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Racconti su sentimenti liberi

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il direttore M. - sesta puntata

Il direttore M., in realtà, non ricordava di essere uscito dall’appartamento di Arianna in quello stato. Non ricordava nemmeno i quindici giorni precedenti, dei quali i primi sette erano bastati ad Arianna per farlo innamorare di lei in maniera assoluta, totale, così come non ricordava i secondi sette, durante i quali si era creduto altrettanto corrisposto, e si era sentito il re del mondo, ed il quindicesimo, quello più atroce, qello che aveva fatto crollare quel mondo magico come un castello di carte. Tantomeno ricordava l’incidente, lo schianto contro un autobus del motorino che, sulla strada del ritorno verso casa, lui stava guidando come un folle.
Era semplicemente pervaso da una sensazione inspiegabile, violenta, sgradevole, gli pareva che un tentacolo malefico gli frugasse ogni minimo recesso di pensieri e sentimenti inconfessati, nascosti. Gli pareva che quell’escrescenza estranea fosse pronta ad erompere, ed a moltiplicarsi, fino ad invadere il mondo perfetto e sereno che si trovava oltre la porta della stanza-studio.

Il giovane M. rimase per giorni fra la vita e la morte. I medici, che consideravano già un vero miracolo l’essere riusciti a salvare il ragazzo, non presero quasi in considerazione l’amnesia del giovane paziente, che, nei propri ricordi, aveva fermato l’orologio quindici giorni prima dell’incidente. Fenomeni di questo tipo, dopotutto, si verificavano, talora, dopo traumi così gravi.
La priorità, per ora, era rimettere a posto le diverse ossa fratturate.
La guarigione del giovane M. fu totale ma lunga, tanto da costringerlo a non rientrare a scuola per tempo, ed a studiare, quando il suo stato di salute lo consentì, privatamente. Il ragazzo aveva deciso di sostenere comunque l’esame di maturità, e di passarlo con ottimi voti, anzi, con il massimo, e la lode.
Uno dei suoi compagni di classe, tale Giovanni S., notorio innamorato senza speranza alcuna della bella Arianna, raccontò al giovane M. che la raga

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   2 commenti     di: laura ruzickova


Il piccolo Cesare

Questa è la storia di un ricordo che si trasformò in racconto un giovane pittore, quinto d’otto fratelli.
Il papa, un artista, attore di teatro, musicista e scultore. La mamma, una gran donna di casa. Come quasi tutte le donne dell'inizio. secolo scorso, era assai premurosa e dedita alla famiglia.
Césare era il suo nome. Nacque a Roma, in un piccolo ospedale costruito sopra ad un'isoletta che si trova in mezzo il fiume Tévere, che attraversa la città. Visse in un quartiere chiamata Trastévere. È uno dei più antichi di Roma. Ed è chiamato così perché sta dietro il fiume Tévere.

Era un bambino molto allegro e vivace. A quei tempi i monumenti non erano molto protetti e sorvegliati come lo sono oggi, fatto che le permesse a lui, ai suoi fratelli ed agli amici di giocare nella tomba di Nerone, imperatore romano, o nelle catacombe, nel Colosseo ed in altre antiche costruzioni della Roma Imperiale.

I suoi fratelli raccontavano che mentre giocavano, il piccolo Césare si fermava ad ammirare con speciale devozione le sculture e gli affreschi, e cercava di immaginare gli edifici, ormai in gran parte distrutti e consumati dal tempo, come potevano essere effettivamente in origine. Il gioco favorito consisteva di rivivere il passato tra le rovine dove giocavano. Egli voleva sempre rappresentare Cesare Augusto, secondo lui, il più grande imperatore della storia. Per anni giocarono alla stessa cosa, senza che lui perdesse mai la sua parte d’imperatore romano.

Però anche per il piccolo Cesare gli anni dell'infanzia lasciarono spazio a quelli dell'adolescenza. Benché continuasse a frequentare gli stessi posti della sua non tanto lontana infanzia, a quattordici anni lo faceva per riflettere, camminare con gli amici raccontando storie e per disegnare. Adorava dipingere, e tutti i suoi cari lo sapevano.

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IL DIRETTORE M. ( terza puntata )

No, non aveva dato alcun indirizzo di posta elettronica, né , tranne il nome ed il cognome, altri particolari sulla propria vita, e sul proprio lavoro. Fin dalle prime frasi lui e la Signora D., Erica D., si erano adagiati sulle ali di una conversazione che aveva concesso loro una vacanza quasi magica dall'intero mondo, ali fragili, che il minimo riferimento alla quotidianità avrebbe sfaldato, scaraventando il Direttore M. e la sua compagna sulla scabra superficie della realtà.
Il Direttore M. sezionò mentalmente in mille fotogrammi l'istante in cui la Signora D. gli si era, di propria iniziativa, presentata. Rammentarne il cognome avrebbe forse scacciato quello strisciante senso di vulnerabilità, e di svantaggio, ma M. riuscì solamente a rievocare il contatto con una mano asciutta e sottile, lievemente fremente, ansiosa di riprendere a gesticolare per sottolineare ogni parola ed ogni emozione, di tornare a tormentare la collana, e le frange dello scialle. Era rosso, quello scialle, ricamato con fregi dorati, assolutamente inadatto ad una persona con i capelli biondo scuri come quelli della Signora D., assolutamente inadatto per una persona con la pelle chiara come quella della Signora D., assolutamente perfetto addosso alla Signora D., che sembrava nata per portarlo.

