Questa mattina ho visto l'alba, il sorgere del sole. È stato bello poter vedere nascere la luce, dopo una notte insonne, una notte in cui i miei pensieri hanno sopraffatto la mia mente, tanto da non lasciarmi chiudere occhio; perciò al primo sorgere dell'alba mi sono alzato e sono andato in giardino, qui in questa fattoria di campagna a quattro miglia da Roma. L'aria era fresca, il sole sorgeva alzandosi dalle colline, tutto lentamente acquistava contorni fissi; e l'angoscia del mio animo si allentava un po' nel vedere quello spettacolo, ma subito dopo, al volgere dei pensieri, ritornava come prima e le funeste immagini del giorno innanzi restavano fisse e immobili nella mia mente. La notte non aveva portato consiglio, non aveva cambiato nulla.
Ho sentito più volte il canto del gallo, ed è stato funesto per me: mi rammentava il continuo correre del tempo, un passo in più verso la morte, quella morte che il Maestro mi diceva sempre di non temere. Sono uscito nel cortile alla prima luce e ho guardato verso le colline, dalla parte opposta al sole nascente; e tra gli alberi e i cespugli ho visto una massa muoversi lentamente, come a scatti. Era un cervo, un cervo che camminava lento, con tre zampe, zoppicando; forse era caduto in un dirupo e si era rotto una zampa, oppure erano stati i cacciatori a ferirlo in quella maniera. Mi ha fatto compassione, e mi è venuto in mente l'idea di curarlo e di farlo tornare alla sua primitiva, naturale agilità. Mi sono detto: "Non sono forse un medico, io? Non ho forse curato per tanti anni gli uomini con buon successo? Anche il Maestro, quando gli davo consigli sulla sua salute, mi ringraziava spesso. E quindi non saprei io curare un animale che, se non possiede la parte ignea e divina che si trova nell'uomo, ha pur sempre un corpo costituito da os-sa e da carne come il nostro?" Ma di questi pensieri mi sono ben presto meravigliato, giacché ho constatato che sarebbe considerata cosa assai bizzarra preoccuparsi di una bestia, voler far cessare il suo dolore in un'epoca in cui in alcun conto è tenuta la sofferenza umana, in un'epoca in cui né bontà ne sapienza ti salvano dalla crudeltà e dalla sopraffazione. Quando non si tiene in alcun pregio la vita umana, come si può pensare agli animali?
Sono stato molto tempo fermo, lì sul cortile, mentre pochi carri carichi di merci passavano ru-moreggiando sulla vita, tra le urla dei carrettieri e l'ansimare dei cavalli. Nessuno pareva ac-corgersi del dramma che qui si è svolto ieri, nessuno lo sapeva, ed anche se l'avesse saputo a-vrebbe continuato ugualmente e con indifferenza la sua via: di questi tempi anche la curiosità è un delitto, ed un delitto ancor maggiore la pietà. Possibile che la nostra civiltà, grande al punto di riuscire a conquistare il mondo, e la nostra cultura, affermata in tutto l'orbe terracqueo, sia di colpo abbattuta, colpita, annichilita dall'orrore della crudeltà? L'umanità stessa non esiste più se non nella forma elementare di uomini che camminano sulla terra e si nutrono di pane, ma che hanno ormai lo spirito travolto dalla bestialità di questi nostri tempi. Quando a scuola il maestro, con la sua lunga barba ormai bianca, mi faceva leggere l'Eneide, mi colpirono non tanto le gesta di Enea quanto la sua pietà, la sua umanità, il non voler uccidere Turno se i fati non ve l'avessero obbligato. E Didone? Come non ricordarsi di Didone e del suo amore disperato? Io vedevo che anche i miei condiscepoli, o almeno i più sensibili tra loro, si commuovevano fino alle lacrime nel leggere il barbaro destino di personaggi del mito, che pur non sono mai esistiti nella realtà. I ragazzi a quell'età non sono crudeli, amano l'amore e odiano l'odio; ma noi, usciti da scuola, vivevamo già allora una realtà fatta di superbia, di violenza e di terrore. La scuola, già me ne accorgevo allora, è lontana dalla vita reale, vive di sogni e di ideali, quegli stessi ideali che la società offende e calpesta, proprio perché così è il potere, in tutte le sue forme.
Quando il sole era già alto sono rientrato nella fattoria, ed ho visto i servi del Maestro che si af-frettavano a ripulire e mettere in ordine, mentre i soldati li guardavano con aria di scherno e di disprezzo. Anche fuori, in cortile, c'erano soldati di guardia, ma a me non hanno detto niente, non mi si sono rivolti con l'alterigia e la volgarità che li caratterizza ed a cui sono stati abituati da chi li comanda ed ancor più da chi comanda il loro comandante. Dentro, invece, dicono e fanno di tutto, senza mostrare alcun rispetto per la morte, che ieri ha toccato così pesantemente la nostra famiglia, il nostro Maestro, che è ormai giunto laddove più nessun male può toccarlo, nessun pensiero malvagio può turbare la sua serenità. I soldati non possono comprendere ciò che per noi era il Maestro, né provare alcun turbamento, sia perché non hanno cultura e perciò non possono apprezzarla ma solo schernirla, sia perché l'uccidere uomini è il loro mestiere. E perciò, pur in presenza di tanto dolore, continuano a schiamazzare, a bere, a palpeggiare le schiave sghignazzando sconciamente; ma io non riesco a odiarli, perché sono troppo diversi da me e dal Maestro; posso soltanto compatirli, come coloro che brancolano nelle tenebre dell'ignoranza e non hanno quindi colpa della loro cecità, non sospettano di non appartenere, se non corporalmente, al genere umano.
Dopo che uno di quei soldati mi ha chiesto di medicargli una leggera ferita, cosa che ho fatto con impegno, come sempre eseguo tutto ciò che attiene al mio mestiere, sono uscito di nuovo in cortile, dove una leggera brezza di primavera mi carezzava il volto. Mi sono seduto su una panca e lì sono rimasto per ore, a rivedere con la mente, come fossi a uno spettacolo di mimi, tutto ciò che è accaduto nei giorni passati, e specialmente nella giornata di ieri; e così pensando non ho sentito alcun'altra necessità, neppure quella di nutrirmi, perché l'angoscia che mi attanaglia il cuore si è impadronita di me ed ha messo in catene anche il mio corpo oltre che l'anima, ammesso che io ne abbia una. E mi scorre ancora nella mente l'immagine più angosciante, di quando i servi hanno messo sul rogo il corpo del Maestro: mi sono limitato a guardarli eseguire questo compito, mentre i soldati, là dentro, banchettavano e ridevano sguaiatamente. Nessun altro pensiero mi si è presentato, solo il nulla eterno che attende tutti noi, e che sento già dentro di me: quando il male vince sul bene, quando le tenebre vincono sulla luce null'altro può restare all'uomo se non il ricordo fugace di ciò che ha perduto, un ricordo che si perde come fumo nell'aria. E poi il nulla.
Adesso tutto è finito. I servi stanno sistemando gli oggetti del Maestro ed i suoi amici rimettono in ordine le sue carte, quelle che gli scribi hanno redatto ieri sotto sua dettatura. Tra un po' mi chiameranno per tornare a Roma, nel caos cittadino, dove saremo costretti a continuare una vita grama, quando ciascuno riprenderà il proprio posto e le proprie occupazioni come se nulla fosse accaduto. La malvagità umana è tanta e tale che non permette il dolore, che prenderebbe come un'accusa nei suoi confronti; ti costringe all'indifferenza, che di tutte le ipocrisie e di tutti i difetti è senza dubbio la peggiore. Così dovremo agire, dovremo comportarci peggio delle be-stie, alle quali è pur concesso piangere i loro simili; ma in questo nostro sventurato tempo ne-anche questo ci è concesso. Ma io sono qua, ancora seduto sulla panca, mentre il sole inizia a discendere e le ombre delle colline cominciano ad allungarsi. Fra poco partiremo. Ma ecco che di nuovo mi si presentano alla mente le stesse immagini, i fantasmi di un passato recente e pur già lontanissimo: da ieri è iniziata una nuova fase della mia vita, si è spenta l'unica luce che ri-schiarava la mia esistenza. Tutto scorre dinanzi ai miei occhi, come un incubo terribile.
La catastrofe del dramma è cominciata qualche tempo fa, quando il Maestro decise di recarsi in Campania per un breve soggiorno che riteneva benefico per la sua salute malferma, ma forse anche per liberarsi dell'aria pesante e contaminata che si respirava e si respira ancora a Roma. Io lo accompagnavo, come ormai faccio da tempo; è lui che mi ha voluto con sé, perché sono medico e l'ho curato, ma quanto più lui ha curato me! Quanto è stata più importante la sua a-zione su di me della mia su di lui! Io, insulso conoscitore di poche erbe e pochi rimedi, ho gio-vato talvolta, e non sempre, al benessere del suo corpo; ma lui ha giovato sempre, e con la sola sua esistenza e la sua flebile parola, alla gioia della mia anima, che è tanto più importante e preziosa di questo ammasso di ossa e di carne destinato a distruggersi nello spazio di pochi anni. Che cos'è la vita se non un breve tratto che non lascia tracce dietro di sé? L'uomo è il sogno di un'ombra, come diceva quel poeta greco di cui non ricordo il nome; ma il Maestro aveva trovato l'unica via che consente di non morire del tutto, la via della sapienza; e adesso che è morto, ancor più vive dentro di me e per sempre vivrà nella mente di quanti lo conobbero e di quanti leggeranno i suoi scritti.
Dopo alcuni giorni trascorsi in Campania, eravamo sul punto di tornare a Roma e già stavano preparando i bagagli, quando il Maestro mi chiamò e mi disse: "Stazio, cosa credi che accadrà quando torneremo a casa?"
