elena e Mariangela. Infatti, la prima sera che ci trattenemmo fuori orario, benché si adoperasse Elena riuscì a destare soltanto una debole attenzione da parte mia e, preoccupata, cominciò a lamentare stanchezza e problemi di salute che non le permettevano di essere al massimo, io cercai di rassicurarla che la colpa era solo mia perché distratto dal lavoro.
Mariangela invece usciva con l'ingegnere, ignorandomi ed anche io non la cercavo.
Tornammo, invece, a vederci con gli amici, o almeno, anche tra noi maschi, perché di certo le ragazze non avevano mai smesso di frequentarsi. Una sera, Giorgio arrivò con un cabaret di paste e una bottiglia di champagne. Marilena indossava un vestitino scollato, sandali con il tacco alto e sotto praticamente niente, Gianna aveva, invece, una blusa, pantaloni morbidi e paperine.
Gianna portò in tavola, assieme ai pasticcini, un cofanetto con le spine dell'isola, Marilena le osservò ipnotizzata, poi sfilò lentamente l'abito.
Più tardi, salutammo gli amici, Giorgio era rosso in viso mentre Marilena era pallida e ripeteva che era stato bello.
In camera da letto Gianna chiese se mi era piaciuto, io ero stordito e ancora eccitato, risposi di sì e, osservando alcune tracce cremisi sul lenzuolo, domandai se per Marilena non fosse stato eccessivo, lei rispose di non preoccuparmi, alle donne faceva bene ed erano abituate a perdere sangue.
Passò l'estate e, il primo di settembre, Mariangela rientrò in fabbrica allegra, perché i soldi che le erano arrivati le avevano permesso di saldare l'acquisto della sua casa e di trascorrere una bella vacanza in posti meravigliosi. Elena ripeteva acida che era stata in ferie con un negro.
Un giorno incrociai in banca la signora Maria che mi rimproverò di non essermi fatto vivo da tempo, la invitai a pranzo.
Ci sedemmo in un ristorante costoso. Lei ripeteva che avevo avuto una bella fortuna con Nicotra, io le risposi che era vero, ma che dei nuovi generatori nessuno ne parlava, mentre il consorzio si era lanciato invece in altre iniziative, forse propedeutiche. Lei rise di gusto e poi disse che era certa che l'avessi capito, l'energia elettrica ancora per molti anni sarebbe stata prodotta con il fossile e un po' con il nucleare. Il sole e l'idrogeno, di provenienza gratuita, sarebbero rimasti dove erano, perché avevano il grosso difetto di non appartenere alle multinazionali. Quindi, concluse che "tutto è bene quello che finisce bene, tutti sono soddisfatti, tu con una barcata di soldi facili ed inaspettati e gli altri amici con un bel potenziale da mettere a frutto nei tempi opportuni".
Davanti al distributore del caffè c'era Mariangela. Con tono scherzoso, le domandai notizie del suo nuovo fanciullo, lei rispose acida che la cosa non doveva interessarmi, visto come mi ero comportato e poi chiese la data d'inizio della fabbricazione delle centraline. Risposi che non la sapevo, tutto era rimandato, finché a qualcuno, lassù, interessasse far consumare il petrolio. Lei allora sbottò che aveva subodorato l'imbroglio, che non sarebbe rimasta zitta, che avrebbe fatto un casino contro tutti, me compreso. Le feci notare che i soldi però li aveva presi e lei replicò che aveva avuto solo quelli che le spettavano e di ricordare ai miei compari che lo Stato stava finanziando un progetto per la produzione di generatori di idrogeno e non per l'assemblaggio di ciarpame.
La pregaii di calmarsi che magari le cose non stavano proprio così, come mi aveva riferito la signora Maria.
Lei, inviperita, ribadì che ci avrebbe denunciati tutti.
Qualche giorno successivo mi chiamò Maria, adirata perché avevo riferito a Mariangela la nostra conversazione, disse che la ragazza l'aveva minacciata di coinvolgerla, insieme agli altri, nell'accusa di truffa che era in procinto di presentare. Ribadì di fermarla per il bene mio e suo.
Più tardi, telefonò Nicotra, minimizzando l'accaduto, "alle fimmine non bisogna dire nenti di nenti, con loro, solo fottere si deve fari, alla picciotta ci parlo io e vedrai che cambierà i sentimenti", concluse.
