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Racconti surreale

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Una strega o una scienziata?

Questa mattina aprendo gli occhi ho visto un rivolo di fumo volteggiare sopra il mio letto, d'istinto mi chiesi se non avesse preso fuoco qualcosa, e del resto.. casa mia era piena di oggetti e mobili in legno, sarebbe stato piuttosto plausibile. Mi mossi d'istinto, ancora insonnolito e intontito, costringendomi a mettermi seduto sul letto. L'origine di quel singolo fiumiciattolo di fumo grigio era un calumè saldamente stretto fra le mani di una donna che non avevo mai visto in vita mia.. no aspettate un attimo, in effetti quella donna l'avevo già vista -sarebbe opportuno dire che tu mi abbia visto più di una volta, sono o non sono tua sorella?- era la prima volta che la vedevo fumare, e questo mi lasciò piuttosto perplesso. I suoi lunghi capelli rossicci erano raccolti in una semplice coda di cavallo, indossava una camicia a quadretti e un paio di pantaloni a zampa d'elefante -Buon giorno Serena, cos'è questo tuo nuovo look?- mi accorsi presto che portava anche degli stivali e un cappello da cowboy, piuttosto insolito. Forse aveva intenzione di trascinarmi in qualche sua nuova avventura? No, le sue avventure erano sempre fuori dal comune, erano assurde, prive di significato e di significante, come quella volta che gli chiese di andarle a prendere del latte e lui si ritrovò a cercare una mucca all'interno del loro frigo che per l'occasione si era trasformato in una sorta di porta dimensionale che dava su di una fattoria. -Non posso crederci, pensi ancora a quella volta che ti ho chiesto di prendermi del latte? Sono certa che sia stato molto divertente per te, non puoi continuare a rinfacciarmelo così a lungo!- Mia sorella, non rispettava quasi mai la privacy dei miei pensieri, oh non pensate male.. non era una telepate, che nome scialbo, lei era molto di più, e al tempo stesso era molto di meno! -Dovresti renderti conto che, sebbene io sia una fisica, molti potrebbero darmi i più svariati appellativi.. strega, maga, fatucchiera, chiromante..- Si, lei era un

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Voglia di morire

Qualcuno capì che non erano più le ore a passare così in fretta, e gli alberi nei giardini si spogliavano dei loro fiori più belli e i sempreverdi erano così fissi nella loro semplice armonia. Dalla strada s'udiva una voce che cantava canzoni d'amore, o forse proprio una serenata per una donna già vedova e appena sposata. Nei quartieri vicini un rumorio di cose passate ancora perdurava nella loro memoria. Quella gente s'ostinava a credersi importante, e se il giorno portava con sé le parole più belle ecco come magia tra la luna e le stelle un silenzio che scioglieva l'abisso e qualcuno che senza pensieri diveniva sempre più triste. A quell'ora nessuno sapeva cosa fosse la storia, nessuno pensava al contesto in cui viveva e se avessero chiesto pure solo un istante di quiete apparente allora avrebbero capito; e anche se forse qualcuno lo chiese timidamente non poté capire perché non gli fu concesso. Certo le montagne non erano così lontane e le loro fantasie potevano elevarsi alle vette più alte, ma nessuno, proprio nessuno avrebbe voluto morire. Anche allora il cielo s'illuminava dei colori più vari e dopo la pioggia ecco l'arcobaleno. Ammirava da solo quel panorama sereno dove anche gli uccelli sembravano liberi e i piccoli insetti danzavano senza conoscere il lento passare degli anni. Ma recavano lacci d'argento alle muse funeste senza badare alle cetre diffuse oramai in mezzo ai folletti. Verde acqua che staglia la laguna e modifica il colore del paesaggio. Guardò in fretta l'orologio d'argento che aveva al polso e accortosi dell'ora cominciò a correre veloce, senza mai fermarsi fino a destinazione. Caduto da un pero che era vicino alla campagna s'accorse che il mondo era strano, volò poi con i demoni attraverso la volta dorata, ma colori insistevano enormi e non gli era facile capire. Verso un'ora più insolita che strana, anche gli anni passavano felici, tentò rapidamente di scoprire cosa ci fosse dentro la scatoletta che il padre gli regalò p

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La casa gialla è in fondo alla via