Al che io risposi: "Riprenderemo la vita di sempre, credo. Io ti starò vicino e ti curerò quando ne avrai bisogno, sarò felice di trascurare per te gli altri miei pazienti".
"No - replicò lui -, non ne avrò bisogno, perché tra qualche giorno morirò e a voi non resterà che il mio ricordo, nel bene e nel male. Se a te a agli altri amici ho dato qualche consiglio che credete di dover seguire, seguitelo; ma ricordate che anch'io ho fatto tanti errori nella mia vita, non sono stato sempre un buon esempio."
Io pensai che il Maestro non parlasse sul serio, o forse volesse mettere alla prova la mia buona fede; così mi affrettai a rispondere, con un leggero sorriso sulle labbra, affermando che nessuno può conoscere l'esatto momento in cui cesserà la sua vita. "Tu, Maestro, mi hai insegnato che non si ha da temere la morte e che anzi tutta la vita è una preparazione ad essa, e che la vita stessa ci è stata data in prestito dalla natura. Ma non puoi pensare di essere indovino e di cono-scere esattamente l'attimo in cui dovrai restituire il tuo prestito."
Un leggero sorriso illuminò allora il suo volto invecchiato, cambiando di colpo la sua espressione naturalmente triste. Poi, guardandomi con infinita benevolenza, parlò.
"Hai detto una cosa inesatta, Stazio, perché io so di dover morire a breve, e non perché la sorte che mi ha assegnato il mio posto nella vita si sia decisa adesso a richiamarmi, ma perché così è la volontà di colui che ha nelle sue mani l'effimero potere di anticipare il destino."
"Ma chi, chi mai può volere la tua morte, e perché?"
"Chi meno dovrebbe, colui che io ho educato per tanti anni, sperando di realizzare per suo tra-mite uno Stato giusto e incrollabile. Ma ho fallito nel mio progetto e nelle mie speranze, e questo è il più grande rimpianto che porto con me nella tomba. Non ho mai nutrito l'illusione che la filosofia potesse cambiare gli uomini, attenuare la loro malvagità, o almeno renderli più sereni nella loro esistenza, in quel tempo ch'essi hanno a disposizione e che tanto malamente sprecano: ho tentato di mostrare il cammino, ma senza mai sperare che i miei simili mi avrebbero seguito. Ma un uomo solo, un uomo sì credevo di poter cambiare, di porre sulla retta via; e poiché non si trattava di un uomo comune, ma dell'imperatore, se fossi riuscito in questo intento avrei avuto un qualche successo anche nell'altro mio proposito che dicevo prima, perché se il capo dello Stato è giusto e clemente v'è la speranza che anche i sudditi, almeno in buona parte, lo diventino. Ma ora tutto è perduto, tutto è rovinato. Egli ha ucciso la propria madre: e credi tu che dopo un delitto così atroce possa provar ritegno a compierne altri? Dopo tanti altri, adesso sarò io la sua prossima vittima; la mia stessa esistenza lo infastidisce e lo tormenta, poiché costui vede ancora in me, benché non mi occupi più affatto di politica, l'antico precettore, il giudice dei suoi atti e delle sue nefandezze. Al solo pensare a me, finché esisto e cammino sulla terra, è preso da un senso di colpa, da un indicibile fastidio. Perciò, come tutti i tiranni di questa terra, che s'illudono di avere potere assoluto sulla vita altrui, egli non cerca di ravvedersi e di uscire dalla via del delitto, ma sfoga la sua rabbia impotente nel far scomparire dalla faccia del mondo e dalla sua vista chi sarà sempre per lui un araldo della sua sfrontatezza. Quanto al pretesto per uccidermi, non gli è stato difficile trovarne uno, come avrebbe potuto trovarne altri."
Io trasecolai a queste parole, e così gli dissi: "Maestro, ma quale pretesto può trovare costui per volere la tua morte, quando è a tutti noto che tu vivi in disparte, in casa tua, nella ricerca della virtù e della sapienza? Come può annoverare tra i suoi nemici un uomo come te?."
"Vedi, Stazio - egli rispose - forse tu non sei al corrente di quello che è accaduto in questi ul-timi tempi. Ti ricordi che circa un mese fa, nella mia casa di Roma, venne a trovarmi quel cava-liere romano, Antonio Natale?"
"Sì, mi ricordo; tu ti intrattenesti pochi minuti a colloquio con lui."
"Appunto. Mi chiese di Calpurnio Pisone, perché non lo frequentavo più come una volta. Io sa-pevo che Pisone aveva in mente un progetto, ma ne ero venuto a conoscenza da voci popolari, non da informazioni dirette. Dissi a Natale che non mi sembrava opportuno, né giovevole per nessuno di noi due, avere contatti troppo frequenti; e Natale mi guardò in un modo strano, come se volesse mettermi alla prova."
"Alla prova di che cosa, Maestro? Che parte potevi avere tu nei progetti di Pisone?"
"Nulla; ma qualcosa avevo sentito dire di una congiura che si stava preparando contro Nerone. Quando Natale mi parlò dei miei rapporti con Pisone, evidentemente lo faceva perché voleva coinvolgermi, avere il mio appoggio morale. In disparte, poi, mi disse sottovoce che un certo Subrio Flavio, un centurione, aveva affermato, in una di quelle sue riunioni segrete, che avrebbe voluto mettere me sul trono, una volta ucciso il tiranno, e che lo stesso Pisone era dello stesso parere. Ma io risposi che non mi interessava nulla di tutto ciò."
"Eppure sarebbe stata la salvezza dell'impero - risposi io, ingenuamente - se veramente tu fossi diventato capo dello Stato. Si sarebbero levate in alto, a salutarti e a ringraziarti, tutte le più grandi virtù umane, quelle che tu stesso hai sempre seguito: la Sapienza, la Giustizia, la Ma-gnanimità e la Temperanza."
Il Maestro sorrise ancora, e aggiunse: "No, Stazio, non crederlo. Alla mia età, con tutta la mia esperienza, ormai io cerco solo la pace della solitudine, non voglio più occuparmi di politica. Già l'ho fatto, ed ero più giovane di adesso; avevo tanto entusiasmo, un sacro furore che le cir-costanze, ancor più del tiranno, hanno smorzato, perché la politica è vizio, è corruzione, è l'esatto contrario della più pura umanità. Il mio progetto è fallito, non potrebbe esservene un altro. Questo dissi a Natale; allora lui si adombrò, e vidi nel suo sguardo l'odio, il risentimento per chi, come me, è al di fuori dei torbidi giochi di palazzo. Ricordati, Stazio, che la sapienza, che pure è un gran bene in sé, provoca invidia negli ignoranti e nei meschini, e questa invidia si muta ben presto in odio. Quell'uomo, infatti, se ne andò da casa mia con lo sguardo truce di chi trama qualcosa di male. In seguito ho saputo che la congiura è stata scoperta e lui è stato inter-rogato perché vi era coinvolto; in quell'occasione mi ha attribuito un'affermazione che io non ho mai fatto, cioè che la mia salvezza poggiava sull'incolumità di Pisone. Così mi ha coinvolto e ha provocato la mia rovina."
Di fronte a queste parole rimasi interdetto e sperai, da uomo semplice qual sono, che il Maestro si fosse ingannato e che le cose stessero diversamente, tanto assurdo e ingiusto mi sembrava co-involgere una persona come lui in un progetto di altri, del quale egli non aveva avuto sentore se non per generiche voci. Forse Nerone lo accusava di essere al corrente della congiura e di non averlo informato? Ma questa è una falsità, un'infamia che quel Natale aveva macchinato per rovinare una persona infinitamente superiore a lui, un sapiente, un maestro di vita. O forse l'imperatore si era inventato tutto e si appigliava a qualunque pretesto, ad una falsa testimo-nianza non verificata in alcun modo, per distruggere il suo antico precettore, colui che lo aveva indirizzato sulla via del bene e ch'egli aveva così ignobilmente tradito e deluso? Non saprò mai come realmente sono andate le cose; fatto sta che purtroppo il Maestro non si era ingannato su chi voleva la sua morte e su quanto questa morte pendesse ormai sul suo capo.
Due giorni fa partimmo dalla Campania per tornare a Roma. Il Maestro appariva più riposato e meno stanco di quando avevamo compiuto il viaggio di andata, ma un'ombra di malinconia gli attraversava la fronte. Mi chiesi se quel suo sguardo fosse quello di sempre, dato che da quando lo frequento più assiduamente ho sempre notato in lui quel velo di tristezza, oppure se pensasse con preoccupazione alla sorte che l'attendeva. Oh, ma se provava qualche sentimento che as-somigli al timore della morte, non lo provava certo per sé, ma per le persone a lui più care, che avrebbero ricevuto con la perdita di lui un inconsolabile dolore. Forse per questo rivolgeva so-vente lo sguardo verso la moglie, che pareva assopirsi e lasciarsi cullare dalle scosse che face-vano sobbalzare la carrozza lungo l'aspro selciato della via. Io procedevo sul mio cavallo a fianco della carrozza e talvolta guardavo dentro e incontravo gli occhi del Maestro, che a sen-tirsi osservato rispondeva con un flebile sorriso. Soltanto una volta lo udii dire alla moglie: "Abbi pazienza, Paolina, siamo quasi arrivati", certo perché lei si era lamentata della lunghezza del viaggio e del disagio che provava non riuscendo a riposare come avrebbe voluto.
