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Il Gelsomino
Una corsa là, su campi verde vermiglio e oro ed il sole dritto in faccia. Una guerra di odori si infrangevano sulla punta del mio naso e lì, dolcemente, entravano nelle mie narici.
Il profumo acre degli agrumi, le margherite, i fiori di camomilla e poi lui, il gelsomino e chiusi gli occhi.
Volevo vedere quegli odori, sentirli scorrere sulla mia pelle bagnata di acqua di mare e di sudore.
Avevamo corso per metri, forse chilometri prima di arrivare.
Eravamo stanchi, stanchi di gioia, stanchi d'amore.
Guardai quel paradiso di sole ancora una volta e ancora chiusi gli occhi. Volevo essere distrutta, dilaniata da quel caldo sole di fine Luglio.
Volevo quell'aria profumata, ventosa, che porta i semi dei fiori in giro, volevo i petali dei gelsomini sparsi sul viso, volevo ancora i piedi sulla sabbia dorata, calda.
Ad occhi chiusi riuscivo sempre a sentire il cuore farmi pulsare le vene, le tempie, il petto. E mi ricordai che da bambina amavo giocare così.
Mi sdraiavo e stavo ore ad ascoltare i battiti del mio cuore.
Anche lì ero sdraiata, ma questa volta non sul pavimento freddo di casa.
Ero sdraiata sull'erba pungente e calda del prato che chiamavamo semplicemente "nostro".
Al prato nostro trovavamo sempre il sole ed i gelsomini ad accoglierci. A casa invece non volevo più tornare. Mia madre tentava in tutti i modi di impedirmi di vederlo, di vedere lui. Per me era davvero impossibile, ma lei non lo capiva.
Avevo bisogno dell'aria fresca e dell'odore di paglia che portava sempre con sé.
Sentivo quegli odori vicini, anche quando stavo lì a guardarlo dalla finestra di casa mia, mentre tagliava la legna e sudava.
Al prato nostro non c'era chi ci vietasse di guardarci o di sfiorarci le dita. Lì eravamo soltanto lui ed io, nessun altro mai.
E ad occhi chiusi ricordo quando da bambina spiavo dal buco della serratura per vedere chi fosse quel ragazzino che entrava in casa tre volte la settimana, doveva dare una mano allo zio, mi dissero.
Ed ero curiosa - chissà che dovrà fare mai - mi chiedevo.
E rimasi da allora di anno in anno a guardarlo tagliare legna, strappare erbacce del giardino, asciugarsi la fronte con le mani polverose e nere, alzarsi i boccoli neri dal collo per sentire meno il caldo e chiudere gli occhi per sentire il profumo dei gelsomini ed io... io lo guardavo.
E quando lui capiva di essere guardato sorrideva con quei suoi denti bianchi, d'un sorriso largo e buono e prendeva fiorellini dell'albero di limone o più spesso un rametto carico di gelsomini e, dopo aver guardato se ci fosse qualcuno in cucina o nella legnaia, da dove potevano vederlo, saliva su da me. E lì mi baciava la guancia e mi portava quel suo fazzoletto carico di fiorellini o in cui aveva messo il rametto del gelsomino. Ed in quei momenti mi detestavo, perché arrossivo e lui rideva e fuggiva di nuovo giù, a lavorare, senza guardare di nuovo indietro. Lo so perché tornavo alla finestra a guardarlo.
Mentre pensosa stavo con gli occhi chiusi ed il mio sorriso lì, stampato sul viso, notai che qualcosa o qualcuno mi faceva ombra e sentii come un'aria calda, leggera passarmi sul viso e poi sul collo.
Spalancai gli occhi di scatto ed era lì, proprio lui, il ragazzo che aiutava da sempre mio zio in legnaia.
Guardandomi sospirò e sorrise, tirò indietro i lunghi riccioli neri e mi abbracciò. Mi abbracciò teneramente, ma finì sdraiato tutto su di me, bagnato d'acqua di mare com'era e mi imbarazzai. Odorava di dolce salsedine adesso. Mi divincolai e lui scoppiò a ridere.
"Perdonatemi se vi ho imbarazzato signorina!" disse in tono sarcastico. "Non fare il cretino Sasà, che bisogno c'è di darmi del voi..." mi pentii subito di essere stato tanto burbera proprio con lui - E se non mi guardasse più?... perché sono stata così scontrosa? -mi chiesi. E proprio in quell'attimo mi cinse al volo i fianchi e poggiò delicatamente le labbra sulle mie, che presero a tremare.
Un bacio?... e perché?... forse mi sbagliavo. Era questo forse un bacio vero? Forse no. Avevo solo tredici anni e nella mia infanzia trascorsa in fattoria non potevo certo trovare esperienze simili.
Senza nemmeno accorgermene ci trovammo abbracciati, stretti come una treccia di capelli. Le mie labbra non indietreggiarono, come la mia timidezza acerba avrebbe permesso, ma come fossero state vincolate da un incantesimo, si unirono alle sue.
All'improvviso lasciò le mie labbra e sorrise.
Sorrise d'un sorriso pieno e sincero che non avevo mai visto. Il suo viso lentigginoso s'illuminò come mai prima d'allora. I suoi occhi neri si fecero tanto luminosi da farmi arrossire e, senza lasciarmi andare avvicinò le labbra ai miei capelli e li baciò. "Sai cosa vuol dire questo, amore mio?"
Ed io guardai la luce diversa che emanavano i suoi occhi, - certo, lo so - dissi guardandolo con una sicurezza nuova e sentii un calore dentro me divampare e farsi incendio.
Così nacque al prato nostro, all'ombra del gelsomino, il nostro amore.
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