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Racconti su problemi sociali

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La prima volta avevo sei anni

Le pagine del libro di Isabelle Aubry sono pagine vere di vita, in cui la protagonista racconta se stessa, l’infanzia rubata dal padre che prima abusa di lei e poi la offre come merce a coppie scambiste, facendola partecipare anche a delle orge.
In quelle notti “apparecchiate” dal padre, Isabelle è costretta a staccare il cervello e a concedersi a più uomini, anche dieci in una notte.
Nell’arco di due anni la Aubry colleziona circa cinquecento rapporti, ma il padre è felice di aver trasformato la figlia in un “automa” efficiente e funzionale ai propri bisogni.
Di tutto ciò, la madre sembra non accorgersi, ella conserva una naturale neutralità come se non fosse un obbligo di madre indagare e custodire l’integrità di una bambina incapace di difendersi da un padre violento e perverso.
La madre di Isabelle le negherà il dialogo, l’affetto, la protezione, in cambio però le offre il suo silenzio.
La storia di Isabelle è soprattutto una storia di profonda solitudine dove a pagare è la parte più debole, all’interno di in una società che ha elevato l’apparenza a verità e sostituito i buoni sentimenti con il perbenismo e il benessere economico.
Dall’incesto Isabelle Aubry non ne esce, la sua testimonianza è un lungo elenco di disturbi scatenati dalla mancanza di amore, di serenità, di gioia.
Un libro assolutamente da non perdere per comprendere il dramma dell’incesto, le conseguenze che genera su chi lo subisce, gli aspetti legislativi, la mentalità corrente.
Un libro forte, vero, terribile, disperato.
Ma è anche un libro che parla dell’amore, cercato a lungo dalla protagonista e trovato nella nascita di un figlio e nella stabilità di un matrimonio appagante, equilibrato e sincero.
Isabelle Aubry: 45 anni, presidente dell’Associazione internazionale vittime dell’incesto (AIVI).
Il sito che offre informazioni utili e che è in grado di dare un aiuto alle vittime dell’incesto è: http://aivi. org.

   3 commenti     di: Fabio Mancini


Frantumi di me

Distrattamente accese il computer, gesto ormai meccanico da due settimane. Una mano tra i capelli e una sul mouse. Aspettò di poter aprire la sua cartella di musica, scelse un pezzo di Allevi e incominciò a rilassarsi. Da quanto tempo era lì? Troppo, si disse. Non usciva, non vedeva gente, la sua unica vita sociale si stava sviluppando al pc. Msn, Netlog, Nirvam, You tube, Poesieracconti. I siti in cui parlava con qualcuno. Qualcuno che non la vedeva, che non sapeva delle sue lacrime mentre scriveva. Sapeva essere simpatica, sapeva far ridere uno sconosciuto. Ma a cosa serviva, se poi quella persona l'avrebbe salutata e l'avrebbe lasciata sola? Nessun messaggio sul cellulare, nessuno la stava contattando per chiederle cosa avrebbe fatto quella sera. Completamente sola andò in cucina. Aprì le ante, aveva fame. Cereali, latte, frutta, verdura, yoghurt, non le andava quella roba. Aveva voglia di un gelato, di qualcosa di dolce in cui poter affogare quella tristezza. Ma non c'era nulla. Sua madre vietava categoricamente grassi e zuccheri nella sua dieta. Non per cattiveria o per idolatria dei canoni moderni di bellezza. Era solo prouccupata della sua salute, in fondo era una madre presente nella sua vita. A testa bassa tornò nella piccola stanza, ormai rifugio della sua esistenza. Un rettangolo arancione. Marco. Cliccò sull'icona e lesse: ohi. Rispose con un sorriso virtuale che in fondo non era davvero nato sulle sue labbra. Una conversazione breve, gli argomenti mancavano: cosa ha da dire una persona che non vive?



Intanto al Palazzo

Il direttore Locascio, detto il digitale, aveva davanti a sé quattro diversi cellulari e un Ipad, tutti di ultimissima generazione. Non è mai stato certo che fosse capace di usarli ma a lui piaceva farli vedere. Spesso, magari a un tavolo di lavoro internazionale, si lasciava cogliere indaffarato mentre armeggiava con la nuova tecnologia. Credeva gli desse un buon tono, come a chi non sfugge nulla, sempre aggiornato dalle ultime news in tempo reale
Il questore, riguardoso, gli aveva ceduto il posto alla scrivania di legno massiccio. Una piazza d'armi di tre metri e cinquanta per due protetta da un vetro molato scuro e spesso. Di fianco la grande finestra, drappeggiata con tende un po' logore ma pulite. Alle spalle la parete era stracarica di ogni sorta di oggetto. La collezione completa dei calendari della Polizia di Stato, gli stemmi delle divisioni operative speciali e decine di altri ammennicoli erano appesi, come ex voto, tutt'intorno alla foto ufficiale del Presidente della Repubblica. Sul tramezzo di fronte alcune vecchie cornici, riproduzioni sbiadite di militari in divisa d'epoca, contornavano un'enorme pannello con la veduta del golfo.
Masturzo si era sistemato dall'altra parte, in compagnia di due funzionari della Protezione Civile e tre dei suoi più fidati collaboratori.