Una donna sulla cinquantina con un paio di cesoie da giardino le indicò la strada: “La casa gialla è in fondo alla via! ”
Miranda alzò una mano.
“La ringrazio! ”
Tirò su il finestrino della Jeep e avanzò lungo la strada.
Quel posto non la metteva particolarmente a suo agio, ma lo trovava ideale per il suo lavoro.
In fondo sarebbe dovuta rimanere lì solo il tempo necessario per la stesura del libro che il suo agente le aveva imposto di scrivere.
L’annuncio l’aveva letto sul giornale locale, e le era parsa un’idea fattibile. Poteva permettersi molto di più, dati i risultati delle vendite dei suoi libri, ma non era una megalomane e credeva fermamente che la semplicità fosse una delle virtù più importanti.
Diede uno sguardo al biglietto che teneva in mano e fissò l’abitazione. L’annuncio aveva attirato la sua attenzione nel momento in cui aveva messo gli occhi sul giornale.
“Affittasi abitazione in Via dei Ciliegi, due piani, ammobiliata, euro 200 al mese”.
Parcheggiò l’auto e scese. Una casa gialla non la vedeva da quando sua madre le aveva mostrato quella nella quale abitava da ragazza.
Scese ad osservarla. Le chiavi le erano state consegnate dall’agenzia. Aprì il cancelletto, e diede un’occhiata al giardino. Piccolo ma ben tenuto per essere un terreno che non riceveva cure da più di tre anni. Salì i tre gradini in pietra, ed inserì la chiave nella serratura. Poi spalancò la porta.
L’interno si presentava buio. Entrò e si richiuse la porta alle spalle. Tastò il muro in cerca dell’interruttore ma quando lo cliccò, la luce non si accese.
Allora riaprì la porta per farsi strada verso le finestre. Quando spalancò le imposte, vide l’interno. I mobili erano stati coperti con delle lenzuola bianche. Il posto era bello e anche se doveva soggiornarvi per poco, fu felice della scelta che aveva intrapreso.
Dopo aver disfatto le valige, e dopo cena, decise di mettersi già a lavoro.
Aveva preso post

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   7 commenti     di: Roberta P.


La luce

Oscar leggeva e mentre leggeva si convinceva sempre di più che stava sprecando il suo tempo. Quello che aveva in mano non era un libro, ma un fascio di carta straccia. Non conteneva dei racconti, ma i deliri di menti malate, gli sproloqui di voci che non avevano niente da dire e da raccontare.
Continuò a far scorrere lo sguardo sulle pagine e considerò che se avesse registrato le idiozie che sparava quando era ubriaco o drogato e le avesse messe nero su bianco con ogni probabilità avrebbe ottenuto un risultato migliore.
Non ne poteva più.
Lesse il nome del tizio che aveva curato l'antologia di racconti, lo insultò silenziosamente, poi distolse gli occhi dal libro e guardò fuori dalla finestra. Dopo settimane di nebbia e maltempo, il sole era tornato ad accarezzare il profilo delle montagne.
Fu allora che accadde.
Oscar scrutò la luce dorata che si espandeva nel cielo terso e la sentì farsi strada lungo gli oscuri corridoi della sua mente. La sentì scacciare le tenebre e colmare ogni spazio di una nuova e confortante consapevolezza.
Mollò il libro e uscì di casa.


Un'ora dopo Oscar era su un treno in partenza per Roma. Sul volto aveva un'espressione ferma ed impassibile, negli occhi una luce viva e sfolgorante che sembrava destinata a non spegnersi mai. Era come rinato. La visione del sole che splendeva nel cielo invernale lo aveva fatto risorgere, liberandolo di colpo dal buio profondo che lo aveva circondato. Anni di lavori occasionali, di espedienti architettati per sopravvivere, di giorni e notti trascorsi a comporre, imbustare e spedire i suoi manoscritti gli avevano ottenebrato la mente e lo spirito senza che nemmeno se ne accorgesse. Ma adesso era finita. Adesso la luce era tornata per illuminare i suoi passi e mostrargli la via. Adesso sapeva quello che doveva fare.
Entrò in uno scompartimento mezzo vuoto e si accomodò accanto ad una ragazza e ad una vecchia che sedevano una di fronte all'altra ed osservavano distrattamente le persone

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   0 commenti     di: Filippo Fronza


Quando Arthur abbandonò la poesia

Le aveva dato appuntamento al lago quella mattina. Pioveva ma non era un temporale passeggero era una pioggerellina fine e continua, che un cielo grigio tenue sputava dolcemente.
Il lago era avvolto in un manto soffice di nebbia, la giornata sembrava non dovesse mai iniziare, un eterno crepuscolo di un' alba o di un tramonto, abbandonati alla deriva di una povertà interiore lacerante.
Quando Artur parcheggiò l'auto lei era già ferma ad attenderlo. Come la vide il cuore gli andò in subbuglio. Non riusciva a contenere la sua immagine per intero, era una sensazione forte, uno stantuffo che dal cuore balzava in mezzo alle gambe, che avevano poi difficoltà a contenere quel legno di quercia prossimo ad un'esplosione.
Quella donna lo soggiogava, quei capelli neri e voluminosi, che ricadevano morbidi lungo le spalle, durante i furiosi amplessi gli vorticavano come serpi sottili sul volto e contribuivano a fargli perdere la testa.
Ci mise un tempo infinito a spegnere il motore, a tirare il freno a mano... la guardava e un'eccitazione selvaggia lo afferrava dai piedi. Si prese il tempo di osservarla meglio partendo dai capelli per poi perdersi su quelle labbra rosse, così accentuate da quel rossetto lucido accattivante. Gli sembrava di sentirle morbide sul suo corpo anche se la vista di quel rosso lo spaventava, gli ricordava che era una puttana, una che si era concessa per una lacrima e allora una voglia irrefrenabile di riempirle di terra invece che di carne lo eccitava di più.
Scendendo dall'auto lei gli andò incontro. Il fisico slanciato era un urlo, sembrava che quei fianchi sinuosi fuoriuscissero dalla nebbia del lago per entrare nella sua nebbia erotica. Le sorrise ma sembrava assente, come guardasse un film. Era strano Artur questa mattina, impacciato come un bambino alla sua prima avventura.
Non era impaccio era pazzia, quella sottile che ti attraversa la mente come un lampo, ti afferra le gambe e il ventre sembra premere in cerca di una via d'us

