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Racconti su problemi sociali

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Il fruttivendolo olivastro

“Hey Calh, che mi dici dei peperoni?”
Calh non risponde, ma muove appena l’angolo destro della bocca, socchiudendo contemporaneamente gli occhi, e la signora che ha posto la domanda capisce, unica nel negozio, che è meglio lasciar perdere, i peperoni li comprerà la prossima volta.
Sono passati solo cinque anni da quando Calh ha rilevato il suo negozietto, ma la clientela è già ben delineata e lui sa bene che la signora alla quale ha appena fornito l’informazione circa i peperoni da non acquistare è una cliente fissa, una buona cliente, ed il mancato guadagno di oggi si tradurrà in un doppio guadagno domani, quando lei, gratificata dal trattamento riservatole, tornerà, e spinta dal senso di riconoscenza metterà nella sua borsa un quantitativo di merce doppia rispetto a quello che aveva intenzione di portare a casa.
Calh conosce bene queste dinamiche, anche i suoi erano nel commercio, pur se in un settore diverso, e certe cose funzionano allo stesso modo un po’ dappertutto.
Il ricordo di quelle mattine trascorse in quello squallido mercatino, (ma che era squallido Calh lo capisce solo ora che è a contatto con questa realtà nuova), a vendere roba sostanzialmente inutile come quelle collanine confezionate da sua madre con ciò che si trovava in spiaggia e canestri intrecciati alla meno peggio da suo padre a gente sostanzialmente bisognosa di tutto, era uno dei più vividi nella sua memoria e, seppure in maniera più naturale, senza un calcolo dietro, anche i suoi invogliavano la sparuta clientela nello stesso modo in cui Calh aveva fidelizzato al suo esercizio la signora dei peperoni.
Lui sa bene che le sorti di quel piccolo bugigattolo da fruttivendolo sono fondamentali per sé e per la propria famiglia nucleare venuta qui assieme a lui, senza contare i tanti parenti rimasti in patria - primi fra tutti i genitori?" e dipendenti in larga parte dalle sue rimesse monetarie.
No, il negozio, (chiamato semplicemente “Da Calh”), è troppo im

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La cassetta dei pomodori

"Cavolo, di nuovo il Natale", pensava Christian ogni anno, quando si avvicinavano le feste. "Deve venire per forza tutti gli anni?"
Ogni volta, verso Dicembre, chiudeva gli occhi e sperava che qualcuno gli comunicasse che erano sospesi tutti i festeggiamenti natalizi. Niente regali, niente letterine a Babbo Natale. Tanto per lui era inutile.
Erano ormai tre anni, da quando aveva imparato a scrivere, che chiedeva a quel vecchio signore con la barba bianca un regalo speciale, la cosa più importante del mondo: una mamma. Non ne aveva mai avuto una. Quella che lo aveva partorito, lo aveva abbandonato vicino ad un ospedale, disteso in una cassetta, una di quelle per i pomodori. A volte pensava che sarebbe stato meglio per lui essere un pomodoro. Avrebbe allietato il pranzo di qualcuno, per poi sparire per sempre dopo la digestione.
Voleva una mamma, una vera, tutta per lui. Insieme agli altri bambini viveva bene, era felice. Erano tutti simpatici, giocavano insieme, facevano i compiti, si divertivano. Quella grande, bellissima famiglia, non gli faceva mancare niente. Eppure lui desiderava una mamma. Ogni volta che ci pensava, nel suo lettino azzurro, immaginava come sarebbe stata: alta, bassa, bionda, bruna. Poi si diceva che voleva semplicemente una che gli volesse bene, come una mamma vuole bene al suo bambino. Non gli importava l'altezza, il colore dei capelli, degli occhi.
In casa famiglia tutti gli volevano bene, ma l'amore di una mamma è speciale. Lui lo sapeva, anche se non l'aveva mai provato. Lo immaginava come un dolce profumo di fragole, che gli arrivava al naso ogni volta che sognava il giorno in cui sarebbe si sarebbe avverato il suo desiderio.
Anche quell'anno, inesorabile, il Natale era alle porte, e Christian aveva scritto la sua solita, densa, bellissima lettera piena di speranza. La mattina del 25, in casa famiglia, tutti i bambini correvano verso l'albero, alla ricerca del regalo richiesto. Quello di Christian era in una piccola scatol