Finalmente, nel primo pomeriggio, giungemmo a questa villa di campagna che sarebbe divenuta l'inconsapevole teatro di quella che è stata la più terribile tragedia che i miei occhi abbiano mai veduto. Qui ci fermammo perché così volle il Maestro, certamente per far riposare la sua Paolina, stanca per il lungo cammino. Arrivati che fummo, ci sistemammo nelle stanze, mentre il fattore ed i servi ci accoglievano con benevolenza. Io mi guardavo intorno, esaminavo la mia stanza e guardavo fuori, dalla finestra, il bellissimo paesaggio che ci circondava: al di là e al di qua della strada c'erano dolci colline verdi, alcune delle quali allietate da alberi fioriti che tra-smettevano un senso di pace e di gioia, mi parevano simboleggiare l'antica legge della natura che sempre rinasce dopo il letargo invernale. Mi tornarono a mente i bellissimi versi di Lucrezio che celebrano il rifiorire della primavera e subito dopo, come per contrasto, i racconti mitologici che tutti noi abbiamo sentito da piccoli dai nostri maestri di scuola. Tra di loro ce n'era uno, quello del rapimento di Proserpina da parte di Plutone, che pare adattarsi a meraviglia allo spettacolo della natura a primavera: mi veniva infatti da pensare, mentre osservavo quelle colline fiorite e illuminate dal sole di aprile, che il risveglio delle piante e degli animali in questa stagione potrebbe essere un segno di gioia che accompagna il ritorno di Proserpina sulla terra, dopo che per sei mesi è stata costretta a vivere nell'Averno accanto al suo sposo infernale. Forse questo simboleggia questo mito, l'eterno scorrere delle stagioni ed il continuo rinnovarsi dei cicli naturali. Ben presto però abbandonai questi pensieri, forse frutto della mia fervida fantasia.
Dopo qualche ora dal nostro arrivo scesi dalla mia stanza e incontrai il Maestro che, nel salone centrale della fattoria, stava conversando coi servi, mentre sua moglie era ancora a riposare. Diede ordine di preparare la cena e mi chiese quale fosse, in quel momento, il mio stato d'animo. Io gli dissi che avevo visto dalla finestra della mia camera il fiorire rigoglioso della primavera, e lui mi rispose con versi di un poeta di cui non ricordo il nome. Dicevano, press'a poco, così: "I giorni possono morire e ritornare; ma per noi, una volta passata questa breve luce, ci sarà da dormire una notte eterna." Trasalii a quelle parole, ricordandomi di quel che il Maestro mi aveva detto pochi giorni prima, quando eravamo ancora in Campania. Non risposi nulla, ma il mio volto si rabbuiò in modo evidente, perché lui mi si rivolse dicendo: "Stazio, non ti meravigliare di quel che ho detto: non ho certo scoperto una cosa nuova, ho solo rammentato l'arcana legge che regola l'esistenza umana. Non temere per me, perché ho vissuto abbastanza e ho compiuto la mia missione, se pure con tanti errori e tante imperfezioni. Dobbiamo o no restituire i nostri debiti?"
Io cercai di rispondere rammentandogli quanto ci eravamo detti in quel colloquio che ho riferito, ma lui mi fece segno di tacere; in quel momento, infatti, Paolina stava scendendo dal piano di sopra, con la sua solita andatura lenta ed il capo basso, che teneva coperto da un velo. Era una donna piccola, un po' curva, quasi insignificante per l'aspetto esteriore, ma che possedeva una grande anima e aveva dedicato al marito tutta la sua esistenza, benché per molti versi non fosse facile vivere accanto ad un uomo come lui. Appena fu vicino a noi si rivolse al Maestro dicendogli: "Grazie, Lucio, per avermi concesso quest'occasione di riposo; ne avevo proprio bisogno. Mi dispiace di aver provocato questa sosta forzata, dato che ormai mancavano solo quattro miglia; ma ero proprio stanca."
"Non preoccuparti, mia cara - rispose lui - di dove ci fermiamo a dormire; io ho con me tutto ciò che mi occorre, e non ho bisogno di null'altro. Tra poco andremo a cena e passeremo la notte qui, in questa bella campagna. Se vuoi, potremo fermarci anche qualche giorno, prima di tor-narcene a Roma."
Paolina fece un cenno di assenso, poi guardò il marito con affetto e si allontanò per andare a conversare con le sue ancelle. In quel momento ci raggiunse il cavaliere Gaio Lucilio, da sempre amico e confidente del Maestro, che gli aveva dedicato anche alcune sue opere. Questi non sapeva ancora nulla di ciò che si stava preparando, anche perché era da poco tornato dall'Africa, dove aveva svolto la funzione di procuratore imperiale, e solo pochi giorni prima si era unito a noi ed al nostro viaggio. A me venne spontaneo di chiedermi il motivo per il quale il Maestro avesse fatto a me e non a lui quelle confidenze in Campania; ricordai però subito che Lucilio, nonostante si dicesse epicureo, non era affatto tranquillo né luminoso in volto, ché anzi molto spesso appariva triste e malinconico; aveva sì dei momenti di euforia, durante i quali si affannava a far progetti e ad esporre davanti al Maestro dottrine filosofiche di cui pareva entu-siasta, ma poco dopo ricadeva nello sconforto e allora si isolava, preferiva farsi lunghe passeg-giate per luoghi impervi senza aver contatti con alcuno. Forse era questa la ragione per cui il Maestro non gli aveva parlato della tempesta che stava ormai per travolgerlo; e Lucilio era ben lungi dall'immaginare nulla di simile, sia perché preso da altri pensieri sia soprattutto perché il volto del Maestro non tradiva nessuna particolare emozione, e la fine della vita non rappresen-tava null'altro per lui se non una liberazione dalle schiavitù dell'esistenza, il raggiungimento di un porto sicuro dove niente e nessuno avrebbe potuto turbare la sua pace.
Giunta l'ora di cena, ci mettemmo a tavola come al solito, il Maestro, Paolina, io e Lucilio. I servi andavano e venivano a portarci le vivande, mentre noi conversavamo di ciò che era acca-duto in quella giornata, soprattutto dei disagi del viaggio. La tavola era collocata al centro della sala, mentre agli angoli della stanza brillavano le torce accese, poiché il sole era già calato e l'arrivo della notte era imminente. Ciascuno di noi era seduto al proprio posto, e nella penombra della sala i nostri volti apparivano scuri, senza che si potesse ben distinguere l'espressione di ciascuno; così io pensai - ma fu un pensiero meschino, di cui subito ebbi a pentirmi - che quella semioscurità avrebbe potuto nascondere i turbamenti e le angosce che, senza che ce ne accorgiamo, si rendono visibili sul nostro volto: perciò se il Maestro avesse ceduto all'angoscia del cuore, non ce ne saremmo accorti. Ma il suo volto non appariva diverso dai tempi in cui a-veva raggiunto il culmine della fortuna e del successo, né diverse erano le sue abitudini: man-giava poco, soprattutto verdure, e Paolina lo imitava anche in questo, limitandosi a pochi as-saggi. Fu così che mi venne spontaneo fare un'osservazione da medico, dirgli cioè che il poco cibo lo avrebbe ulteriormente debilitato. Egli sorrise a questa mia affermazione e guardò in volto Paolina, la quale pareva rispondergli idealmente, dato che a parole non disse nulla. Visto lo stato d'animo in cui mi trovavo, neanche io riuscivo a gustare i cibi e mi limitavo per lo più a bere acqua ed a guardarmi intorno, quasi per cercare una via d'uscita alla situazione in cui di lì a poco ci saremmo trovati. M'illudevo di poter essere io stesso a salvare il Maestro una volta tornati a Roma, magari ingaggiando un avvocato di successo, che riuscisse a smontare le false accuse nei suoi confronti. Ma nella mia ingenuità pensavo che per imputazioni di tale gravità fosse necessario passare attraverso un processo regolare, come tanti ce n'erano stati a Roma; non mi venne in mente, in virtù di un concetto di giustizia che certamente non vige in questi nostri tempi sciagurati, che chi ha nelle mani le redini del potere assoluto non ha bisogno di as-soggettarsi alle leggi dello Stato, perché lui è lo Stato, o almeno pensa di esserlo.
Mentre ero immerso in queste riflessioni, arriva alla nostra tavola un servo trafelato, dallo sguardo angosciato e smarrito. Si inchina davanti al Maestro e gli dice: "Padrone, la fattoria è circondata da soldati armati, che non abbiamo sentito arrivare." E non aveva neppure finito la frase che sentiamo battere alla porta con una forza tale da spaventare chi non fosse abituato a simili gesti dei militari. Il Maestro fa un cenno al servo di andare ad aprire, e poco dopo entrano nella stanza alcuni soldati del corpo dei pretoriani con un ufficiale. Costui, osservata la sala e fissando lo sguardo su noi che vi eravamo seduti, si rivolse poi al Maestro con un cipiglio duro e quasi adirato, dicendogli:
"Salute a te, Anneo Seneca. Io sono Gavio Silvano, tribuno dei pretoriani. Ho l'incarico di in-terrogarti in merito a fatti che ti riguardano."
"Chiedi pure, tribuno, - rispose tranquillamente il Maestro - sono pronto a risponderti."
Io e Lucilio ascoltavamo in silenzio, come impietriti. Mi colpì invece l'atteggiamento di Paolina, il cui dignitoso silenzio appariva più pacato del nostro, quasi ch'ella fosse sicura dell'innocenza del marito e del fatto che, a motivo di ciò, potesse trovarsi al sicuro da ogni pericolo. O forse, al contrario, sapeva o aveva intuito ancor più chiaramente di me la catastrofe che si andava preparando? Difficile dirlo. Dopo qualche attimo il tribuno riprese:
"Nerone Cesare vuol sapere se è vero che, qualche tempo fa, è venuto a trovarti Antonio Natale e ti ha parlato di Calpurnio Pisone e delle sue empie macchinazioni."
"A onor della verità - egli rispose - Natale è venuto a trovarmi, sì, ma non mi ha messo al cor-rente di nessun progetto. Mi disse soltanto che Pisone avrebbe voluto vedermi più spesso, al che io risposi che non mi sentivo abbastanza in salute per affrontare visite o colloqui troppo frequenti. La mia età è avanzata e gli acciacchi che ne conseguono cominciano a farsi sentire; avevo bisogno di riposarmi e di star tranquillo. Questo dissi a Natale, nulla di più."