Mariangela non sembrò, invece, ascoltare ragioni e a Maria rivelò, nel corso di un'altra telefonata, la sua intenzione di parlare della cosa con una sua amica, giudice del tribunale. Io mi confidai con Gianna e lei, spaventata, confessò che non avrebbe mai voluto avere Nicotra contro.
Passarono pochi giorni e un pomeriggio, mentre osservavo l'andirivieni dei camion nel vicino deposito di accessori per auto, fui distratto dal trillo che annunciava l'arrivo di un messaggio sul telefonino. Era Mariangela che avvisava che si sarebbe presa qualche giorno di ferie per superare l'esaurimento che l'aveva colpita. La chiamai al telefono del suo ufficio, ma non rispose, allora chiesi ad Elena se l'avesse vista, ma lei disse di non saperne nulla.
L'ingegner Oliviero raccontò che la dottoressa era assente già da due giorni e non si era fatta sentire. Provai allora a rintracciarla sul cellulare che rispose, usando la sua voce, di lasciare un messaggio, dissi che ero io e per favore di richiamare.
Il giorno successivo, giunse una e-mail, nella quale Mariangela scriveva di essere presso un'amica, con cui aveva deciso di fare un viaggio per superare lo stress, e quindi di allungare di un mese il suo periodo di ferie.
Alla fine, arrivò una lettera nella quale lei diceva di trovarsi da qualche parte in Africa, con un suo amico e di avere deciso di rimanerci per rendersi utile in un contesto che aveva bisogno di tutto, perché era stufa di vivere in un paese, come il nostro, in cui contava unicamente il profitto. Rassegnava le dimissioni e lasciava le sue quote in mia custodia. Elena commentò che aveva ragione sul ragazzo di colore, ma io non le avevo creduto.
A dicembre Nicotra mi invitò a Catania per discutere dell'andamento del progetto e, anche, per stare un po' tra noi amici a divertirci.
L'incontro era stato organizzato nella villa sul mare. Nel salone, attorno al tavolo, il commercialista ci spiegò i buoni risultati della gestione, la destinazione dei profitti e i soldi ancora da dividere. Passeggiammo in riva al mare, godendoci il sole caldo.
Al nostro rientro trovammo la sala apparecchiata per il pranzo. Mangiammo di buon appetito e parlammo di mare e donne, poi, salutati gli altri collaboratori, di ritorno a Catania, Totò si ritirò per un pisolino invitandomi a fare altrettanto perché, disse, strizzando un occhio, ci aspettava una serata impegnativa.
Più tardi, Bruno servì premuroso il caffé, avvisando che don Salvatore stava ancora riposando e che sarebbe sceso alle 19, quando ci saremmo stati tutti, compresi alcuni nuovi ospiti. Chiesi se fosse in arrivo anche sua moglie, l'altro cadde dalle nuvole e rispose di no, la signora non era mai presente in queste serate. Pensai a Lina, che speravo di rivedere, e mi venne il dubbio che Totò avesse mentito sulla sua identità.
Nel salone lo trovai da solo, che sorseggiava un bicchiere colmo di ghiaccio. Al mio ingresso si avvicinò proponendomi un liquore, io gli chiesi di Lina, lui rispose che non sarebbe stata presente, "le fimmine sono come i pasticcini, un solo gusto stanca, bisogna assaporare i diversi sapori, vedrai che bella sorpresa Totò ti ha preparato".
In quel momento, si sentì vociare nel corridoio, poi, entrò Di Ninno attorniato da tre ragazze belle ed eleganti. Una era bionda e disse di chiamarsi Chiara, l'altra, Elsa, era castana, l'ultima, Marisa, decisamente mora con i capelli ricci.
Bruno servì tartine di caviale, ostriche e champagne e si ritirò in silenzio come era venuto. Totò aprì un busta da cui versò una polvere bianca su un vassoio d'argento che avvicinò alle ragazze. Queste, immediatamente ci tuffarono il dito che subito assaporarono, roteando verso di noi le lingue appuntite.
Di Ninno, allora, con aria professionale e una carta di credito stese la polverina e la suddivise in strisce sottili, poi, allineò sul tavolo alcune cannule d'argento che le ragazze prontamente portarono al naso. Subito, la festa si accese, Marisa cominciò a muoversi languidamente sulle note di "New York, New York", seguita dalle altre, improvvisando un balletto, durante il quale, pian piano, una ragazza spogliava l'altra, finché rimasero in body di pizzo e lunghe calze nere. Nella stanza si diffusero le note di "Singing in the rain" e le ballerine si animarono sulla voce di Gene Kelly.