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L'ultima fumata

Eddie non ne poteva più, proprio più, di vivere in quella casa. Era vero, aveva tutto quello che gli serviva ma non era abbastanza.
Aveva un tetto, cibo a volontà, una stanza comoda, una bella fidanzata, un cane e persino un giardino. Soprattutto aveva tutto il crack che voleva a portata di mano. Lo fumava sempre più spesso. Era una sensazione pazzescamente bella e a lui ormai non importava nient’altro al mondo.
Il suo spacciatore abitava nella stessa casa, al piano di sopra. Per Eddie era un gioco da ragazzi, appena aveva qualche soldo o della merce rubata da scambiare, andare di sopra e farsi dare la sua dose. Solo che la dose non bastava mai. A prescindere da quanto gliene davano. Non poteva bastare e non sarebbe mai bastata. Come può il più buono di tutti i frutti proibiti essere mai abbastanza?
Doveva andarsene se voleva sopravvivere ma non poteva e non ci sarebbe mai riuscito da solo. Neanche Megan, la sua fidanzata, avrebbe mai potuto convincerlo. Anzi ormai si era quasi arresa. Quando Eddie era sobrio – il che succedeva sempre più raramente - era simpatico e divertente come quando lo aveva conosciuto ma appena si attaccava alla pipa di vetro era finita. Diventava una specie di automa il cui unico scopo nella vita era rimepire la pipa e svuotarla.
Eddie aveva tutto del crackomane: la testa rasata con un grosso tatuaggio di una tarantola in una ragnatela sul cranio pelato, il modo di fare punk, lo sguardo spento e penetrante allo stesso tempo, l’aspetto trasandato da vagabondo e la cattiveria necessaria per farsi rispettare dalla gente con cui inevitabilmente doveva avere a che fare. Ultimamente andava a rubare sempre più spesso per alimentare la sua sempre più costosa abitudine. Rubava computer dalle università oppure entrava nelle casa in cerca di contanti e gioielli. Quella sera gli era andata molto meglio del solito. Nel comodino della camera da letto della casa in cui era entrato aveva trovato un rotolo con 500 dollari di cont

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   1 commenti     di: davide sher


Co-raggio di luna II

Un corvo spiccò il volo. L'aveva impaurito un sasso, un sasso caduto non troppo distante provocando un lieve fruscio delle foglie ingiallite di un tiglio. Un buco nell'acqua. Luigi prese da terra un'altra pietra e la lanciò in direzione di quei silenziosi guardiani della storia, arbusti che avevano visto il passaggio di molteplici eserciti, gente dalle varie provenienze che approfittava della disgregazione delle persone che abitavano da diverso tempo quei territori. Era un buco nell'acqua con quei soggetti, impegnati a inseguire qualche fine da cui sperare di trarre un vantaggio, un piccolo miglioramento, anziché inseguire il fine. Che sarebbe stato un nuovo inizio. Salì sul suo cavallo e si addentrò nella selva. Subito si accorse di un profumo diverso, un profumo nuovo, un profumo che non aveva mai percepito dalle sue parti. Come se avesse bevuto un sorso di guaranito, come se fosse tornato nuovamente in Brasile, come se fosse stato in preda a una sensazione di piacere. I ricordi lo ubriacarono offrendo un terreno fertile per i suoi pensieri. Solo quando passava delle serate con Gabriele e Giovanni consumando del vino percepiva simili stati d'animo ed aveva solo una certezza in quel momento, tutto ciò che gli stava venendo alla mente non poteva che essere la verità. Lì era legge, pensò. In quella piccola comunità il silenzio, la pace, quel profumo erano diventati legge sulla base di un tacito accordo, di una volontà comune. Strattonò il suo cavallo ed invertì la corsa. Stava percorrendo un sentiero illuminato dalla luna. Era grande, luminosa e proprio davanti a lui. Sapeva che non l'avrebbe raggiunta ma aveva intuito che era quella la direzione giusta da seguire.
Sono più le persone che appoggerebbero l'operazione che quelli che la ostacolerebbero. Alla maggior parte della gente non gliene frega un cazzo, basta lasciargli il loro orto da coltivare per renderli felici, ma anche molti commercianti se ne sbattono. Gli unici ad aver paura sono i nobili

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   0 commenti     di: vasily biserov


Ciro O'Bello

All'anagrafe Ciro Scapece, dagli amici chiamato Ciro o'bello, per tutti gli altri semplicemente don Ciro.
Il soprannome se lo era guadagnato per via di uno sfregio sotto la mascella destra, dovuto ad un duello fatto con la famosa "Molletta" ( Coltello con apertura a scatto ). Quando si ha 15 anni e facile perdere la testa, soprattutto se si permettono d'infamarti con epiteti riservati a quelle persone che hanno la madre che di professione intrattiene uomini a pagamento. " Figl'è zoccola" per colpa di questa frase si fece due anni di riformatorio.
La madre nonostante tutto era persona perbene, faceva quel mestiere solo per dare da mangiare ai suoi 5 figli. Dopo la morte del marito avvenuta in un campo di lavoro in Germania, dove fu imprigionato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, la signora si trovo sola, con un'unica scelta possibile. La donna capi subito che per Ciro stare sulla terrà ferma era pericoloso, per il suo carattere ribelle, ecco perché decise di mandarlo a lavorare su di un peschereccio.
Il giovane Pescatore era un ragazzo sveglio, i fratelli Scognamiglio proprietari dei 5 pescherecci della flotta, gli volevano bene, dopo pochi anni lo misero a capo di un'imbarcazione. Si era guadagnato la stima dei propri capi, tra tutte le imbarcazioni la sua era quella che tornava con più pesce a bordo. A nulla servivano le lamentele dei colleghi che l'accusavano di sabotaggio, infatti più di una volta si erano trovati con grossi problemi da dover affrontare: reti tagliate, mancanza di gasolio, guasti improvvisi. I Capi avevano fiducia del giovane, che oltre dalle soddisfazioni lavorative, venivano gratificati ulteriormente dalle conoscenze femminili del ragazzo
Don Ciro però di tutto questo non era completamente appagato, apri anche qualche pescheria per sistemare il resto dei fratelli, ma sentiva di valere di più. In pieno boom economico, Napoli divenne il crocevia del contrabbando di sigarette, ecco l'occasione di una vita: per lui persona