"Devi però ammettere - riprese il tribuno - che questo tuo comportamento può destare sospetti in chi ha il compito di difendere la sacra persona dell'imperatore da vili complotti come questo. La tua reticenza a vedere Pisone ha tutto l'aspetto di un tentativo di defilarti da un progetto di cui tu stesso avevi fatto parte, o del quale eri comunque al corrente. Altrimenti perché cambiare i tuoi rapporti con Pisone, se non avessi saputo nulla di ciò che stava macchinando?"
"Io non avrei avuto alcun motivo per occuparmi del destino di Pisone, che riguarda soltanto lui, un cittadino di alto grado, un senatore, che è ben responsabile delle proprie azioni. E poi io non ho un'indole adatta a blandire i miei simili per conquistarmi la loro amicizia, poiché credo che la benevolenza tra gli uomini debba essere spontanea e non dipendere da vili interessi materiali. Ho uno spirito indipendente, cosa di cui ha potuto far prova Nerone stesso, il quale ha avuto la bontà di lasciarmi ritirare a vita privata quando le occupazioni della gestione dello Stato erano diventate troppo pesanti per le mie forze. Nessuno meglio di lui conosce il mio senso di libertà, una libertà che nasce dal profondo dell'animo e che tale rimarrebbe anche se fossi messo in ca-tene. L'amicizia deve essere spontanea, alimentata dalla comune ricerca del bene, non richiesta con blandizie e per interposta persona. Ciò vale per Pisone come per chiunque altro."
"So che sei un filosofo - ribatté il tribuno con un leggero sorriso tra l'ironico e il beffardo - e che sei molto abile con le parole. Riferirò quanto mi hai detto a chi di dovere."
Appena pronunciate queste parole ci fece un cenno di saluto, si voltò e uscì dall'atrio, ordinando ai soldati di seguirlo. Sul momento non provai alcun sentimento nei confronti di quell'uomo, perché pensai che, essendo egli un militare, stesse soltanto eseguendo gli ordini; ma quando poi venni a sapere che anche lui era tra i congiurati e che, non appena scoperto il complotto, aveva meschinamente ritrattato tutto (forse denunciando degli innocenti) e si era messo di nuovo al servizio del despota, non potei fare a meno di disprezzare per suo tramite la natura umana, così incline al male e così pronta a tradire ogni valore e ogni ideale in nome del mero tornaconto personale.
Dopo che il tribuno se ne fu andato tutti noi restammo muti e imbarazzati per qualche istante, giacché avevamo compreso che quella visita non era stata certo spontanea, e che la volontà del tiranno lasciava ben poco a sperare. Di noi fu Lucilio a mostrarsi meno afflitto, certamente per-ché non si rendeva ancora conto della gravità di quanto stava accadendo; la sua espressione non era di dolore, bensì di meraviglia e disappunto. Dopo aver guardato fisso negli occhi me ed il Maestro, si risolse infine a chiedere:
"Cosa voleva quell'ufficiale? Perché ti ha parlato di Pisone?"
A questa domanda il Maestro, con molta calma e tranquillità, rispose: "Stanno conducendo un'inchiesta su Pisone, perché sembra che abbia ordito un complotto per uccidere Nerone. Sa-pendo che ero un suo conoscente ha mandato il tribuno a interrogarmi, e forse sarò chiamato a testimoniare; ma ho già detto ciò che so di questa faccenda."
Lucilio non rispose nulla, ma capì certamente che quella del tribuno non era una missione atta a definirsi una pura formalità. Paolina restava in silenzio, con la fronte abbassata e lo sguardo che pareva perso nel vuoto. Io, che ero l'unico direttamente informato dal Maestro di ciò che stava per accadergli, sentivo un vuoto profondo dentro di me, una sensazione di distacco dalle cose del mondo, quasi che la vita in pericolo fosse stata la mia. Da quel momento non riuscii a metter più nulla in bocca, mentre Paolina aveva già da tempo, prima dell'arrivo del tribuno, posto fine al suo pasto frugale. Così restammo fermi alla luce delle torce, e le nostre ombre tremolanti parevano giocare sulle pareti della stanza, mentre una fredda angoscia teneva tra i suoi artigli tutto me stesso, anima e corpo.
Quella notte, come ho già detto per la seguente, non riuscii a chiudere occhio. Agitandomi e ri-voltandomi nel letto non facevo altro che pensare al male che domina questa nostra povera so-cietà, dove la mente malata di un pazzo criminale può tutto, dove la presenza dei buoni e dei saggi non è giudicata un prezioso aiuto ma un ostacolo alla propria insensatezza, dove anche i migliori si piegano ad adulare il tiranno del momento. E se nulla possono i sapienti, come può sperare di cambiare qualcosa un povero e insignificante medico come me, che soltanto riesce - e non sempre - ad alleviare le sofferenze del corpo? E in ogni caso, cosa potrebbe cambiare una congiura come quella di Pisone, se pur fosse riuscito nel suo intento? Siamo certi che la scom-parsa di Nerone farebbe tornare nel mondo la Giustizia, la dea che così tanto è oggi offesa e maltrattata da non farsi più vedere neppur da lontano? Quelli che uccisero Giulio Cesare falli-rono grossolanamente, poiché eliminarono il dittatore ma non la dittatura; e perché oggi, a di-stanza di un secolo da quell'evento, dovrebbe essere diverso? Si sa che il potere corrode l'animo di chi lo esercita, perché troppo spesso abbiamo veduto uomini buoni e giusti i quali, giunti al vertice del comando, sono diventati malvagi e iniqui. Non c'è bisogno di uccidere i tiranni, a mio parere, ma di istruirli: insegnare loro la vera umanità, far ritrovare loro l'essenza stessa del loro essere creature sensibili e pensanti: questo, e non altro, dovremmo fare, e questo appunto tentò di fare il Maestro. Altrimenti è inutile: in un sistema marcio e corrotto, scomparso un tiranno ne arriva subito un altro.
Perso dietro a questi pensieri e incapace di prender sonno, decisi di alzarmi dal letto e aprire la finestra. La luna risplendeva in alto, in tutta la sua luce magica, e oscurava le stelle che, pur splendide anch'esse, vengono cancellate da un bagliore più intenso. E guardando la placida quiete notturna mi chiesi ancora una volta se la luna, il sole, le stelle fossero o meno divinità, come tanti ancora credono; ma la mia risposta a tal quesito non può che essere negativa. I corpi celesti ed il maestoso spettacolo della natura e dei suoi misteri danno l'idea del dio, ma non so-no il dio: questo mi è sembrato di capire dai discorsi che a tal proposito faceva il Maestro, e così anch'io credo. Del resto, se fossero divinità, come potrebbero sopportare e lasciar correre l'iniquità umana, che ogni giorno ed ogni notte ricade sotto i loro occhi? Come potrebbero la-sciar trionfare il male senza scagliare sulla terra i loro mortiferi strali? No, sono corpi senza vita che si muovono intorno a noi, che ci danno luce e calore ma non hanno percezione di noi, non si occupano della nostra triste esistenza.
Così, tra l'insonnia e l'angoscia che attanagliava la mia mente, giunse l'alba. I servi comincia-vano ad alzarsi, sonnacchiosi e stanchi, e iniziavano a dedicarsi alle loro occupazioni. Nello spazio di poco tempo la villa si animò di voci e di colori. Poco dopo l'alba il Maestro scese nel salone, e lì mi trovò che conversavo con un servo. Le porte erano state aperte e dal giardino cominciava a filtrare qualche raggio di sole; guardando fisso la macchia di luce che si era for-mata sul pavimento, egli mi prese in disparte e disse:
"Buongiorno, Stazio, non vedi che bella giornata si prepara per oggi? Meglio così; sono questi i momenti più adatti per lasciare questa vita, nella certezza che la provvidenza non prova ira nei nostri confronti, ché altrimenti non ci mostrerebbe attraverso il sole il suo più bel sorriso."
"No, Maestro, non dirlo; - risposi io trattenendo a stento la commozione - la tua situazione po-trebbe anche cambiare. Non hai detto spesso tu stesso che la fortuna è mutevole?"
"Non per me e non in questo caso;" replicò, "non può crederlo nessun uomo a cui sia nota la crudeltà di Nerone. Ha ucciso suo fratello, sua madre, ha compiuto altri delitti orrendi; cosa credi che rappresenti per lui la morte del suo antico consigliere? Così si libererà di un'ombra che offuscava la sua coscienza, gli rammentava i suoi delitti."
Mi guardai attorno smarrito. Mi sembrò che in quel momento tutto fosse perduto, irrimediabil-mente; e voltandomi a lui chiesi ancora:
"Quel tribuno è venuto soltanto ieri sera. E tu credi che oggi..."
"Ne sono sicuro, Anneo Stazio. Tutto era già stato preparato, mancava soltanto un pretesto. Ora la visita del tribuno di ieri sera rivela che il pretesto è stato trovato, quindi non ci sarebbe motivo per porre tempo in mezzo da parte di chi da tanto aspettava questo momento. Tutto ciò non mi addolora, perché la mia ora sarebbe comunque vicina, vista la mia età; e neanche mi sorprende, perché ciò che l'uomo conosce e sa per certo non può mai sorprenderlo."