Di Ninno, intanto, aspirava rumorosamente con una cannula d'oro la polverina rimasta, mentre Totò versava, nei nostri bicchieri un'altra dose di whisky, brontolando che un uomo non dovrebbe aver bisogno di droghe per funzionare.
Poi, con la mano, fece un gesto alla bionda, che subito, seguendo il ritmo della musica, si avvicinò, invitandoci a ballare. "La minghia devi far ballare", rispose lui tirandola per una mano, " sei sempre il solito romantico", esclamò lei, sedendo sulle sue ginocchia, "senti come si agita u piccirillo, lo vogliamo far giocare?", cantilenò lei nell'orecchio dell'uomo. "No, occupati del nostro ospite, vedi che si annoia", sbuffò Totò. Lei, allora si sedette accanto a me, mi guardò dritto negli occhi e poi, fattasi più vicina cominciò a percorrere con la punta della lingua il contorno delle orecchie, inumidì la nuca, s'inoltrò lungo il sentiero dello sterno, sbottonando, via, via, la camicia e la cintura.
Totò rideva di gusto e alla ragazza raccomandò moderazione, che la serata sarebbe stata lunga e il bello doveva ancora venire. Marisa, si strinse a Totò e l'ultima si appartò con Di Ninno. Poco dopo, Totò allontanò le ragazze, invitandole a proseguire lo spettacolo e mentre loro ruotavano, ondulando dietro un nuovo ritmo, noi ci versammo ancora da bere.
Trascorse una mezzora, poi durante un intervallo, Marisa annunciò l'arrivo di una nuova ospite, di cui non poteva rivelare il nome, trattandosi di una nobildonna in incognito. La porta si spalancò e una donna bionda, con il viso nascosto da una mascherina rossa, fu sospinta all'interno da Elsa e Chiara. Indossava una sottoveste blu e alti stivaletti rossi, allacciati alle caviglie, aveva le mani legate dietro la schiena, i seni esposti e le labbra nascoste da un nastro adesivo rosso, che pareva un baffo di rossetto.
Totò disse che era un'amante di giochi sadomaso, dove, a lei piaceva recitare la parte della rapita da un bruto, una drogata masochista che si divertiva soprattutto quando veniva maltratta.
Bruno posizionò nel centro della sala un cavalletto di legno, alto poco meno di un metro, e, accanto, lasciò una borsa, poi si allontanò silenzioso. Le ragazze sospinsero la prigioniera sull'attrezzo, serrando gambe e mani alle estremità. Marisa, si avvicinò, sul ritmo di un samba e, volteggiando attorno alla ragazza, si chinò sulla borsa, sollevò in alto due pinze rosse, eseguì ancora un giro e con le movenze di un picador, fulminea, serrò le punte dei seni e, mentre la sconosciuta, mugolando, agitava i nuovi ornamenti, come se fossero roventi, l'altra, le ruotò dietro, sollevò pian, piano, la sottoveste a scoprire gambe e glutei. E, con un ultimo volteggio, le si accovacciò dietro. Saettò verso il pubblico la lingua, lappò con dovizia il solco delle natiche, ci guardò di nuovo e poi con decisione penetrò la carne tenera con un dito e poi con due, mentre la prigioniera agitava i capelli legati a coda. Marisa si girò ancora verso di noi, succhiandosi le dita vogliosa. Con un volteggio, estrasse dalla borsa un grosso vibratore rosa che in breve sparì dalla vista.
Le ragazze ricominciarono a ballare, abbandonando la sconosciuta a digerire l'oggetto che, ronzando dal profondo, accompagnava i suoi gemiti.
Totò, eccitato, si avvicinò a Marisa per annusare e leccarle le dita alla ricerca degli odori e dei sapori della sconosciuta, poi sbottò che doveva scaricare subito e voleva farlo nel modo preferito. Marisa, ridendo, si accostò al cavalletto, estrasse delicatamente il vibratore e poi guidò il grosso dardo a raggiungere il traguardo tra gli applausi dei presenti.
