I.
Viveva con sua madre in Cornovaglia:
un dì trasecolò nella boscaglia.
Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro
vide passare un uomo tutto ferro.
Morvàn pensò che fosse San Michele:
s'inginocchiò: "Signore San Michele,
non mi far male, per l'amor di Dio!".
"Né mal fo io, né San Michel son io.
No: San Michele non poss'io chiamarmi:
cavalier, si: son cavaliere d'armi".
"Un Cavaliere? Ma che cosa è mai
guardami o figlio e che cos'è saprai"
"Che è codesto lungo legno greve?"
"La lancia: ha sete, e dove giunge, beve".
"Che è codesta di cui tu sei cinto?".
"Spada, se hai vinto; croce se sei vinto".
"Di che vesti? La veste è pesa e dura".
"È ferro. Figlio, questa è l'armatura".
"E tu nascesti già così coperto?".
Rise e rispose il cavalier:; "No, certo".
"E chi la pose, dunque, indosso a te?".
"Chi può". "Chi può?". "Ma, caro figlio, il re!".
II.
Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: "Mamma,
mammina (cinguettò), tu non lo sai!
ho visto quello che non vidi mai!
un uomo bello più del San Michele
ch'è in chiesa, tra il chiaror delle candele!".
"Non c'è uomo più bello, figlio mio,
più bello, no, d'un angelo di Dio".
"Ma sì, ce n'è, mammina, se permetti,
ce n'è mammina, cavalier son detti.
E io, mammina, voglio andar con loro,
e aver veste di ferro e sproni d'oro".
La madre a terra cadde come morta,
che già Morvan usciva dalla porta;
Morvan usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;
nelle stalle trovò sol un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino.
Egli partì, ne salutò persona
eccolo fuori, ecco che batte e sprona:
eccolo già lontano dal castello,
dietro quell'uomo, ch'era così bello.
III.
Dopo dieci anni, dieci tutti interi,
Breus, il cavalier de cavalieri,
sostò pensoso avanti a quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.
Entr?
Tra cielo e mare (un rigo di carmino
recide intorno l'acque marezzate)
parlano. È un'alba cerula d'estate:
non una randa in tutto quel turchino.
Pur voci reca il soffio del garbino
con ozïose e tremule risate.
Sono i puffini: su le mute ondate
pende quel chiacchiericcio mattutino.
Sembra un vociare, per la calma, fioco,
di marinai, ch'ad ora ad ora giunga
tra 'l fievole sciacquìo della risacca;
quando, stagliate dentro l'oro e il fuoco,
le paranzelle in una riga lunga
dondolano sul mar liscio di lacca.
M'affaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l'onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l'acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d'argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?
Era il tramonto: ai garruli trastulli
erano intenti, nella pace d'oro
dell'ombroso viale, i due fanciulli.
Nel gioco, serio al pari d'un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de' tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue,
ne' tenui diti si trovò gli artigli,
e in cuore un'acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l'uno dell'altro per il volto, il sangue!
Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
ed «A letto» intimasti «ora, cattivi! »
A letto, il buio li fasciò, gremito
d'ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d'ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L'uno si volse, e l'altro ancor, leggero:
nel buio udì l'un cuore, non lontano
il calpestìo dell'altro passeggero.
Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l'uno all'altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch'ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
la Morte con la sua lampada accesa.
I
Mi parve d'udir nella siepe
la sveglia d'un querulo implume.
Un attimo. . . Intesi lo strepere
cupo del fiume.
Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule messi.
Un battito. . . Vidi un filare
di neri cipressi.
Mi parve di fendere il pianto
d'un lungo corteo di dolore.
Un palpito. . . M'erano accanto
le nozze e l'amore.
dlin. . . dlin. . .
II
Ancora echeggiavano i gridi
dell'innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
su l'umida zolla.
Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
la falce alla mano.
Io dissi un'alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
parlava con sè.
dlin. . . dlin. . .
III
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Che importa? Ch'io venga o tu vada,
non è che un addio!
Ma bello è quest'impeto d'ala,
ma grata è l'ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo. . . Già cala
la notte: io ritorno.
La piccola lampada brilla
per mezzo all'oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va. . .
dlin... dlin...
Giovanni Pascoli (1855 - 1912) è stato uno dei maggiori poeti italiani, fra i principali esponenti della letteratura italiana della seconda metà dell'Ottocento.
La sua poesia si distingue in particolare dalla presenza di versi endecasillabi, sonetti e terzine sviluppati in modo semplice.
Giovanni Pascoli ha dato vita a moltissime poesie (anche in latino), alcune delle quali raccolte in libri come Myricae.