Non trovai la forza di rispondere a queste parole, mi limitai ad assentire in silenzio e ad osser-vare il Maestro con attenzione. Io sono un medico, dovrei seguire giorno dopo giorno i miei pa-zienti e notare in loro ogni piccolo mutamento, sia fisico che spirituale; eppure, in quel momento, dovetti accorgermi mio malgrado, e tutto d'un tratto, che l'aspetto di quell'uomo così venerabile era cambiato rapidamente senza che me ne fossi accorto: il suo viso era divenuto più rugoso e incavato, la voce più tremula, le mani e le braccia in parte scoperte facevano impressione per la loro magrezza e per la sporgenza delle vene, che parevano ruscelli in secca, quasi che non contenessero più sangue; del pari l'intero corpo pareva consumato, macilento com'era nella sua estrema magrezza, il passo tardo e incerto, le mani tremanti e scheletriche; quelle mani molto spesso tenevano un libro aperto, ch'egli tentava di leggere camminando. Ormai non scriveva quasi più personalmente, ma aveva tra i suoi servi degli abili scrivani a cui dettava ogni giorno i suoi pensieri, e conservava gelosamente queste carte assieme ad alcuni suoi libri, che portava sempre con sé in una cassa di legno chiaro. Il suo aspetto esteriore, quindi, era quello di un vecchio stanco e malandato; ma ciò che mi sorprendeva era l'estremo equilibrio interiore della sua anima, poiché la serenità che emanava da lui, e che si poneva in forte contrasto con la mia angosciosa agitazione, non era diversa dai tempi precedenti, quando viveva in tranquillità componendo le sue opere e non sospettava neppure il pericolo che di lì a qualche tempo sarebbe venuto a incombere sulla sua vita. Mentre il corpo era nettamente invecchiato, l'animo era rimasto sereno nella sua imperturbabile virtù, in quello stato di beatitudine interiore di cui molto spesso mi aveva parlato ma che io non ero mai riuscito a comprendere, forse perché io sono un uomo comune, uno dei tanti sconosciuti destinati a rimaner tali per l'eternità. Ma lui no, oh no! Di lui dovranno aver memoria i secoli futuri, e soltanto così diverrà immortale!
Durante la mattinata me ne uscii in giardino e feci una lunga passeggiata sulle colline circostanti la fattoria. Con me avevo un paniere per raccogliere le erbe medicinali, quelle che conosco e delle quali faccio largo uso per la mia arte. Ne trovai alcune di cui conoscevo l'effetto calmante e le raccolsi con entusiasmo: ne avrei fatto un infuso da bere per trovar pace, o almeno per alle-viare l'afflizione che mi ha colpito. Ne avrei preparate diverse dosi, pensavo, per tutti coloro che ne avessero avuto bisogno: per me, per Paolina, per Lucilio, per i servi... per tutti tranne che per il Maestro, l'unico che pareva non avvertire il giungere del funesto temporale di cui anche i servi parevano essersi accorti, specie dopo la cordiale visita del tribuno della sera precedente. Mentre camminavo sulle colline sentivo crescere in me un senso di calore, dato certamente dal sole che stava alzandosi nel cielo, ma forse anche dall'ansia che mi opprimeva; avevo già sperimentato altre volte infatti, sia sui miei pazienti che su me stesso, questa curiosa corrispondenza tra l'angoscia e il panico di cui può soffrire una persona e la sensazione di caldo che in quei momenti si manifesta, quasi che il corpo umano fosse direttamente unito all'anima e che ciò che tocca l'una finisca ben presto per colpire anche l'altro. Questo concetto l'avevo letto su certi libri greci di medicina, e sul momento non vi avevo prestato molta fede; ma in quella mia passeggiata ebbi la conferma che quei libri dicevano la verità.
Era quasi mezzogiorno quando rientrai alla villa. Dalle finestre del salone entrava il sole, e una grande macchia di luce si era formata sul pavimento a mosaico. In mezzo a questa luce il Mae-stro, in piedi, stava dialogando con Lucilio e con altri due uomini che erano giunti nel frattem-po, e che allora stavano seduti a terra. In uno di loro riconobbi Gallione, il fratello di poco maggiore del Maestro ma di aspetto più giovanile del suo; l'altro era invece Giunio Marullo, un amico di famiglia che molto spesso veniva a trovarci e a discutere con noi. Mi sembrò che par-lassero della visita del tribuno della sera precedente, benché col clamore che facevano i servi non riuscissi a distinguere bene le parole; nondimeno mi accorsi che Gallione, ad un certo punto della discussione, si fece scuro in volto e disse qualcosa come: "Toccherà anche a me lo stesso destino". Così mi sembrò di capire, o forse mi sono figurato io quelle parole considerando il fatto che anche il fratello del Maestro, pochi mesi dopo gli eventi che sto narrando, cadde vit-tima della medesima crudele repressione. Spesso la nostra mente tende a ricostruire i fatti passati che non conosciamo sulla base di quelli posteriori che ci sono noti; ed è questo forse un difetto di alcuni storici di cui il Maestro mi aveva parlato qualche volta. Io non appartengo alla categoria degli storici, ma posso ben aver assimilato i loro difetti, giacché noi uomini siamo molto più inclini a seguire la comoda strada del vizio piuttosto che quella ripida della virtù.
Quegli uomini parvero non accorgersi di me, ed io giudicai opportuno non disturbare la loro conversazione; decisi piuttosto di salire in camera mia, dove tenevo i ferri del mestiere. Colà giunto, mi diedi a separare dalle erbacce le erbe officinali che avevo raccolto e che poi misi a seccare per terra, sopra un tappeto riscaldato dal sole. Presi in mano un libro: era un trattato di medicina scritto in greco, dove l'autore trattava della pazzia e delle sue cause; e tra queste an-noverava il manifestarsi di un'inaspettata sciagura, che provocherebbe travasi di bile capaci di sconvolgere la mente e di determinare forti alterazioni della nostra attività psichica, che possono essere sia temporanee che permanenti. Il trattato parlava poi dei comportamenti conseguenti alla follia e li presentava come assurdi e irrazionali; ma a me tale impostazione parve inesatta, perché ciò che a noi appare assurdo altro non è che un estraniamento dalla nostra logica, un agire diverso da quella che è definita "normalità". La normalità - pensavo fra me - è un concetto ingiusto e crudele, perché implica l'allontanamento e l'emarginazione di tutti coloro che non rispondono al pensiero ed all'agire della maggioranza degli uomini. Ma se provassimo a rove-sciare la mentalità diffusa al nostro tempo forse ci accorgeremmo che ciò che a noi pare assurdo è semplicemente diverso, e come tale andrebbe compreso e rispettato, anziché condannato. Sulla base di questo fuorviante concetto di normalità i poeti, gli artisti ed i filosofi sono stati spesso derisi, a volte persino cacciati e perseguitati, ed anche il mio Maestro ha subito talvolta gli effetti dell'ignoranza popolare; ciò non toglie però che la sapienza e la Verità stiano dalla loro parte, se pur sembrano pochi e diversi dal comune sentire dei più. E ciò significa, a mio parere, che non sempre la maggioranza è dalla parte giusta, e che un solo intellettuale, un solo uomo di cultura e di scienza può valere più della totalità del volgo. Questo stavo pensando mentre leggevo il libro e mentre consumavo il pasto frugale che una serva mi aveva portato lì, in camera mia. Ripreso poi il libro dopo il pranzo, mi parve più ostico e noioso di quanto non mi fosse sembrato in precedenza; e così, trascinando a fatica la lettura, gli occhi finirono per chiudersi ed il capo per chinarsi, così che il sonno, un sonno profondo, s'impadronì di me.
Fui svegliato da forti urla che provenivano dal cortile della villa, e che ancor più direttamente giungevano in camera mia perché avevo lasciato la finestra aperta. Alzatomi lentamente dal letto e stiracchiandomi, mi affacciai al davanzale e vidi sul prato alcuni soldati a poca distanza l'uno dall'altro: evidentemente la villa era di nuovo circondata, come la sera precedente. Al tempo stesso si sentivano voci provenire dal salone, di qualcuno che era entrato da poco, e non mi ci volle molto a comprendere che il momento fatale era giunto. Scesi lentamente le scale e vidi il Maestro in piedi, davanti a un militare che non era quel Silvano del giorno prima, ma probabilmente un centurione. Accanto a lui stavano alcuni soldati armati di tutto punto, mentre quelli all'esterno erano stati collocati lì, con ogni evidenza, per impedire la fuga all'uomo che il tiranno aveva condannato a morte. Giudicai allora che codesto individuo, benché fosse stato di-versi anni accanto al Maestro, non lo conoscesse affatto, poiché ignorava ch'egli non sarebbe mai fuggito di fronte all'ineluttabilità del destino, che tante volte aveva ricordato, lodato e per-sino desiderato. In quell'attimo vidi che nel salone erano presenti molti servi, ma accanto al Maestro erano sua moglie e Lucilio, mentre Gallione e Marullo si tenevano un po' in disparte; a tutti costoro si leggevano in viso lo stupore, l'angoscia e lo sgomento, e tuttavia non osavano dire nulla ma erano impietriti, del tutto simili a statue di marmo. Restando sulle scale, da dove potevo osservare la scena dall'alto, udii il Maestro chiedere:
"Mi è concesso di mandare qualcuno dei miei amici a prendere le tavole del testamento? Vorrei lasciare loro tutto ciò che posseggo, secondo i loro meriti."
"No, - rispose il centurione - non c'è tempo. L'ordine è preciso: il tuo destino deve compiersi immediatamente, senza dilazioni. Non voglio rischiare di ricevere sulla mia pelle le conseguenze del tuo ritardo."