L'uomo cominciò a grugnire mentre Marisa, cingendolo in vita, gli imponeva il suo ritmo, finché, in prossimità del traguardo, mentre Totò ansimava lanciato al galoppo, di colpo, la donna gli immerse due dita tra le natiche, strappandogli una bestemmia e un grido di dolore.
Infuriato, l'uomo si girò nella mia direzione, invitandomi, con voce cavernosa, a prendere il suo posto, mentre lui "un favore doveva restituire".
Chiara, pallida e senza parole, mi spinse al centro della sala, indirizzandomi nella fessura della prigioniera che, fino ad allora trascurata, calda e umida, mi accolse, stringendo forte.
Intanto, Di Ninno schiamazzava nei confronti di Totò urlandogli che "oramai fimmina divenne" senza che potesse farci più nulla. L'altro rispondeva grugnendo e spingendo con più foga il suo coso nelle viscere di Marisa che, piegata su un divano, resisteva alle spinte brutali. All'improvviso, la grotta, dove, piacevolmente mi trovavo, serrò le sue pareti con forza ed io fui scosso da un orgasmo irresistibile cui rispose quello della sconosciuta. Totò, paonazzo nel frattempo, era caduto riverso sulla sua cavalcatura che, soffocata dal peso, tossiva. Di Ninno, ubriaco, guardava invece, stordito per aria, accanto alla sua compagna assopita, con l'attrezzo da tempo in riposo.
Dopo poco, Totò si tirò su e colpì con un sonoro ceffone il gluteo della ragazza, lodandone l'ampia capacità di accoglienza, "il culo è come le scarpe più le usi e più sono comode e questo ne ha fatta tanta di strada" disse, percuotendo con uno schiocco l'altro emisfero. "Sei proprio una bestia", rispose la ragazza massaggiandosi il gluteo, "ora ti faccio vedere cosa so fare, così la prossima volta non dovrai lodare soltanto il mio di culo" e, così dicendo, Marisa tornò vicino al cavalletto, e, preso da terra il tubo di lubrificante, lo vuotò nella cavità della ragazza, ancora socchiusa e palpitante. Poi, scelto un vibratore più grosso del precedente, lo spinse con decisione. La ragazza sgroppava e lanciava urla soffocate, mentra l'altra, strattonandola per i capelli, le sibilava nell'orecchio: "Troia, lo so che ti piace". Sotto i nostri occhi esaltati, il cilindro in breve sparì dalla vista, lasciando visibile soltanto il fondo scuro che, come l'occhio di un ciclope, guardava fisso verso di noi, mentre, una bava di sangue si allungava lungo le cosce della malcapitata.
Totò gridò "Per Dio!" e, di nuovo eccitato, disse che voleva scaricare ancora, quindi, ritornato al centro della sala agguantò Chiara per un braccio, "vieni qui, stringiti alla fedusa e alza bene il culo". La ragazza, timorosa, si mise in posizione e Totò, tra gli incitamenti del pubblico, prese a spingere, sbuffando come un toro, la salsiccia, ormai troppo molle, infatti, dopo alcuni inutili tentativi, cacciò a spintoni Chiara e, in preda alla collera, schiaffeggiò più volte il volto della prigioniera, facendo salire la mascherina che fu lesto a riportare al suo posto, ma l'attimo fu sufficiente per riconoscere Mariangela.
Mi sentii mancare e mi feci forza per non tradire la scoperta e mentre Chiara distraeva Totò, cercando di ridestarne la sopita virilità, mi avvicinai al cavalletto, mostrando interesse ai seni pinzati della prigioniera che sollevai tra le mani, chinandomi sulla sua nuca e, in quella posizione, scorsi il fiorellino tatuato che mi confermò, se ancora potevo dubitare, l'identità della ragazza, nonostante il colore biondo dei capelli.
Facendomi forza, tornai al mio posto e, per calmare l'agitazione, mi recai in bagno. "Allora è stata rapita da Nicotra", pensai, mentre inumidivo il viso con l'acqua fredda. Cominciai, allora, ad immaginare un piano per liberarla, innanzitutto non dovevo far capire di averla riconosciuta. In sala dissi di sentirmi stanco e Totò confermò che era tempo di rientrare: "Tu viaggerai con me, Di Ninno accompagnerà le ragazze e Bruno provvederà a chiudere la villa". Salutammo e ci avviammo verso l'auto, sul portone, dissi a Totò che dovevo andare in bagno, lui borbottò di sbrigarmi. In fondo al corridoio, nello stanzino, dove erano gli attrezzi da pesca, raccolsi un pugnale da sub, dimenticato accanto ad una muta, che nascosi nella manica della giacca.