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   0 commenti     di: Marco Manna


Fa male due volte

Il treno filava bello veloce, quel giorno. Nessun ritardo, per fortuna, e Mattia anche per questo era stranamente contento. Sarebbe arrivato a casa in tempo, per una volta, e avrebbe potuto abbracciare finalmente i suoi genitori, che ormai non vedeva da sei mesi. Mattia fece un sorriso pensando alla faccia che avrebbero fatto i suoi vedendolo. Sicuramente non lo avrebbero riconosciuto. Si era fatto crescere una lunga e ispida barba, che lo invecchiava almeno di cinque o sei anni; e ne aveva solo ventidue. La barba però non era l'unica cosa che in quei mesi era cambiata; era mutato anche il suo approccio alla vita, ed egli era più solare, più vivo rispetto a prima. Era scappato di casa per quel motivo, e ora era pronto a rimediare al suo errore. Nel periodo in cui si trovava a vagabondare di città in città, sfruttando il suo simpatico pollicione per farsi dare uno strappo in macchina da un qualsiasi sconosciuto, da stupido e incapace bamboccione era diventato un uomo, e non solo per la barba forte e nera che gli era cresciuta. Aveva capito che le cose bisogna guadagnarsele da soli, e che mamma e papà erano un aiuto di cui poteva fare volentieri a meno. Tuttavia sentiva la loro mancanza ogni giorno di più, e la nostalgia cresceva forte nel suo cuore, specialmente dopo che, mentre attraversava a nuoto un fiume, aveva perso l'unica fotografia che lo ritraeva felice con i suoi. Mentre pensava a tutto ciò, Mattia scriveva come un ossesso. Poesie, poesie e ancora poesie. Un giorno qualcuno sarebbe stato disposto a pubblicarle, pensava sempre. Le raccoglieva gelosamente in un piccolo bloc notes ingiallito e macchiato di inchiostro nero, che però non nascondeva le parole. Aprendolo per caso, Mattia scoppiò in lacrime. Era la poesia che aveva scritto per Michel, un suo amico francese, morto per overdose di eroina due settimane prima.

Sfiorando la morte che insegue
Solcano dune infuocate
I beduini

Strappati alla vita al tramonto

Lasciavano il campo al matt

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   0 commenti     di: Andrea


Semplicemente perfetta

Devo solo arrivare a domani, si tratta di resistere qualche ora.
Ripenso a quello che mi ha detto la mia amica: "Quando ti prende lo sconforto, accenditi una sigaretta e beviti un caffè, basta che arrivi al giorno dopo."
Stringo i denti e tiro fuori il pacchetto di sigarette che tengo nascosto sotto la biancheria, ne accendo una e la fumo nervosamente. Forse dovrei prendere quelle stramaledettissime pillole.
Respiro profondamente e tiro un'altra boccata, devo solo stare calma e passerà tutto.
"Mai mostrarsi deboli, controllarsi sempre. La mia vita deve essere votata alla perfezione."Mi ripeto meccanicamente come un mantra.
Le immagini stanno diventando sfocate, come se fossi sott'acqua, magari sto esagerando o magari questa è solo una prova che renderà ancora più soddisfacente il risultato.
Le mani mi tremano, sento freddo. Non so che devo fare, se solo ci fosse qualcuna in chat potrebbe darmi una mano.
Scatto verso il PC, ma le gambe sembrano di pastafrolla e cedono sotto il mio peso, cado a terra con un tonfo sordo mentre il mondo trema e si capovolge.
Sono debole, sto male, ma devo resistere, lo faccio per il mio bene. Tutto questo è necessario per la mia salute, per il mio futuro.
Da quando ho smesso con le cattive abitudini, sto diventando più bella. La mia pelle è più luminosa, i muscoli più tonici e riesco a capire chi mi ama veramente e chi invece è solo ipocrita.
Mi girò sulla pancia e appoggio la guancia a terra, lasciando che il freddo delle mattonelle assorba il caldo di questa febbre che mi consuma da un paio di settimane.
"Vedrai, ci vorranno pochi giorni, poi il corpo si abitua." Mi ha detto una del gruppo. "Ti aiutiamo noi, non sei sola, ce la puoi fare."
Ripenso a quelle parole dolcissime. A loro importa di me, non come ai miei che a malapena mi rivolgono la parola, come mio padre, che si trascina oltre la porta come uno zombie e si piazza davanti al televisore senza rivolge la parola a nessuno. Non è rimasto nulla della p

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   16 commenti     di: Noir Santiago



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