A queste parole il Maestro, molto provato fisicamente ma con voce calma e sicura, si rivolse a tutti coloro che erano lì presenti, senza neanche distinguere tra servi e uomini liberi, e disse:
"Amici, vedete che mi viene impedito di mostrare a ciascuno di voi la mia gratitudine per ciò che avete fatto per me e soprattutto per i sentimenti di stima e di amicizia che avete provato nei miei confronti. Lascio perciò a tutti voi l'unica cosa che possiedo e la più bella, l'esempio della mia vita. Ho sempre cercato la virtù, ho cercato di indicare agli altri, a tutti coloro che legge-ranno le mie opere, ma soprattutto a voi che mi avete conosciuto, la via della sapienza. So che non ci sono riuscito, perché era un'impresa ben superiore alle mie forze; ma a me basta sapere che alcuni di voi hanno ricevuto il mio messaggio e si sono messi sul cammino del bene. Non vi crucciate se non siete arrivati alla virtù: l'importante è l'aver tentato. Meritate ammirazione per questo, così come noi ammiriamo chiunque tenta di scalare altissime montagne, anche se non giungerà mai sulla vetta. Se porterete nel vostro cuore il mio ricordo, forse vi sarà più facile compiere un altro piccolo passo in direzione della virtù: questo sarà il compenso che riceverete per aver creduto nella mia amicizia."
Poiché questo discorso fu tale da non lasciare più alcun dubbio su quello che ne era il significa-to, le statue di pietra cessarono di essere tali. Paolina, abbracciando il marito con grande affetto, cominciò a piangere sommessamente, ed alla vista di lei il contagio della grande tristezza si sparse su tutti noi: gli amici ed i servi scoppiarono in lacrime, mentre una tetra atmosfera di morte si diffondeva nella sala; e anche a me, che mi trovavo ancora sulle scale, le lacrime sgor-gavano spontanee benché cercassi di non farmi vedere dagli altri, mentre i soldati ed il centu-rione, impassibili, si tenevano a debita distanza. L'unica persona non contagiata dalla tempesta di dolore era proprio colui che doveva quel giorno compiere il suo destino: anzi, sul suo volto comparve un leggero sorriso, che recava un raggio di luce in quel buio totale che oscurava i no-stri cuori e le nostre menti. Fu allora che la sua voce si levò, tremante ma pur sostenuta da un'intima energia, in quel silenzio interrotto soltanto dai gemiti e dai singhiozzi:
" Amici, cosa fate? Perché rinnegate ciò che tante volte abbiamo convenuto nelle nostre con-versazioni? Non si era d'accordo sul fatto che la nostra vita ci è data in prestito dalla sorte, che in qualunque momento può richiedercene la restituzione? Dove sono quei precetti di saggezza di cui mi avete dato prova tante volte e nei quali avevate mostrato di credere? Colui che cerca la sapienza sa bene che non deve lasciarsi vincere dalle passioni e dai sentimenti, tanto più quando si compie un destino che ogni uomo, fin dalla sua nascita, conosce bene e non può mutare. La ragione, quella straordinaria facoltà che ci guida alla virtù, deve renderci immuni di fronte alle avversità. E poi, credete voi che questo momento giunga per me inatteso? Già da tempo il mio destino era segnato, io lo sapevo bene; e sapevo anche che per colui che non ha avuto la pazienza di attendere la legge naturale della mortalità non v'era alcun ostacolo alla mia morte se non quello di trovare un pretesto, che adesso ha trovato. Alla ferocia di colui che ha ucciso suo fratello e sua madre non restava altro, per compiere la sua opera scellerata, che aggiungere a ciò l'assassinio del suo precettore. Ma state tranquilli e rassegnatevi, pensando che se pur colui che vuole la mia morte non fosse riuscito nel suo intento, ben presto ci avrebbe pensato il naturale procedere delle vicende umane a togliere di mezzo un vecchio debole e malandato, che ha ormai concluso la sua missione in questo mondo."
Così detto abbracciò la moglie che stava vicino a lui guardandola con infinita tenerezza, come la persona che più aveva amato al mondo. Lei gli sussurrò qualcosa all'orecchio che io non riuscii a sentire; ma in conseguenza di ciò vidi mutare il volto del Maestro, che si fece ad un tratto cupo e triste, abbandonando la serenità di prima, quella serenità che ci faceva vergognare della nostra debolezza umana. Poi, senza mai distogliere lo sguardo da lei e quasi senza più accorgersi di tutti noi che gli stavamo attorno, le si rivolse con voce tremula dall'emozione e le disse: "Paolina cara, non lasciarti abbattere dal dolore! Prosegui la tua vita, e sarai così la prova vivente dell'amore che hai provato per me e che è stato pienamente ricambiato. Nel ricordo di me, delle tante vicende passate insieme, tu troverai conforto, troverai la forza di resistere al rimpianto di chi non hai più fisicamente accanto, ma che nella tua virtù, nella tua dignitosa capacità di affrontare le sventure sarà sempre con te, ti guiderà nelle tue scelte."
Ma Paolina, mentre il marito le parlava e anche noi udivamo ciò che diceva, continuava a scuo-tere la testa, debolmente ma con fermezza. Poi, con voce flebile e appena percettibile disse:
"No, Lucio, non chiedermi questo. La mia vita non ha più alcun senso se tu lasci la tua. Ho de-ciso di venire con te, di seguirti nell'altra vita come ti ho seguito in questa. Così ho promesso a me stessa quando ho compreso ciò che stava accadendo, e voglio che così sia."
A queste parole tutti comprendemmo che la decisione di Paolina era irrevocabile e ch'ella sa-rebbe quindi morta assieme al marito, nello stesso istante, a raffigurare così l'unione inscindibile che con il loro matrimonio si era creata e che sarebbe proseguita anche dopo il termine dell'esistenza terrena. Il Maestro la guardò intensamente, mentre l'angoscia dei presenti rad-doppiava all'annuncio di questa seconda morte; poi le rinnovò l'abbraccio, ancor più stretto del precedente, e le disse:
"Io ti ho mostrato come alleviare le pene della vita, ma tu hai preferito l'onore della morte. Se così hai deciso, io non posso né voglio distoglierti dal fornire a tutti coloro che ci conoscono questo supremo e fulgido esempio della tua virtù. Tu ricordi che, quando abbiamo parlato di questo argomento, io ti ho manifestato apertamente il mio pensiero in proposito, che cioè il sa-piente, l'uomo virtuoso (ma la virtù può albergare anche nelle donne, come tu stai dimostrando) può anche scegliere spontaneamente di affrettare il suo destino supremo, quando ritiene che questa vita sia per lui divenuta insostenibile. Tu mi hai dato ragione quando ti ho detto questo, e adesso che siamo giunti alla prova suprema stai rivelando coraggio e coerenza con quanto un giorno avevi da me appreso. Abbiamo tante volte predicato il coraggio e l'impassibilità del saggio di fronte alla morte: ora è il momento di applicare nei fatti ciò che allora era soltanto nelle nostre parole. C'è però una differenza fra la mia morte e la tua: entrambe saranno intrepide, ma nella tua ci sarà più gloria, perché nessuno te la impone, ma sei tu stessa che vuoi uscire da un mondo e da una società che non meritano la presenza di persone di una tale nobiltà."
Al sentire queste parole il centurione si turbò in volto e, chiamato un ufficiale di rango inferiore, gli sussurrò qualcosa all'orecchio; costui allora, fatto un cenno di saluto, se ne andò imme-diatamente dalla stanza e attraversò di corsa l'atrio per poi uscire all'aperto e salire in fretta sul cavallo. Ce ne accorgemmo perché udimmo il cavallo allontanarsi al galoppo lungo la strada.
Nel frattempo il Maestro, sempre sotto lo sguardo vigile dei soldati che lo invitavano ad affret-tarsi, ordinò ad un servo di portare un pugnale affilato e ogni altro oggetto che servisse al suo sacrificio; poi, sedutosi sul divano in fondo alla sala, con la moglie accanto, attese il ritorno del servo. Con le lacrime agli occhi io mi avvicinai e gli dissi sottovoce di procurarsi un taglio rapido e profondo, ché in tal modo la sofferenza sarebbe stata minore; egli rispose che così avrebbe fatto, e mi guardò con quegli occhi penetranti che ancora adesso mi rivedo davanti e che non riesco a togliere dalla mente. Dopo pochi istanti il servo fu di nuovo lì con l'occorrente: il pugnale, due secchi per raccogliere il sangue, alcuni cuscini per sostenere i corpi dei due coniugi durante gli ultimi istanti della loro vita. Il Maestro prese il pugnale e così, senza pronunciare neanche una parola né emettere un gemito, ebbe recise d'un sol colpo le vene del braccio; poi, voltandosi verso la moglie, ebbe ancora la forza di consegnarle quel pugnale già intriso del suo sangue e Paolina, non appena lo ricevette, ripeté il gesto compiuto dal marito e lasciò andare, subito dopo, lo strumento di morte, che cadde a terra e stillò sul pavimento alcune gocce di quel sangue nobile e puro. I servi, piangendo e lamentando la loro sventura, si avvicinarono ai padroni per sostenerli, appoggiando loro i cuscini dietro la schiena e tenendo nelle loro mani i due secchi al di sotto della loro ferita, ben visibile sotto le vene squarciate del braccio teso e immobile. Lucilio e Gallione, prostrati dal dolore, si erano seduti e osservavano quanto accade-va, senza la forza di emettere voce né di fare alcun gesto.
Io mi trovavo vicino a loro e osservavo la scena dal mio punto di vista, quello di un medico, tanto che per qualche tempo lo zelo professionale prevalse sull'angoscia che mi attanagliava il cuore. Guardando fisso le ferite, mi resi conto che il sangue defluiva piuttosto lentamente, so-prattutto dal braccio del Maestro, e immediatamente ne compresi il motivo: il suo corpo, anziano e debilitato dallo scarso nutrimento, offriva un'uscita lenta al liquido vitale, e ciò - io subito pensai - avrebbe protratto a lungo le sue sofferenze. Anch'egli se ne accorse, e rivoltosi ad un servo gli ordinò di recidergli anche le vene delle caviglie e delle ginocchia, per affrettare il so-praggiungere della morte; ma dopo che il servitore ebbe eseguito l'ordine, continuammo a con-statare che il sangue usciva ancora lentamente e che il dolore si andava impadronendo di lui. Egli accennava ancora a qualche timido sorriso, ma non riusciva a nascondere la crudele soffe-renza che l'attanagliava; e allora, per non amareggiare ancor più Paolina con lo spettacolo dei suoi tormenti, e per non cedere a sua volta di fronte a quelli di lei, la pregò di passare in un'altra stanza. Lei si mosse barcollando, sostenuta da due serve per le braccia e da un'altra che continuava a tenerle il secchio sotto la ferita del braccio; ciò nonostante, a causa del movimento scomposto suo e delle donne che la reggevano, qualche goccia del suo sangue cadde a terra, mentre i soldati continuavano a sorvegliare impassibili la terribile scena.