Sedetti accanto al guidatore e l'auto si avviò lungo il vialetto. Piegai la testa di lato, fingendo un torpore e, dopo la curva che ci nascondeva dalla casa, pregai Totò di fermarsi perché stavo per vomitare. Sfottendomi per la scarsa resistenza, del mio fisico di nordico, lui accostò su uno spiazzo, in prossimità di una pianta di fico. Dopo qualche minuto, tornai in auto fingendomi ancora sofferente e mentre Totò irrideva la mia debolezza, affondai di colpo il pugnale nel suo stomaco.
Si piegò sul volante bestemmiando, annaspò con la mano verso il cruscotto, io lo precedetti, afferrai il grosso revolver, chiuso nella sua fondina e lo calai con forza sulla sua testa, più volte, finché rimase immoto sul volante. Lo sollevai per le braccia e, con sforzo immane, lo estrassi dall'auto e lo trascinai dietro un cespuglio di rovi.
Nascosi la macchina e tornai a piedi verso la casa, nella notte stellata, giusto in tempo per assistere alla partenza di Di Ninno assieme a Chiara e alle altre due ballerine, Mariangela era ancora all'interno, in compagnia di Bruno. Entrai silenzioso nel garage, rimasto aperto e penetrai nella casa attraverso la porta di servizio.
Nel salone sentivo l'ansimare dell'uomo, che, rimasto da solo, si stava sbattendo la povera Mariangela. Lui era di spalle e agitava i glutei, nudi e muscolosi, contro la ragazza che mugolava di piacere. Mi avvicinai silenzioso e gli sferrai un colpo sulla testa con la pesante rivoltella. Crollò all'istante, mentre lei lo incitava a continuare. Finalmente mi vide, era ancora legata ma non aveva più la mascherina né il nastro che le impediva la bocca. Mi guardò ed io naufragai nel verde dei suoi occhi, mentre lei, ancora ansante, ritrovava la voce, "che cazzo vuoi? Non potevi aspettare almeno che finisse? Allora, cosa aspetti? Datti da fare che ho ancora voglia, o almeno sparami un'ero". Io la guardavo stupefatto "sei impazzita? Non hai capito che dobbiamo fuggire subito, prima che arrivino", dissi, cercando di liberarla. "Sei tu che non hai capito, io non sono quella che tu credi di conoscere, io sono una puttana, vai via che se ti prendono te la fanno pagare" rispose lei con voce alterata. "Ma se ti hanno torturata?", insistetti, "Ho visto con i miei occhi quella pazza con il vibratore", "ma che ne sai tu del piacere e del dolore, se ti fai prendere vedrai che prima di accopparti, ti faranno un bel corso accelerato, peccato che non potrai raccontarlo a nessuno, sbrigati e togliti dalle palle", concluse lei.
Mi guardai intorno impaurito, nel silenzio assoluto e frastornato dalla reazione di lei. Cercai con lo sguardo Bruno che per fortuna non dava segni di vita, terminai di scioglierle le caviglie e le sistemai l'abito. Lei minacciò di gridare, mi allontanai per osservare fuori. All'improvviso sentii un rumore nel vialetto, mi addossai alla parete, il buio era però totale, sentii un brivido percorrermi la schiena e i peli rizzare sulle gambe, mi voltai verso Mariangela e, al suo ennesimo rifiuto, in preda al panico, le assestai un colpo sulla testa.
Crollò senza un grido tra le mie braccia, me la caricai in spalla, era leggerissima. Raggiunsi il garage e mi affrettai all'auto. Mi allontanai evitando di guardare verso il cespuglio che celava Totò. Arrivato in albergo, ritirai la mia roba, Mariangela lamentava un terribile male alla testa e diceva che avrei potuto andarci più leggero, io ero dispiaciuto e taciturno. Guidai fino a Messina e attraversammo lo stretto. Viaggiammo tutta la notte e alle prime luci dell'alba giungemmo a Bari dove abbandonata l'auto, proseguimmo in aereo per Milano.
Passai un mese in ansia, senza che giungessero notizie da Catania. Mi muovevo come se vivessi in una giungla, spiavo le auto che mi seguivano, non aprivo la porta a nessuno, evitavo gli ascensori. Da parte sua, Mariangela se ne stava chiusa in casa e nemmeno accendeva le luci.