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   2 commenti     di: silvia leuzzi


Menico piastrellista

Monna Monica! Quante gliene faceva passare a suo marito, Menico il piastrellista! Ora una gliela cantava, un'altra gliela suonava, ancora una gliela cantava e suonava insieme.
Menico, ch'era uomo impastato di santo, socchiudeva gli occhi e, nelle cervella, quell'armuàr senza stipi ch'era diventata si mutava nella carusa bella e sanguta d'un tempo, le di lei gracchie in cip cip di canarii.
Allora faceva conto di stirarsi la faccia con le dita e, guardandola a traverso i fumi della pipa, le sorrideva.
Ahi Maria!
Con la Monna non la passava liscia manco Signuruzzu: tanto le acchianava il sangue a vedergli stampata quella faccia di bumma, che poco ci mancava gliela sbattesse muri muri per il tramite del collo.
A levare occasione, Menico si raccoglieva i barattoli e sortiva per il Circolo di Vuccirìa.
Proprio qui, una sera, lesse la notizia che lo arrivoltò una notte sana risvegliandolo col cuore sghimbescio e una solida certezza ficcata tra le spalle: il sole morirà.
Dal barone Trabia, quella mattina, dovette rifare il lavoro due volte: le piastrelle gli si staccarono per la caucina troppo liquida, il muro venne gonfio che pareva pregno.
Al sant'uomo gli tremavano le mani, tanto che alla terza cazzuola sconocchiata per terra il barone lo pigliò e gli disse: "Menicu, chi fù? Hai a frevi? Caudu si. Suli forti pigghiasti?".
"Baruni, u suli c'entra ma no pi comu pensa lei", e gli contò paro paro il fatto.
Tornando a casa guardava il cielo: era impressione o davvero uno squarcio, come una rasoiata, lo traversava da una nube all'altra?
Ora pareva sul serio pigliato dalla febbre: il sangue gli squassava le vene, la testa gli firriava, le orecchie facevano ron ron.
Tanto ron ron che, quando Monna Monica riattaccò tiritera, Menico non potè sentir più il cip cip dei canarii.

   0 commenti     di: sergio scaffidi


Emozioni contrastanti

Che cosa gli succedeva? Era partito con un intento e poi la violenza iniziata era cambiata, si era trasformata andando avanti in un piacere reciproco, aveva assaporato ogni momento e, ne era conquistato. Da quanto non provava quelle sensazioni? Secoli? Nella vita precedente? Neanche si ricordava di aver vissuto come uomo. Perché adesso provare quelle emozioni? Era lui che giocava con gli uomini, eppure aveva la sensazione che qualcuno giocasse con lui.
Avere dei pensieri in testa non era da lui. Scappò e si rifugiò nel suo secolo preferito; l'età oscura, dove tutto era permesso e lecito. Doveva fare qualcosa per scaricare questa tensione, qualcosa che non lo avrebbe fatto pensare per un po'.

Courtrai, Belgio 11 luglio 1302, le milizie fiamminghe aspettavano sulla piana di Groniga l'arrivo dell'esercito di Filippo il Bello. L'esercito avanzava lentamente, un alone di bellezza e ricchezza scintillava nelle superbe armature dei cavalieri; sicuri di sé, della loro potenza.
I fiamminghi, molti di loro rozzi contadini e allevatori, erano armati di picche e goedendag (armi simili a bastoni dotati di una punta ferrata all'estremità), ma la voglia di liberare la loro terra dagli stranieri li rendeva impavidi e vittoriosi. Quella era una delle battaglie più cruente della storia, segnava la fine dei cavalieri e delle loro armature; quella battaglia avrebbe cambiato l'assetto da combattimento.
Lui era lì, in mezzo ai fiamminghi, respirava l'aria tesa prima dell'attacco. Una volta anche lui combatteva con la spada, niente a che vedere con le armi moderne, distanti troppo rapide; confrontarsi con un avversario degno, erompeva energia, il sudore era pregno della paura, l'attenzione era al massimo della concentrazione.

Seicento cavalieri erano adesso distribuiti dalla parte opposta del fiume, i due eserciti si trovarono contrapposti uno di fronte all'altro sulle sponde opposte dei canali. I cavalieri francesi avanzarono, superarono senza difficoltà

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   7 commenti     di: Paola B. R.



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