Rimasto solo sul divano del salone, il Maestro fece chiamare i suoi scrivani, a cui tante volte aveva dettato i suoi pensieri, che poi aveva riordinato per le pubbliche letture o per le botteghe dei librai. Giunti che furono, fece allontanare tutti gli altri e dettò loro, anche in quegli estremi momenti, diverse pagine, ch'essi scrissero seduti su sgabelli e appoggiando i fogli su piccoli ta-voli costruiti proprio per questo scopo. Lucilio era al suo fianco e ripeteva a voce alta, per gli scrivani, quel che il Maestro mormorava a voce bassa, mentre le forze lo stavano progressiva-mente abbandonando. So che quelle pagine contenevano pensieri sull'ineluttabilità del destino e sulla necessità di ritenere la morte un bene, perché ci libera da ogni sofferenza e ci avvicina all'anima del mondo, al Logos com'egli spesso lo chiamava usando un termine greco; ma non udii direttamente le parole che poi furono trascritte e pubblicate, poiché ebbi l'impulso di entrare nella stanza di Paolina, pensando istintivamente ch'ella potesse avere più bisogno di me e della mia opera di medico, se per caso vi fosse ancora la possibilità di salvarla. Quando entrai nella sua stanza vidi che il sangue, sia pur lentamente, usciva ancora dalla ferita; ma lei era distesa su un divano, con gli occhi chiusi e priva di conoscenza, tanto che chiunque l'avrebbe creduta già morta. Ma non era così. Me ne resi conto allorché alcuni soldati, fatta irruzione nella stanza, comunicarono ai servi l'ordine perentorio di rilegare immediatamente il braccio di Paolina e di fermare l'uscita del sangue, poiché Nerone Cesare (così essi dissero) non aveva nessun rancore contro quella donna e non c'era dunque alcun motivo per imporre la sua morte. Al comando i servi si precipitarono immediatamente, con bende e legacci, e io stesso, cui tutti gli altri avevano rispettosamente ceduto il passo, tamponai la ferita e strinsi forte le bende per evitare ogni complicazione. Paolina, pallidissima in volto, era ancora priva di conoscenza, o almeno così sembrava, ed il suo braccio era completamente abbandonato; perciò, dopo aver chiuso la ferita, ordinai che fosse stesa sul divano con la testa sollevata, di modo che il sangue cominciasse a defluire nuovamente nelle sue vene. Dissi anche ai servi che, appena si fosse ripresa, era assolutamente necessario darle del cibo, possibilmente carne ridotta in piccoli pezzi, e cercare di farle bere anche un po' di vino, benché una tale usanza fosse poco adatta alle donne e addirittura punita con la morte al tempo della fondazione dell'Urbe. Ma in quel frangente l'unico mio pensiero era quello di salvare una vita, un compito che pertiene indistintamente a tutti coloro che praticano la mia arte.
Ero ancora occupato a osservare Paolina, se mai avessi potuto vedere in lei un qualche segno di ripresa dello spirito vitale, quando venne Gallione a chiamarmi, dicendomi di accorrere quanto prima possibile presso il Maestro. Vi giunsi in pochi istanti, mentre tutti si scostavano per la-sciarmi passare, segno evidente ch'egli voleva vedermi al più presto. Giunto che fui presso di lui, mi accorsi che era ancora in preda a dolori lancinanti, tanto che non riusciva neppure ad ar-ticolare bene le parole. Nondimeno, sollevando la testa e sforzandosi, mormorò:
"Stazio, amico mio, vedi com'è difficile morire? Nulla è in nostro potere, neppure la facoltà di allontanarci senza soffrire da questa luce ormai per me divenuta odiosa. Ti chiedo perciò un fa-vore, e di farmelo al più presto: dammi una pozione di cicuta, quel veleno che gli Ateniesi usa-rono per Socrate e per gli altri cittadini condannati a morte. Lo troverai nella mia camera, nell'armadio, dove l'ho sistemato quando siamo arrivati qua. Ti prego, fai presto!"
"Certo, Maestro, vado subito", risposi io, "ma occorrerà un po' di tempo per prepararlo."
"È già pronto, Stazio; ho pestato io stesso la cicuta e l'ho mescolata con l'acqua. Si trova in un piccolo mortaio nell'armadio; non puoi sbagliare. Vai!"
Così non mi rimase altro che eseguire l'ordine, mentre Lucilio, Gallione e Marullo stavano at-torno al Maestro disteso sul divano, dove un servo reggeva ancora il secchio dove stillava po-chissimo sangue di colore scuro, e gli facevano domande su quelle che erano le sue ultime vo-lontà. Egli rispondeva a fatica, me ne accorsi, ma non potei udire ciò che diceva perché fui co-stretto a salire in fretta le scale e recarmi nella sua camera, dove non mi fu difficile trovare il mortaio con il veleno. Presa una coppa di bronzo, ci versai una parte del contenuto del mortaio, aggiungendovi ancora un po' d'acqua e diluendo così il veleno. Perché lo feci, mi chiedo ades-so, se non nell'assurda quanto umana speranza che quella pozione non facesse effetto e fosse quindi possibile, chiudendo le ferite, riportare il Maestro alla vita? Sapevo che l'ordine iniquo del tiranno non poteva essere revocato, ma così siamo fatti noi uomini: quando tutto è perduto, ci illudiamo che non lo sia e lottiamo contro l'ineluttabile; siamo pronti ad abbatterci per i piccoli problemi quotidiani e troviamo invece la forza di reagire, pur senza esito alcuno, davanti a ciò che non ha rimedio. Così ragionavo mentre aggiungevo acqua al veleno, prima di scendere nuovamente le scale con la coppa in mano e accostarmi al Maestro, mentre Gallione stava chi-nato sopra di lui, quasi a raccoglierne l'ultimo respiro. Fu allora che udii distintamente alcune parole che Seneca stava emettendo dalle sue fauci ormai secche e tremolanti: ricordava al fra-tello ciò che aveva scritto nel suo testamento, che aveva redatto quando era ancora in possesso delle sue piene facoltà ma che, in quel supremo frangente, il centurione gli aveva impedito di recuperare. Sentii che parlava degli onori funebri da tributare alla sua persona, che escludevano ogni cerimonia solenne, ogni ricordo della sua vita ed ogni discorso commemorativo; voleva invece essere semplicemente cremato, mentre le ceneri avrebbero dovuto essere disperse nel vento. Questo era il suo ultimo desiderio, che gli amici ed i congiunti eseguirono prontamente, senza venir meno alla volontà di un uomo che mai nulla aveva chiesto per sé se non l'affetto e la stima altrui, ch'egli d'altro canto era capace di donare quanto nessun altro.
Passato un po' di tempo, mi accorsi che il veleno non faceva alcun effetto sul corpo martoriato del mio Maestro, le cui sofferenze divenivano ad ogni istante più atroci. Respirando e parlando a stento, egli chiese di poter fare un bagno lustrale, del tipo di quelli che ad Atene usavano far fare ai condannati a morte; si credeva infatti che con l'acqua scorresse via dall'anima, oltre che dal corpo, ogni impurità, in modo da potersi presentare all'Ade in maniera ben degna, vista la necessità di trattenersi a lungo in quel luogo. I servi lo presero tra le braccia e lo trasportarono in una stanzetta vicina, dov'era stata preparata una vasca piena d'acqua tiepida; lì lo deposero, o meglio ve lo lasciarono cadere, perché gli spruzzi d'acqua mista a sangue da lui sollevati col-pirono alcuni di essi e bagnarono loro la veste. Qui parve riprendere un po' di vitalità, tanto da riuscire di nuovo ad articolare la voce e articolare parole che sul momento mi parvero strane: espresse infatti la volontà, ben curiosa in quel momento supremo, di utilizzare l'acqua della va-sca per fare una libagione a Giove Liberatore. Io udii ciò che disse perché avevo seguito i servi che lo trasportavano e mi trovavo molto vicino a lui; ma sul momento quelle parole mi rimasero oscure, e fui convinto che ormai il Maestro avesse perduto le sue facoltà mentali, sopraffatto com'era dalla sofferenza fisica. Qualche istante dopo però compresi: la vita era divenuta un carcere per lui, tanto che la morte gli appariva adesso come una liberazione ed era perciò ne-cessario ringraziare il dio che sovrintende a questo tipo di libertà. Mi ricordai anche che in un suo scritto, dedicato ad una donna di nome Marcia e composto molti anni addietro, aveva so-stenuto proprio questo, cioè che la fine della vita costituisce anche la fine di ogni dolore ed ogni turbamento, l'ottenimento della piena e totale libertà, una condizione nella quale nessun ordine superbo può piegare la tua dignità, nessun padrone crudele può avvincerti in catene, nessun vi-zio può trascinarti nella più vergognosa servitù.