- Bene signori, stanotte agiremo.

Annunciò serio Locascio, poi entrò nei dettagli

- Sarà un'azione multi forze. Avremo tre elicotteri d'appoggio e centocinquanta uomini tra agenti di polizia, carabinieri e finanza. Se sarà necessario si aggregherà una squadra speciale del 9° battaglione "Col Moschin". Il presidente li ha appena fatti rientrare dal Libano. Arriveranno stasera alla base Nato di Capodichino. A valle dieci fuoristrada della protezione civile vigileranno le vie di fuga. Troisi e il suo gruppo non devono sfuggirci ne va della poltrona.

Masturzo, sorpreso, pensò a quanto fosse esagerato un intervento del genere. Si schiarì la voce e intervenne

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IL VIAGGIO DI HENVER

Un forte vento scompigliava la cima della casa alimentando un flusso ininterrotto di foglie che si andavano a posare sul giardino.
Henver guardava incuriosito pensando che un vento così l’aveva osservato quando suo padre scendeva dalla montagna e si recava in città a salutare il fratello.
Baci, abbracci e salamelecchi.

Lui ne approfittava:nonostante il sonno accettava di alzarsi alle quattro di mattina.
Dopo una colazione a base di formaggio s’infilava nel carretto e continuava a dormire aggrappato ad una esile coperta. Nel dormiveglia pensava e non capiva perché il padre fosse così parsimonioso con i figli e invece magnanimo con i parenti.
Lui, ad esempio, sgobbava nei campi, da mane a sera, ma si doveva accontentare di una misera scodella di fagioli.
La luce dell’alba aveva poi il potere di sciogliere queste immagini contorte.
Si svegliava e conversava a monosillabi con il padre.

Poi un giorno era sopraggiunto un uomo, a cavallo di una vecchia Mercedes.
Si faceva chiamare Pasquale. Aveva preso alloggio in una locanda.
Spesso si spingeva oltre, visitando alture e paesi circostanti.
Gli abitanti apprezzavano i suoi vestiti e si avvicinavano a lui solo quando li intratteneva con racconti estemporanei sull’Italia.
Henver non prestava ascolto a quello che diceva, ciononostante aumentava la sua insofferenza verso il lavoro quotidiano.
Una mattina, incontrò Pasquale su una ripida scalinata.
Era una via di accesso alle montagne. I giovani desistevano ma qualche uomo maturo si spingeva ancora oltre, cimentandosi con la durezza che quel cammino comportava.
Pasquale masticava erbe, era rilassato ma il suo viso cedeva ad una improvvisa rassegnazione.
- Cosa fai qui? Torno a casa.
- Ma quale, quella vecchia stamberga?
- Non ho altro!
- Potresti non accontentarti. Replicò.
- Tu parli ma non sai cosa dici.
- Fidati ogni tanto.
- Sei comodo, ti muovi... e poi crei scompiglio.
- Credi?
- La ge

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   1 commenti     di: Roberto Estavio


Per il periodico, Insieme

In un periodo di recessione economica e di crisi dei valori, anche il concetto della carità ne esce stravolto dal significato originario. "Se ricevessi un poco di carità arriverei a fine mese" oppure: "Potrei essere caritatevole, purché non mi chiediate del tempo e del denaro" queste frasi udite in contesti sociali differenziati esprimono con chiarezza la nozione fondamentale che la gente possiede nei riguardi della carità. Secondo il sentimento comune la carità è meglio riceverla, piuttosto che farla. Un abbraccio, uno sguardo compassionevole, un sorriso solenne sono da preferire piuttosto che mettere mano al proprio portafogli, o a rinunciare ad una porzione del proprio tempo libero per fare del volontariato. Il volto più conosciuto di quello che secondo noi è il gesto caritatevole, spesso coincide con l'elemosina. Vale a dire il disfarsi alla prima occasione di quello che avanza. Secondo il mio punto di vista per essere disposti verso le attività caritatevoli, occorre un buon grado di preparazione psicologica e spirituale che si acquisisce dopo un cammino comunitario, nel quale ci si spoglia dei tanti luoghi comuni, come ad esempio: la paura di diventare poveri, se non lo si è già, la deificazione del tempo libero, il compiacimento del proprio orgoglio, l'ambizione di raggiungere il potere, tutti elementi che ci impediscono di vivere una vita come Dio vorrebbe e ben al di sotto delle nostre potenzialità.
Ma anche gli operatori e gli animatori impegnati nella parrocchia, che vogliono svolgere un servizio responsabile, serio ed onesto orientato all'affermazione della solidarietà, del bene comune, della giustizia sociale e della gratuità non hanno vita facile. I rischi di chi fa il volontariato caritas in parrocchia sono ad esempio, la sensazione che l'aiuto che si sta offrendo al povero sia del tutto inadeguato rispetto alle esigenze, mentre invece l'obiettivo rimane quello del cambiamento della realtà che gravita attorno al bisognoso. La caritas