Lo squillo del telefono dissolse a fatica l'immagine di quel tessuto scarlatto drappeggiato sulla figura un poco in carne di Erica... della Signora D. Il Direttore M.,
con abituale disciplina, riprese le redini dei compiti che quel giorno gli spettavano, lavorando con tanto accanimento da accorgersi solamente verso sera, in seguito ad una accorata protesta dello stomaco vuoto, di avere saltato il pranzo.
Ora, però, aveva tempo di farsi portare un panino, panciuto, e debitamente farcito. Se lo meritava, e poteva goderselo senza rimorsi, si compiacque, passandosi una mano sugli addominali ancora ben sodi, grazie all'esercizio fisico che lui, fin dalla giovane età, aveva costantem

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   0 commenti     di: laura ruzickova


Marionette e Burattini

La maggioranza dei rappresentanti delle varie chiese, credendo di non farlo, manifesta apertamente narcisismo, potere, affermazione di se al sommo grado, contraddicendosi totalmente e non facendo cio’ a cui essi stessi dicono di credere.
Essi rappresentano la massa dei credenti che inconsciamente e piu’ o meno consciamente agisce alla stessa stregua dei loro rappresentanti, anche se, effettivamente non nelle stesse proporzioni.
Questo atteggiamento pero’ da enorme considerazione, rispetto e potere a persone che portano maschere, i quali mentono con se stessi, gli altri e verso Dio, piu’ o meno consapevolmente.
Il fatto che miliardi di persone, danno autorita’, credito e considerazione ad attori che scimmiottano un ideale e una parte di quei miliardi fa altrettanto, credendo nel dio cattolico, o protestante, o a quello anglicano, o a quell’altro islamico, al buddista, al taoista, all’avventista, a quello dei testimoni di geova…
Questo atteggiamento che rasenta l' idiozia, di schiavitu', comportamento da burattino e di mancanza di vera liberta' :

È PARADOSSALMENTE UNA DELLE PROVE PIU’ GRANDI DELL’ESISTENZA DI DIO!

Un ateo, che prende sul serio, che da’ considerazione e che addirittura da’, piu’ o meno consapevolmente autorita’ ad un rappresentante del clero o a un semplice credente religioso che non manifesta con le opere quello a cui crede;
oppure un rappresentante della politica che fa altrettanto:
È PARADOSSALMENTE UN’ALTRA DELLE PROVE PIU’ GRANDI DELL’ESISTENZA DI DIO!

Furbi consapevoli a parte...

   7 commenti     di: Phil Ethasimon


La diga

Non doveva essere lì.
Il rumore della vecchia Panda dell' 86 lo teneva sveglio in quell'alba dorata lungo l'autostrada.
Accese una sigaretta.
Ancora non era andato via l'odore di quella precedente e lui era di nuovo a trafficare con l'accendisigari incastrato nel cruscotto di quel vecchio ferrovecchio.
Eppure quando decideva di andare a pescare doveva prendere la Panda. Anche con le gomme troppo lisce e il finestrino tenuto su con un cuneo di legno.
Niente radio, niente musica, niente aria condizionata, niente pelle sui sedili. Nessun airbag, il posacenere stracolmo di vecchie cicche, un giornale ingiallito dal sole sul sedile posteriore.
Claudio amava quella vecchia carretta perchè gli ricordava altri tempi.
Secondo autogrill, mancano venti chilometri alla diga.
La canna rossa aveva il puntale rovinato ma era l'unica adatta. Però aveva preso anche l'altra in fibra di carbonio. Come sempre, aveva deciso all'improvviso, mentre si girava nelle lenzuola calde nel cuore della notte.
Aveva frugato un po', ma neanche troppo, per trovare le lenze e gli ami. Avrebbe dovuto cambiare il filo. Quanto tempo era che pescava con quelle lenze? Le aveva preparate quando era ancora a casa. Tra i rimproveri di Stefania e il cellulare che squillava.
Tre secoli fa.
O solo due anni?
“Alle diciassette, mi raccomando, non fare come al solito che ti scordi pure questo.”
Aveva quasi cambiato voce. Non tanto il tono, forse l'accento. O parlava più lentamente.
Non ricordava che la voce stridula e concitata della moglie.
Eppure lei gli aveva sussurrato parole d'amore su quei sedili disadorni della Panda dell'86.
Sepolte dalla polvere del tempo. Cancellate. Formattate.
Anche lei era sveglia?
Le sei meno un quarto.
Il cielo si era schiarito. L'incendio che il sole aveva sparso nell'aria con quel suo modo violento di sorgere da dietro le colline stava svanendo nella luce grigia e azzurra di un mattino troppo bello per il suo umore.
“Giorno”.
“B