L'acqua della vasca si era ormai raffreddata ed il Maestro, non più in grado di muoversi auto-nomamente e di parlare, fu invaso da un tremito convulso, che io credetti dovuto ad una forma di assideramento; ordinai perciò ai servi di portarlo in un bagno a vapore, che avevo fatto alle-stire in un'altra stanza. Trasportato a braccia e non più cosciente, col respiro affannoso che era ormai divenuto un rantolo indistinto, egli entrò nella stanza, dove il vapore rendeva poco visibile la sagoma stessa degli oggetti che vi si trovavano. Lì, ancor più indebolito dal brusco variare della temperatura e soffocato dalle esalazioni, egli terminò la sua esistenza, in presenza mia, di Gallione e di quattro servi. Lo vedemmo irrigidirsi e rantolare sempre più sommessamente e di rado, finché il silenzio fu totale; e allora uscii dalla stanza, come a significare che, in quel mo-mento, la mia presenza di medico non era più necessaria, mentre il fratello restava a vegliarlo. È strano a raccontarsi, ma il mio primo sentimento, dopo la sua morte, fu quasi di gioia: mi ricordai le parole che aveva scritto a Marcia ed a Lucilio, ricordai anche quello che aveva detto quando avevo ascoltato le sue discussioni di filosofia, e pensai ch'egli aveva finalmente realizzato ciò che per tutta la vita aveva preparato, fornendo a tutti gli uomini un fulgido esempio di dignità umana. Ma fu solo un attimo; subito dopo l'angoscia mi prese a tal punto da non essere più in grado di muovermi, come se fossi ad un tratto divenuto un pupazzo incapace di muoversi sulle sue gambe. Tornai per un po' in camera mia, ma non riuscii a fare né leggere nulla; mi sorpresi invece a pensare alla mia pochezza di uomo comune, che mai riuscirà a divenire famoso e a distinguersi dalla massa, come invece ha fatto e farà ancor più il Maestro, che resterà vivo per tutti i secoli futuri. Io sono un mediocre, ne sono convinto; e se pur non lo fossi, questa prova me ne convincerebbe subito: mi lascio prendere facilmente dalle passioni, com'è il dolore che adesso mi attanaglia, non riesco neppure ad avvicinarmi di un cubito a quella serenità che soltanto i sapienti sanno ottenere. Non mi rimane altro che confessare di essere un uomo comune, uno di quelli che vivono e muoiono nella più totale oscurità.
Passata qualche ora, nel pomeriggio, i servi allestirono nel cortile della villa la pira per la cre-mazione del corpo del Maestro: una cerimonia che avvenne in fretta, senza alcun particolare rito funerario, quasi che fosse una faccenda semplice e quotidiana. I soldati continuavano a sor-vegliare mentre il centurione impartiva gli ordini; al pianto dei servi essi rivelavano la più completa indifferenza, ed a tal riguardo io pensai che ciò fosse normale per gente abituata a ve-dere la morte tutti i giorni. Ma per me tutto ciò era assurdo e inconcepibile, mi pareva di vivere in un brutto sogno mandatomi dagli dèi per punirmi di qualche mia mancanza, e speravo persino di svegliarmi e di trovare una diversa realtà. Poi, ritornato alla comprensione della verità, decisi di rientrare in casa per prestare la mia opera di medico a chi ne aveva ancora bisogno. Salendo in fretta le scale, mi recai nella stanza di Paolina, che giaceva sul letto sorvegliata da alcune serve; quelle donne erano da sempre affezionate alla loro padrona e mostravano sentimenti di affetto e di tenerezza di cui noi uomini siamo raramente capaci. Una di loro, quando mi vide arrivare, si voltò verso di me, dicendo: "Stazio, vieni a vedere! Proprio ora, in questo momento, la padrona si è svegliata!", e mostrava un viso allegro di giovane donna, che sembrava far da cornice gioiosa ad un quadro tetro e terrificante. Osservando Paolina, mi accorsi che aveva aperto gli occhi e mi guardava. Sul volto pallidissimo apparve un'espressione di sgomento e di terrore, che però rivelava anche una riconquistata vitalità. Poi sollevò le braccia ancora fasciate all'altezza dei polsi, dove era ben visibile il sangue che aveva bagnato le bende ma che pur si era fermato e non usciva più. Guardandomi con occhi supplichevoli mi chiese:
"Stazio, sei qui? Come stai? E Lucio dov'è?"
"Paolina, stai tranquilla, non devi agitarti. Sei ferita, il sangue potrebbe uscire di nuovo."
Lei si guardò i polsi ma non disse nulla a proposito. Chiese invece di nuovo: "Dov'è Lucio?"
Io non risposi alla domanda, le raccomandai invece ancora di stare tranquilla e non muoversi, ché avrebbero pensato a tutto le serve. Lei capì e si chiuse in un ostinato silenzio, esprimendo però la volontà di restare in quella stanza, con una sola serva, la più fidata. Io le raccomandai di non fare alcuno sforzo e dissi alla serva di farle mangiare qualcosa, pur non facendola alzare dal letto. Mi preoccupavo soltanto di una cosa: se il centurione ci avesse dato l'ordine di tornare a Roma, come avremmo potuto trasportare Paolina in quello stato? Perciò mi risolsi a chiedergli di rimandare di almeno un giorno la partenza, temendo comunque di non essere ascoltato da quel rude soldato, non certo avvezzo alla pietà e alla compassione. Invece mi sbagliavo: quando gli chiesi di partire l'indomani, egli lo concesse senza difficoltà, anche perché - così disse - a quell'ora era troppo tardi per mettersi in cammino. Aggiunse che avrebbe pernottato nel cortile con i soldati, onde evitare che qualcuno di loro, in piena notte, tentasse di far violenza alle serve o di rubare qualcosa in casa. Di ciò mi stupii e dissi a me stesso che gli uomini son ben difficili a conoscere di primo acchito, se è vero che spesso, come diceva il Maestro, si può persino cominciare ad amare chi prima si è odiato, e nulla v'è di strano in ciò.
Così ci preparammo per la notte. Paolina rimase ferma a letto, sorvegliata e assistita dalla sua ancella prediletta, alla quale io avevo prescritto di chiamarmi subito se avesse notato nella pa-drona un qualsiasi cambiamento, o se l'afflizione per la perdita del marito l'avesse indotta a qualche gesto disperato. Ma la notte passò tranquilla, senza che nulla di particolare accadesse. Io, nella mia camera, gustavo il fresco dell'aria notturna e osservavo la luce della luna che pe-netrava e si rifletteva sul pavimento; da fuori, soltanto l'urlo della civetta si sentiva ogni tanto, al quale si aggiungeva il russare dei soldati dentro le tende e, in lontananza, un ininterrotto ab-baiare di cani. A tutto facevo caso, tutto mi ricordava che ero vivo, il che non sapevo se giudi-care un bene o un male; e intanto le ore della notte passavano senza che l'angoscia per quanto accaduto mi lasciasse mai. Ma ciò che più mi rodeva il cuore non era tanto la fine del Maestro, da lui auspicata e persino desiderata, quanto l'orribile realtà della crudeltà umana, la profonda iniquità della nostra società, ove ad un solo uomo è permesso di disporre della vita di tutti gli altri. Forse in futuro non sarà più così, perché l'umanità prima o poi comprenderà che la giustizia è la virtù più preziosa che l'uomo possa avere, e su di essa fonderà la politica. Forse sarà così, ma nessuno è in grado di dirlo con certezza. Il mio Maestro aveva indicato la via del bene, e proprio per questo è rimasto vittima del male; forse però la sua morte sarà utile alle generazioni future, le quali dovranno pur imparare ad esercitare le giustizia, a vincere l'odio e la violenza che avvelenano questa nostra società.
Questa mattina, come ho detto all'inizio, sono uscito al sorgere del sole. Adesso è pomeriggio inoltrato, e mi sto accorgendo che i servi hanno ultimato la preparazione dei bagagli, sistemando accuratamente i libri e le carte del Maestro, pieni di qui precetti di saggezza che molti legge-ranno sia adesso che in futuro. Sono seduto sulla panca e vedo che tutto è pronto per la parten-za: i soldati stanno uscendo dalla villa e si accingono alla marcia, mentre i cavalli vengono ag-giogati ai carri. Mi ricordo che debbo recarmi in camera mia a prendere le mie cose; perciò salgo nuovamente le scale, e al ritorno col mio bagaglio vedo Paolina che sta scendendo a sua volta le scale, sorretta da due serve. Appena scesa, ella percorre a passo lento il cortile e sale su di un carro coperto, sempre assistita dalle ancelle. Le faccio un cenno di saluto, e lei mi risponde con uno stanco sorriso: è pallida, le membra magrissime si muovono con difficoltà e riluttanza, quasi che la vita fosse divenuta ostile anche al suo corpo, oltre che alla sua anima. Anche Gallione, Lucilio ed i servi sono tutti usciti dalla villa; hanno lo sguardo triste e non parlano, fosche nubi si sono addensate su quelle fronti in cui forse non tornerà mai il sereno. Io stesso salgo a cavallo, la villa viene chiusa e tutta la carovana, all'ordine del centurione, si mette in viaggio. Stiamo tornando a Roma, alla casa del Maestro ormai priva di lui, dove Paolina vivrà ancora, forse per poco tempo, nel ricordo del marito, e dove la luce della gioia non entrerà più. Che ne sarà della villa? Forse sarà venduta, non certo per necessità economiche visto il cospicuo patrimonio che rimarrà alla vedova, ma per cancellare il ricordo di quanto vi è accaduto. Con questo pensiero percorro lentamente la via lastricata, dove l'erba ricresce negli interstizi tra le pietre. È primavera: il canto degli uccelli, i cespugli fioriti, le foglie nuove sugli alberi mi rammentano l'eterno ciclo della natura che muore e rinasce continuamente mentre l'uomo, una volta compiuta questa breve luce, sarà per sempre coperto dalla notte eterna. Un brivido freddo mi corre lungo la schiena mentre accarezzo la criniera del mio cavallo, animale beato perché in-consapevole del suo destino.
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