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Don mignotte
* Beati monopalles
in terra castratorum
CAPITOLO I
Cantami, o Musa, l’ ira funesta del Don Mignotte,
che, accompagnato dal fedel Trippa Sancho,
solito era vagar per donne, giorno e notte,
brutte o storpie, o che avesser un dente marcio.
I suoi amori, i suoi intrighi, le sue lotte,
l’audaci imprese delle sue nobili avventure
io canterò, e le sue inaudite trombature.
E infin narrerò di te, devoto Sancho Trippa
che, nonostante la tua senil impotenza,
e costretto ad una giornalier pippa,
seguivi lo tuo padron con fede e riconoscenza;
egli, dedito a giochetti poco convenzionali
assieme a troie, baldracche e, finanche, animali.
Dirò di Sefarina, nata in un medesmo tratto,
bella ed elegante così quanto un rognoso ratto.
Cagion di nostra storia sì lontane,
al tempo degli eroi e delle belle dame,
in terre allor sì belle, e or sì malsane
poichè pien di palazzi e di catrame.
Dell’ antico re Dauno son le terre in questione
e del Diomede eroe che ferì dea dell’ amore,
oggi terra d’ un popol rozzo e cafone,
limitata dall’ Ofanto e ‘l Fortore.
Don Mignotte, che sposato la contessa
avea di Roccasecca, natal di San Tommaso,
non credea ch’ ella fosse sì cessa,
e neppur che avesse uno enorme naso.
Grassa e rugosa come un’ elefantessa.
E, se neppur questo, o attentissimo lettore, ti può bastare
per quel povero sfortunato pietà provare,
dirò, con gioia, anche dell’ altro.
Come un avvoltoio che, scaltro,
la sua morente preda sta a guardare,
per poi divorarla fino agli ossi,
così il nostro, dopo vent’anni con lei trascorsi,
sperava di vederla schiattare:
-Non può essere che la figlia del demonio-
si ripeteva sempre durante gli anni di matrimonio:
-Se continua a bere e a respirare.
Del resto, egli noto era d’ esser un libidinoso;
non già a guardarla ingozzarsi rimaneva,
e, all’ opportun momento, con far pericoloso,
usciva dal palazzo, in cerca di una nuova Eva,
per dar sfogo al membro solo e pensoso.
Come consiglier delle sue lussuriose azioni,
con sé solito era portar il buon Sancho Trippa,
che, malgrado non potesse aver più erezioni,
gli era fedel, come ad Ottaviano lo fu Agrippa.
Conclusa la lussuriosa avventura,
al regal palazzo volgea circospetto:
-Dove sei stato?- urlava la brutta creatura,
e lui:-Per valli, a farmi un giretto.-
Ma un dì accadde cosa sì grata:
giunto, infatti, da una delle sue:-Don Mignotte-
gli urlò Sancho -la contessa s’è ammalata.
Si dimena, e m’ ha preso a botte.-
Infin perì nel far d’ una nottata.
Ahi povero te, credevi, misero,
con la vacca certamente andata,
d’ esser forse finalmente libero?
No. Devi sapere, sommo lettore,
che, appena morto il balenotto,
Sancho porse al nostro un fagotto,
emanante un cattivo odore;
l’ aprì e disse:- Cos’è sto schifo di cosa?-
Non pensare, sommo, ch’ io sia senza core
se dico che c’ era una bambina non graziosa,
grossa, pelosa, e dal blu colore.
- È vostra figlia, sì bella e preziosa.-
E il dauno, disgustato:- Ma perché?
La strega aspettava una bambina?
Di chili ne peserà centottantatrè!
E, a ben guardarla, sembra zia Sefarina.
La chiamerò così, e l’ affiderò, Sancho, proprio a te.
CAPITOLO II
Di anni ne passaron ben ventitrè
da quella nottata. La bambina, già donna,
parea quel gorgone, in tutte n’ eran tre,
che ai capelli, nonostante monna,
avea flotta di serpenti. Più che zia Sefarina,
sembrava al nostro la defunta nonna.
Benché ciò, crescea stupida e cretina.
Ma torniam a colui che della storia
nostra ne è l’ autentico protagonista.
Inutil è dir che fea gran baldoria,
assiem varie donne:dalla lattaia alla dentista,
un po’ per piacer, un po’ per gloria.
Ahi vana gloria, terrena e mortale, fine di nostra sorte,
per la qual i men trovaron fama, i più la morte.
Come chi, per seguir essa e conoscenza,
superar le colonne d’ Ercole osò,
considerando invan la sua semenza,
e dalla sua amata Itaca mai più ritornò.
Spedito in giù, infin, tra i fraudolenti,
e non già tra i caini o i violenti.
Voce si sparse in fra tutto il Gargano
che il nostro di donne ne avea almen venti,
e non solo: da Bari finanche a Milano,
seppur le trattava come degli strumenti.
Alla prima luna di quell’ estate,
di una notte buia, silenziosa e mite,
venne al cospetto del nostro Mecenate,
un uomo affetto da gravosa colite,
che, non simigliante un ricco magnate,
parea aver più di mille stanche vite.
Scavate rughe avea nella pelle,
lunga la barba e di color bianco,
trascinava braccia lunghe e snelle,
col capo innanzi cadente e stanco.
Quando fu ai piè del nostro eroe giunto,
disse:“Di frasi e doni regali io manco,
mio eletto sire dal Signore unto,
ma della mia storia ti farò un sunto. ”
Ma Lui, guardandolo dall’ alto in basso,
di sentir storie straniere non avea voglia,
come pur di leggere un Dante o un Tasso.
Gettarlo a calci si offriva sulla soglia,
quando quello, dal logoro mantello,
tirò fuori una magica e dorata foglia.
-Che gioia-disse il Don nel suo cervello,
-Lo voglio. Sarà mio. Il mio tesoro.-
Incantato dal luccichio di quello,
gli si lanciò, come col rosso fa il toro.
Com’è facile lo spirito delle genti,
che posa attenzione solo a cose
che dilettano corpi anziché menti.
Esso cerca soltanto quelle amorose
Gioie che scaccian i pensier dolenti,
e fugge dalle cose tristi e paurose,
e dalle realtà crude e violenti.
Divorato è da piacere e voglia,
di esso non rimane che un nulla,
ma di fango ne divien la spoglia,
e la sua morta carne, terra brulla.
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