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   2 commenti     di: Giacomo D'Alia


Una tartaruga sul parquet

Erano le nove di sera, sera d’inverno dal freddo pungente. Malinconica periferia di una malinconica cittadina dei gloriosi Statiunitid’america. 2000 anni prima il Cristo s’era arreso su una croce. 800 anni prima uomini valorosi s’erano coperti di gloria in Terra Santa. 30 anni prima qualcuno aveva scattato fotografie sulla luna. Questo era il passato, e non aveva poi molta importanza. Quello che mi importava era il presente. In quel preciso momento, durante l’inarrestabile trascorrere dei secondi, avevo nell’ordine freddo-fame-sonno e sete. In tasca 12 dollari e 47 cents. C’era al mondo chi aveva di meno, ma questo non bastava a rincuorarmi. C’era anche chi aveva giacche di pelliccia e bottiglie di whiskey da 20 dollari e buoni pasto e letti rifatti a puntino e pantofole imbottite e auto col riscaldamento centralizzato e frigoriferi simili a piccoli supermercati ben forniti. Erano uomini vicini alla linea della felicità, o se non altro parecchio distanti da quella della miseria. Uomini che andavano in giro a testa alta, senza che la strada ridesse di loro, senza che la terra avesse la certezza di ricoprirli da un momento all’altro. Forse nessuno di loro avrebbe vinto il concorso di Mister Muscolo o un viaggio alle Hawaii, nessuno sarebbe diventato presidente degli States o premio nobel per la letteratura. Nessuno avrebbe vinto tre SuperBowl. Forse molti di loro avevano dentro vuoti abissali. Ma fuori erano pieni, pieni di oggetti e cose che migliorano la vita. L’inghippo era quello. Camminavano per la strada, tutti (o quasi) avevano due gambe due braccia una testa due occhi e due orecchie. A me sembravano diversi. Altra specie, altra razza. Altri animali, tutto lì. Avevano le loro tane per combattere la notte, e non era poco. Camminavo senza sapere dove andare. Gesù, un’altra notte al freddo, caffè e biscotti sullo stomaco. Il mattino dopo avrei sorriso al sole, 12 ore di tregua prima di una nuova battaglia. Fino a quando? Camminavo, stanco

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La penultima corsa

L'adrenalina si condensava ogni volta che reclinava lo schienale del sedile,
la distanza giusta dal volante calibrata con logico distacco, per avere una visione d'insieme che avanzasse di 20 cm dal parabrezza.
La stanza dei bottoni era semplicemente un volante, il traguardo veniva deciso di volta in volta, mai lo stesso, le soffiate in certe situazioni vissute in bilico, possono essere fatali, fatali come le distrazioni o le debolezze.
Anche le macchine cambiavano di volta in volta, anche perche' era un miracolo che ne arrivasse una sana alla fine della corsa. A volte il sedile era ancora caldo del culo del proprietario che ancora non sapeva che avrebbe visitato il comando pi vicino dei Carabinieri con la speranza di buone nuove.
Da dietro quel volante immaginavi la vita del legittimo proprietario, il cui nome lo rubavi, come tutto il resto, dal libretto di circolazione, che, ogni uomo medio, deposita nel cruscotto.
Una volta le era capitata una mito di una che si chiamava Rebecca Tosti, "una da pompini di classe" aveva pensato.
In due ore si avvicendavano storie di frangenti di vita su quei sedili, chissa' quanti ci avevano scopato in quelle macchine, chissa' quanti ci avevano litigato e in quanti si erano rifugiati per dieci minuti di assoluta solitudine esistenziale lontani dalla confusione della consuetudine.
Lisciava la pelle tirata del volante, stringeva la presa con le mani, pavoneggiava le dita e intanto guardava un punto lontano lungo il rettilineo della strada, promossa a circuito da competizione, che doveva progressivamente avvicinarsi al suo muso.
Non era banale vedere una donna al volante, il buon senso impone di non invischiarsi in questi compromessi con l'illegalita', le corse clandestine sono affare da veri uomini, quelli che sprezzano il rischio di far piangere qualche fidanzata, o qualche genitore che anche di fronte all'evidenza e' pronto a spergiurare che il figlio"era un cosi' bravo ragazzo, sicuramente ci e' stato portato

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