Finalmente, un mattino, trovai in ufficio una busta. Era di Totò, scriveva di stare bene e che malgrado il dispiacere doveva abbandonare il nostro Consorzio perché impegnato in altri affari. Diceva di aver superato qualche problema di salute, comprensibile nel suo genere di lavoro, che, fortunatamente, si era risolto completamente. Seguivano saluti a Mariangela e agli altri nostri collaboratori. Dedussi che il messaggio aveva forse uno scopo distensivo, ma non dava indicazioni sul futuro di Angela e mio.
La settimana successiva, giunse da Catania una raccomandata con la convocazione per l'elezione del nuovo Presidente del Consorzio in sostituzione di Totò, che aveva rassegnato le sue dimissioni per motivi di salute. Lessi la lettera in preda al panico, non sapevo cosa fare, decisi di ignorare l'invito e raddoppiai le precauzioni, ma una mattina, in pieno centro città mi trovai, di sorpresa, sotto braccio con Di Ninno che, bloccandomi la fuga, mi spinse nel vicino bar.
Sedemmo in un angolo, lui disse che a Milano non si riusciva a bere un buon caffè. Ordinò un whisky con ghiaccio e io chiesi una spremuta d'arancia.
Lamentò che non mi ero più fatto sentire, malgrado tutti i soldi che avevo guadagnato e ricordandomi gli impegni da rispettare, concluse che "il business viene prima di tutto e va sempre rispettato".
Io, allora, facendomi coraggio, chiesi notizie di Totò. Rispose che "meschino" non era stato bene e che ora si occupava di altro. Poi, con voce più bassa, disse che avevo fatto bene a tirargli una coltellata. Anche lui avrebbe regolato allo stesso modo una faccenda di femmine.
In ogni modo la questione a lui non interessava, e meno che mai al presidente, mentre a tutti stava a cuore mandare avanti il progetto che ci avrebbe portato tanti altri bei soldi. Alla fine ci lasciammo con la promessa di rivederci presto a Catania e, strizzando un occhio, concluse che se avessero voluto farmi la pelle, non saremmo stati lì a parlare, poi, prima di allontanarsi, mi ricordò di fare attenzione a Mariangela.
L'indomani chiamò Maria per avvisarmi che il Ministero aveva stanziato nuovi fondi cospicui a fronte di progetti innovativi sul tema energetico e la sua Azienda era interessata e disposta a pagare una forte somma per entrare a far parte del nostro Consorzio. Mi consigliava, di andare presto a Catania a riferire la notizia dell'affare che avrei dovuto seguire di persona, a Milano.
Raccontai a Mariangela dell'incontro e le proposi di tornare al lavoro, lei disse forse, ne avremmo parlato dopo che fossi rientrato da Catania.
Quella notte non riuscivo a prendere sonno, continuavo a rigirarmi nel letto indeciso sul da fare, poi mi convinsi che se loro avessero voluto eliminarmi, l'avrebbero già fatto, decisi che era meglio partire, affidando però, prima, una lettera all'avvocato per precauzione. Rimuginai a lungo cosa scrivere e, finalmente, soddisfatto mi addormentai.
Alle pendici dell'Etna, ignorando i miei affanni la campagna sfilava radiosa dietro i finestrini dell'auto. Bruno guidava in silenzio, aprì bocca soltanto per avvisare che eravamo attesi in villa. Superammo il cespuglio dove avevo abbandonato il corpo di Totò e ci arrestammo nello spiazzo antistante l'ingresso della villa. Ci venne incontrto Di Ninno, salutò con un ghigno e fece cenno di seguirlo.
Nel salone c'erano tutti, mi venne incontro il commercialista, tale Vito Gangi, che avevo conosciuto in un'altra occasione. Disse di essere lui il nuovo presidente in sostituzione di Nicotra.
Ci sedemmo intorno ad un tavolo. Prese la parola un signore che mi fu presentato con il titolo di "don", Don Vito Nicotra zio di Totò. Impallidii, ma lui sorrise. Lui disse che i nostri destini erano ormai uniti in modo indissolubile, tra noi esisteva un vincolo di sangue che ci legava per sempre. Poi parlò dell'evoluzione della specie, il più forte che abbatte il più debole perché il progresso possa avanzare. Io li avevo liberati di Totò che era diventato più "un turco che un cristiano", per i troppi vizi, un peso ormai per la famiglia, malgrado fosse suo nipote, ora il suo posto spettava a me, con tutti gli oneri che ne derivavano e naturalmente anche i pochi onori. Il nostro era un destino di sacrifici per il bene della famiglia.