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   3 commenti     di: Fabio Mancini


L'iride cobalto

C'è gente che vive, lì fuori. Gente che spera, ama, crede in un qualcosa che può essere vero.
C'è tristezza fuori, c'è tristezza dentro le mura. Chi si diverte, fa solo bene, la vita vuole vissuta almeno un po', e forse basterebbe sorridere di più del normale. Sorridere il giusto, solo per andare avanti ma, c'è sempre il momento che ti blocca, come un muro dinanzi.
Un blocco, una perdita, una calorosa ed amara tristezza, avvolge, stringe il cuore fino al suo interno. Ne senti il dolore, e pensi di poterlo vincere, non è così. Ci vorrà tempo per risanare le ferite.
Ci vorrà tempo per vivere il presente e per rinunciare al passato, credere soltanto al futuro.
E pensi che solo tu stai male, quando gli altri escono e tra un bicchiere e l'altro passano la serata. Perdi, pensi, tutto quello che un ragazzo può desiderare.
Ma non è vero, non si può perdere la forza di vivere, la voglia di sorridere. Svanisci in un istante, perso nei tuoi pensieri, nei tuoi momenti. Ma poi ritorni, più forte di prima, nonostante ciò che sia successo può essere irriparabile.
Non importa. Si andrà avanti, si continuerà a scavalcare le montagne, a sognare il cielo, a baganrsi della pioggia, e saziarsi della luce.
Ci vorrà del tempo per vivere il presente e per rinunciare al passato, e credere soltanto al futuro...

Matteo è un ragazzo come tutti gli altri. Forse lo è, forse non lo è. Ma sente di esserlo per il semplice fatto di essere umano, e tutti sul pianeta siamo uomini, e donne. Tutti dovremo essere uguali, ma nel mondo vigila attento il razzismo, e molte altre sue forme mutabili.
Matteo ha fatto la sua scelta.
È omosessuale e lo ha dichiarato, ci è voluto tempo per farlo. Ci è voluto tempo per ragionare, per formulare frasi, non servite a nulla. A sedici anni, dove si trova la forza per dire certe cose?
Nel cuore, nelle esperienze, nella vita. Nei sorrisi contati ogni giorno, e nella tristezza raddoppiata in confronto alla felicità. Così

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   5 commenti     di: Giuseppe Tiloca


LU VENTU FA ed il vento disfa

Gasparinu Piloru guardava l'aria piena di gregne di spighe di russellu e non poteva fare a meno di sentirsi salire dentro la gioia, una grande soddisfazione a vedere su quello spiazzo ricavato in un costone del feudo del Conzo. Quell'anno il grano era venuto 'ngranatu, spighe lunghe a ottu carri, tutto lasciava presagire che il grano prodotto sarebbe stato tanto e di buona qualità. Avrebbe potuto, pagando le spese delle mezzadria, di mettere da parte il grano per la mancia e forse qualcosa ancora da vendere, depositando poi il denaro ricavato in banca.
Certo quel raccolto, sin dall'inizio, si era presentato con molte difficoltà climatiche. Le prime piogge che solitamente arrivavano a settembre, quell'anno si erano fatte attendere così a lui pi simari primintiu non era rimasto altro chi sciaccari a siccu la terra che era dura come la roccia. Gli animali si torcevano sutta lu juvu, tiravano l'aratro che appena scalfiva il terreno mentre il vento di scirocco che soffiava impietoso, faceva alzare nugoli di polvere e pagliuzze che accecavano i poveri animali ed il loro padrone
Vento, vento, vento che soffiava impetuoso quando era necessario che esso calasse e vento che necessitava e si faceva aspettare, lo sapeva bene Gasparino che aveva coltivato quella tenuta con grandi difficoltà, tra i ritagli di tempo, magari mentre gli animali che stava pascolando, sazi di erbe, si fermavano a riposare. Il vento di gennaio aveva soffiato su quelle pianticelle al punto che il pover'uomo, guardandole, aveva imprecato sulla malasorte e disperato per qualche settimana aveva evitato di passare da quella tenuta per evitare di rattristarsi ulteriormente. Ma ancora una volta si dimostrò vero il vecchio detto: "Asinu puta e Diu fa racina. Volendo con questo dire che le componenti della natura possono distruggere una pianta e successivamente ridarle vitalità e vigore. Marzo fu soleggiato ed i venti leggeri accarezzarono a lungo quelle piantine di grano che ripresero vigore. Il gran

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