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Una giornata difficile
Werner se ne stava seduto ai bordi del suo letto, aveva avuto una giornataccia al lavoro, uno sporco lavoro manuale che non lo gratificava. Sorvegliava un gruppo di operai in una fabbrica di lamiere, e non aveva nemmeno bene idea di come potesse definire la propria qualifica: operaio? Operaio specializzato? Alcuni suoi colleghi, per sentirsi importanti, non esitavano a trovare le formulazioni più fantasiose: cose del tipo “Lavoro nell’ambito della metallurgia” o “Mi occupo della lavorazione di lamine”. Il che a conti fatti era anche vero, si occupavano tutti della lavorazione di questo maledetto piombo fuso da sezionare in fogli sottili come carta, ma perché non dire le cose come stavano? Che differenza fa tra essere operaio e impiegato? Werner non ne aveva idea. E nemmeno gliene importava più di tanto. Il punto è che in quel momento era solo, seduto come uno scemo ai bordi del letto un venerdì sera, senza uno straccio di prospettiva per il fine settimana.
“Servono gratificazioni nella vita”. Tutte cazzate, teorie da parapsicologo, pensava. Aveva smesso sia di bere che di fumare, per cui in casa non c’era né una bottiglia a cui tirare il collo né una cicca di Gitanes da finire.
Si alzò dal letto e si stiracchiò, era uno dei soliti colpi di sonno che lo prendevano quando rimaneva per troppo tempo con le mani in mano. Aveva passato fin troppo tempo della sua vita con le mani in mano, e ora, a trent’anni, si trovava con un nulla di fatto tra le mani, senza una sistemazione definitiva, senza una donna fissa, senza un bel lavoro, senza un titolo di studio. Tutto sommato però era quella la vita che voleva, perché aveva il vantaggio inestimabile, secondo lui, di non essere vincolato a niente, di non avere obblighi, di non avere un mutuo quarantennale da pagare. Sì, certo, c’era l’affitto, ma almeno poteva cambiare casa quando voleva.
Si strofinò gli occhi, e cercò di sistemarsi alla bell’e meglio i capelli con le mani, poi si diresse verso lo specchio e si fissò nelle pupille dilatate; ripensò a quello che gli aveva detto il suo collega Paolo nel pomeriggio, ma sì, quella festa di addio al celibato di Eugenio, quello dell’ufficio vendite. Perché no in fondo? Era un’opportunità come un’altra, almeno se ne starebbe stato fuori da quella topaia di casa sua per qualche ora. Non aveva nemmeno tanto bene in mente che faccia avesse questo Eugenio, ma poco importava, si sarebbe infiltrato nel gruppo dei colleghi, in fondo lavoravano pur sempre nella stessa ditta. Chiamò al telefono Paolo:
“Ciao Paolo, senti, c’è ancora posto per quella festa dell’Eugenio?” sentì dei rumori, come se a Paolo stesse cadendo la cornetta: “Hai voglia, non viene quasi nessuno, ‘sto Eugenio sta sulle palle un po’ a tutti, quelli della contabilità hanno trovato tutti una scusa.” Rispose.
“Ah, ottimo allora, tu ci vai?” chiese con convinzione.
“Mah, se vieni anche tu va bene, tanto non c’ho un cazzo da fare.” Sbadigliò. Era evidente che se fosse stato per lui non si sarebbe mosso di casa; Werner cominciò a dubitare di aver fatto bene, forse se ne sarebbe dovuto stare nel suo divanaccio, a sorseggiare limonata e a dare un’occhiata alla tv via cavo, ma ormai era fatta.
“Passo io Paolo?”
“No, lascia stare, passo io, ho la macchina fuori, almeno mi sveglio un attimo se guido, dieci minuti e sono lì.” Lasciò cadere la cornetta.
Werner aprì l’armadio nella speranza che qualche abito decente si fosse materializzato lì durante la notte, ma non c’erano che i soliti quattro stracci, arraffò un paio di jeans puliti e una camicia bianca a righe verticali blu, una delle migliori che avesse, regalo di una delle ragazze che più era riuscito a illudere. Tanto non sarà di certo una festa formale, pensò. Si infilò i vestiti e scese le scale di corsa, si piazzò sull’angolo della strada, all’incrocio, in modo da vedere Paolo dal fondo della via. Passarono dieci minuti, ne passarono quindici, poi venti, il cielo stava cominciando a rannuvolarsi, Werner iniziò a tirare moccoli, suscitando la curiosità e la preoccupazione dei passanti, finché non intravide in lontananza l’utilitaria giallo taxi del suo collega. Ma porca di quella… meno male che erano dieci minuti, cominciamo bene. Paolo accostò, era un tipo basso e tarchiato, calvo, con la nuca rasata, e in quel momento era anche più paonazzo del solito con un fiatone asmatico che sulle prime allarmò Werner: “Ma che cazzo è successo?”