Quando il vecchio tacque, fu servito il pranzo, io gli sedetti accanto. Mangiava di lena, in silenzio. Al dolce, alzò la testa e mi guardò, poi si ricordò che c'era ancora da risolvere il problema di quella ragazza milanese un po' fuori di testa. Risposi che di Mariangela ci si poteva fidare. Lui fece di sì con la testa e disse che la ragazza faceva parte delle mie preoccupazioni, avrei dovuto occuparmene io. A Milano avrei avuto un collaboratore, un bravo giovane, Mimì, che mi avrebbe aiutato in caso di "impicci".
Il cielo era grigio e il clima afoso, in via Eginardo era fermo, incolonnato nel traffico paralizzato. Pagai il tassista e mi avviai a piedi. Avvisai Gianna che dovevo restare ancora per un po' a Catania e salii da Mariangela. La trovai sconvolta, aveva rotto piatti e rovesciato il tavolo, minacciava di fare pazzie. Disse che aveva bisogno subito di una dose di neve. La implorai di resistere, di farsi forza, doveva disintossicarsi. Cominciò a battere la testa contro il muro, la legai con un lenzuolo sul letto, schiumava dalla bocca.
Telefonai a Mimì che in pochi minuti arrivò con la droga. Gliene sparò una dose in vena e lei subito precipitò in un sonno profondo.
La guardammo dormire, era bella con un sorriso sulle labbra. Mimì disse che era impossibile uscire dal giro. Per tenerla tranquilla avrei dovuto procurarle almeno una dose al giorno. Scrisse un numero su un foglietto e me lo porse, dicendo che bastava telefonare per avere la merce a domicilio. Raccomandò di non fare scorte in casa, ordinare solo lo stretto necessario, poi si allontanò.
Le rimasi vicino in attesa del suo risveglio. All'ora di cena Mariangela aprì gli occhi e tornò tra noi. Era allegra, diceva di avere fame. La portai nella vicina pizzeria, poi passeggiammo fino al Naviglio. Guardavamo l'acqua fluire, quando, all'improvviso, ci baciammo e, di corsa, rincasammo. A notte fonda, lei aveva ancora voglia, ma, io stanco morto mi addormentai.
Trascorsi un mese d'inferno, ma anche di paradiso, lei consumava tutti i giorni la sua dose e subito dopo essersi fatta, diventava assatanata di sesso.
Avevo perso la nozione del tempo, andavo in ufficio in ore impossibili, lei voleva continuamente fare all'amore, ma io non ce la facevo a reggere il suo ritmo. Cominciò a reclamare l'intervento di qualche amico di rinforzo, altrimenti avrebbe provveduto da sola a rimorchiarsi uomini.
Cercai Ninì, che arrivò dopo poco. Osservò la ragazza, controllò il polso e le pupille, mentre lei smaniava, cercando di tirarselo addosso. Le mollò un ceffone e lei si calmò.
Disse che non poteva continuare così, dovevo prendere provvedimenti e subito, altrimenti rischiavo di provocare l'intervento degli amici di Catania e, mi assicurò, non sarebbe stato piacevole.
Mi restava una sola chance, sbarazzarmi della ragazza. Dissi che non era possibile ne ero innamorato. Lui mi osservò pensoso, poi rispose che ci poteva essere soltanto un'altra possibilità: riportare la ragazza dove l'avevo presa. Lì sarebbe stata controllata e al sicuro ed io avrei potuto vederla ogni volta che fossi tornato nell'isola. Mi sembrò una buona soluzione.
Qualche tempo dopo, giunse in ufficio una lettera di Mariangela in cui diceva di essere in Africa dove era felice. Lavorava per una Associazione umanitaria e si sentiva finalmente utile e realizzata. Al suo rientro sarebbe venuta sicuramente a trovarci. Seguivano saluti e baci. Oliviero sembrava triste, diceva che non l'avremmo più rivista. La segretaria sospirava "beata lei, con il suo bel moretto!"
Io, invece, sorrisi pensandola, poi decisi di partire subito per Catania.
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