“Lascia stare…” tentò di riprendere fiato “Ho forato nel parcheggio vicino casa mia, quello nella palta…”.
Werner fece per passare oltre: “Fa niente, l’importante è che ci siamo, sai dov’è il locale?”
Paolo rispose in un rantolo sommesso, estraendo dallo spolverino beige un pieghevole fradicio di sudore e agitandolo: “Qui, è tutto spiegato qui…”.
Werner pensò che quell’uomo dovesse fare veramente schifo, non tanto per l’aspetto, perché per quanto fosse ributtante avrebbe potuto anche trovare qualcuna con cui dividere il letto, quanto piuttosto per i modi, per l’abbigliamento sudicio, per il fetore che emanava. Sì, Paolo era uno che non si lavava mai, era inutile nasconderlo, parlava a monosillabi e non si lavava mai, come avrebbe potuto una donna, una qualsiasi donna, anche un cesso, decidere di passare una notte con lui?
Werner si sedette sul lato passeggero, si allacciò la cintura di sicurezza. L’auto era una discarica. Carte di patatine, avanzi di varia natura, bottigliette di plastica vuote, persino cicche di sigaretta: il tappetino sotto al sedile sembrava un posacenere e il cruscotto aveva almeno due dita di polvere. Werner si trattenne dal vomitare, e tenne le braccia conserte, in modo da non venire a contatto con quel letamaio.
“Ma tu questo Eugenio lo conosci bene?” Fece Paolo.
“Veramente pensavo fossi tu a conoscerlo. No, di lui non so niente, lo conosco di vista, lo vedo che tira fuori la sua Bmw del cazzo dal parcheggio…”
“Ah, sì, lo vedo anch’io qualche volta, lavora all’ufficio vendite mi pare.” Paolo sudava in modo impressionante, le gocce gli percorrevano la luna piena del viso dalla fronte al doppio mento.
“E comunque mi chiedo come accidenti faccia una merda di impiegato a permettersi il Bmw, e poi è giovane, non ha nemmeno l’anzianità.” Werner si scaldò non poco pensando alle fortune di questo sconosciuto, due minuti che ci stava pensando e già quasi non lo sopportava. Non conosceva nemmeno la sua voce ma già quasi non lo sopportava.
“Il Bmw sarà usato, e per il resto mi sa tanto di raccomandato…” Insinuò Paolo.
“Dici eh?”
“Dico, dico. È sempre ben vestito e dicono che la morosa sia un tocco di figa. E poi il direttore, Giuliani, lo tratta con un occhio di riguardo, è evidente.” A Paolo comparve sul volto una smorfia che voleva essere con tutta probabilità un cenno d’intesa per Werner, come per dire: tu e io sappiamo come funzionano queste cose. Werner sorrise amaro a sua volta, e poi continuò: “Il direttore dici? Ma se è uno stronzo di prima categoria; lavoro per lui da dieci anni e ancora non mi riconosce, questo Eugenio sarà qui da sì e no da un paio e già sono culo e camicia?” Werner si mostrò più divertito che altro, in fondo gli sembrava dilettevole ammirare Paolo in versione indignata, cosa che puntualmente avvenne: “E non è tutto, hai in mente Grazioli?”
“Chi? Quello della contabilità?” Werner era distratto, si limitava a controbattere come un automa mentre fissava il paesaggio che scorreva di là dei finestrini: brughiera, torrente, campo incolto, campo di grano, di nuovo brughiera.
“Proprio lui, sai che ambiva al posto di capostruttura al distaccamento a Varese?”
“Eh? E allora? Mica il posto era già suo? È da quando sono arrivato io che la mena per ‘sta promozione, perché? Ci va lui no?”
“Col cazzo, ci va Eugenio.” Paolo aveva un’aria soddisfatta, come se fosse orgoglioso di aver svelato un arcano; Werner ci giocò su, accentuando lo stupore che in ogni caso le parole del collega avevano suscitato in lui. “Però, dev’essere stata una bella botta per Grazioli, vent’anni che si sbatte per questa gente e nemmeno uno straccio di promozione. Che promozione poi… Capostruttura a Varese, manco fosse stato a New York…” A questo Eugenio tutto sommato conveniva trasferirsi, non avrebbe tirato per lui una buona aria dopo le scortesie riservate ai colleghi; l’azienda era sì in espansione, ma non era certo un colosso, era ancora permeata da una certa idea artigianale del lavoro, si puntava molto sui clienti storici, il proprietario era una specie di padre padrone che amava vagare per le linee di produzione con l’occhio cagnesco di chi vuole coglierti in castagna, per cui i colleghi avrebbero potuto rendere la vita difficile ad Eugenio, e in molti modi.
La concentrazione di Paolo alla guida era esemplare, sembrava avesse preso la patente due giorni prima tanto era coscienzioso in ogni manovra e nel controllare costantemente la velocità d’andatura.
“Ma lo sa che andiamo alla sua festa? Mica che questo cazzone ci sbatte la porta in faccia.” L’idea che Werner si stava facendo di Eugenio era in netto peggioramento.
“Ma certo, è stato lui a diffondere la voce: venite al mio addio al celibato, ho idea che se non avesse fatto così non ci sarebbe andato nessuno.”
“E non è detto nemmeno ora che ci sia qualcuno oltre a noi” aggiunse Werner.
“Mah, penso che Casi e Molinari siano andati, lavorano proprio gomito a gomito, almeno una scappata ce la faranno.”
Povero Grazioli, una vita dedicata a questi porci per poi essere trattato come una nullità. Ma forse gli sta bene, e perché no? In fondo chi gli diceva di rimanere? Ha puntato tutto su un cavallo perdente, e ha perso infatti. Non si sgarra, avrebbe fatto meglio a fare altro.
“Senti un po’” Riprese Paolo, recuperando il sorrisetto sornione di poco prima, “Io penso che Grazioli abbia sbagliato tutto, voglio dire, perché rimanere? Tanto si sapeva che c’era poco da fare, avrebbe dovuto ambire alla presidenza, magari gli andava meglio…” Rise, senza troppa convinzione, Werner gli rispose con una boccaccia svogliata, intanto si accorse che non teneva più le braccia in grembo, ma che queste si erano adagiate ai lati del sedile: per un attimo pensò che sarebbe morto per una qualche infezione di lì a pochi secondi, poi si concentrò su qualcos’altro.
“S’era affezionato…”
“Chi?” Chiese Paolo.
“Grazioli. Non poteva più fare a meno dell’azienda, e poi ormai ha la sua età. Chi cazzo vuoi che lo prenda?”
“No, nessuno. Avrà già i suoi quarantasette, quarantotto anni. No, non lo prende più nessuno.”
“E poi nemmeno è laureato, hai voglia, dove lo trova un altro coglione che lo paga così?”.
L’utilitaria giallo taxi viaggiava attraverso stradine semideserte, ogni tanto si incrociava qualche furgone, un’altra utilitaria, una Porsche, ma nel complesso non c’era quasi nessuno in giro. Werner si slacciò i primi due bottoni della camicia, faceva ancora caldo. Ad un certo punto Paolo si mise a grattarsi le tempie, a voltarsi intorno come un ossesso; la sua ridicola testa glabra e rossastra sembrava una lampadina che si stava svitando da sola. “Ma che c’è adesso?” fece Werner, che nel frattempo era piombato in una specie di catatonia, come sua abitudine dopo cinque o sei battute di discorso. “Ci siamo persi, non so dove siamo…” Riuscì a dire, con tono angoscioso e accorato. Ecco, ci siamo, pensò Werner. Vatti a fidare di questo ciccione, nemmeno la strada sa. “Ma le indicazioni che avevi?”
“Le ho prese di fretta, me le sono fatte dare da Dario al telefono, non le ho scritte bene, non capisco più che cazzo ho scritto.” Era sul punto di piangere, mentre continuava a roteare la testa e a brandire il sudicio foglietto come fosse un fazzoletto bianco da resa incondizionata.
Fu un attimo. Le strade in Brianza sanno farsi maledettamente strette, d’un tratto non c’è più spazio. O forse c’è anche, ma ci si trova sempre troppo a destra o troppo a sinistra. Niente guardrail. Comincia ad affossarsi l’anteriore destra, poi una sbandata, Paolo che tenta istintivamente di riguadagnare la strada sterzando a destra, ma ormai l’effetto domino è iniziato. E non c’è niente da fare, si sbaglia comunque. L’auto si ribaltò per due volte, adagiandosi tra un clangore e un altro tra gli arbusti ai bordi della carreggiata.
Sono vivo, non sono vivo. Silenzio. Forse ho rotto qualcosa, porca eva. No aspetta, mi muovo ancora. Werner impiegò qualche secondo prima di realizzare compiutamente ciò che era accaduto. Era incastrato tra le lamiere, ma tutto sommato intero; la macchina era appoggiata sul lato del guidatore, ma era troppo buio per riuscire a vedere qualcosa. Paolo tutto bene?. Nessuna risposta. Con una spallata provò a sfondare la portiera, ci riuscì al secondo tentativo, con un calcio che scostò la lamiera quel tanto che bastava per uscire. Sentiva dolore dappertutto, come se fosse caduto dal terzo piano, ma probabilmente non era niente di più che qualche botta, qualche contusione. Sanguinava dalla fronte. Un fiotto caldo e denso colava dall’attaccatura dei capelli. Per prima cosa andò da Paolo, lo chiamò a gran forza, buttò nuovamente la testa tra i rottami e lo vide, schiacciato sul lato appoggiato a terra, non era morto, ma si muoveva a fatica, piagnucolava.
“Paolo, ci sei? Tutto bene?”, rispose dapprima scrollando la testa, poi fece un gran respiro e mugugnò: “Mi fa male tutto. Il braccio… L’ho rotto…”.
“Senti, non ti agitare, ora chiamo aiuto…”
“Ma no, ma no, ora esco, dammi una mano”. Strano che trovasse la forza di reagire. Strano davvero. Werner gli tese la mano, Paolo chiamò a sé tutte le sue forze, e con un colpo di reni si portò fuori dalla carcassa dell’auto. Usava senza problemi anche il braccio che inizialmente credeva di avere rotto. “No, non è rotto, mi pareva prima… ma ce l’avevo schiacciato a terra, mi faceva male e basta.”
“Chiama un carro attrezzi, che il mio telefonino è spacciato in mezzo alle lamiere, porca puttana.” Detto questo Werner si adagiò sull’erba, scuro in volto e con un gran mal di testa. Paolo dal canto suo sembrava contento, come se il fatto di avere ancora intatta la ghirba lo risarcisse dell’auto sfasciata per la sua stupida disattenzione. “Posso fare causa al comune, eh sì, non c’è illuminazione, non vedevo a dieci metri. Al comune di… dove accidenti siamo?”
“Mah, saremo a Noverate, Valmadrera, chi lo sa?”
“Arcore?” Aggiunse, quasi come se sperasse, chissà perché, di essere ad Arcore.
“Forse. Guidavi tu.” Tagliò corto Werner. “Chiama questo cazzo di soccorso stradale.”
“Il telefonino non prende, dannazione… magari si è danneggiato nell’impatto…”.
Werner sbadigliò, non si aspettava niente di più da quella serataccia nata male e continuata peggio; la sua camicia, bianca a righe blu, la più bella che aveva, era ridotta a brandelli, sporca, strappata. A mani nude ne ricavò una striscia di tessuto che si legò attorno alla testa, per tentare di interrompere il fiotto di sangue che continuava a buttare dalla ferita. Risalirono sulla strada nella speranza di incrociare qualcuno, magari elemosinare un passaggio, ma niente, non c’era anima viva. Werner fissò l’orologio: le undici passate. Era buio pesto; Paolo non aveva tutti i torti: ma come si fa a lasciare una strada nella più totale oscurità? Si distinguevano a malapena le punte degli alberi e i profili appuntiti degli arbusti, cespugli di rovi et similia. Si indirizzarono a passo pesante verso la direzione da cui provenivano, nessuno dei due aveva voglia di intavolare un nuovo discorso, la serata aveva preso una piega decisamente difficile da digerire.
Ad un certo punto Werner si sedette sul ciglio della carreggiata, chiese una sigaretta a Paolo.
“Forse una l’ho salvata…” disse, affondando le mani grassocce nelle tasche dello spolverino. Ma niente da fare. Werner l’aveva capito subito che uscire non era cosa. Il cielo si era intanto liberato dalle nuvole. Si sedettero. Era una buona serata per dare un’occhiata alle stelle.
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- Grazie robinia, hai colto in pieno lo spirito di ciò che volevo comunicare, sono ansioso di leggere qualcosa di tuo.. Ariberto
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