Là dove echeggia nelle lunghe sale
Il dolce volo delle pazze tròjke,
dove splendono i vini nei boccali,
sta per nascere adesso un ballo tondo.
Frusciando, tintinnando, biancheggiando,
volteggiano tracciando lenti cerchi.
E i violini, struggendosi e infiacchendo,
si abbandonano ai furiosi archetti.
Col braccio teso verso la caligine,
una esce fuori dal cerchio:
scelto l'amico destinato, lascia
cadere un fiore per terra.
Non raccattare quel fiore: v'è in esso
Il dolce oblío di tutti i giorni andati,
e tutta la frenetica allegria
della tua futura rovina!...
V'è tutto - il giuoco del fuoco e del fato,
solo nell'ora amara delle offese
da una lontananza irrevocabile
ne traluce un angelo accorato...
I tizzoni semispenti
sono già.
Quanti fuochi il vento ha spenti
qua e là.
E le navi dentro il mare
vanno giù.
E singhiozzano sul mare
oh le gru.
So che il sole in questo mondo
più non c'è.
Son poeta o cuor profondo:
credi a me.
Io le favole che vuoi
ti dirò,
e le maschere che vuoi
mi darò.
Dove sono ombre più vane
che sian qui,
od immagini più strane
di così?
M'inginocchio sempre dove
ci sei tu,
e di mano un fior mi piove,
piove giù...
Lividi rami d'alberi spogliati,
bagliori paonazzi all'orizzonte.
(Al patibolo vanno i condannati
nell'aureola di simili tramonti).
Velluti rossi sui divani tetri.
Nappe pulverulente di portiere.
Bevono qui, battendo insieme i vetri,
l'ufficiale, il mercante, il biscazziere.
Quelle povere stampe di giornale
non le ha mai carezzate mano umana.
Ma la mano agitò del criminale
la corda della piccola campana.
Risuonano sui soffici tappeti
sproni e risate spente dalle porte.
È una casa fra queste due pareti?
dice proprio così l'umana sorte?
Il convegno m'illude o mi delude?
Perché pallida sei come un lenzuolo?
Perché sulle tue spalle fredde e nude
l'agonia si riverbera del sole?
Le tue labbra si specchiano nell'oro
dell'icona col sangue che gela
(è a questo che noi diamo il nome amore?)
in una linea esigua di cera.
Nel grembo del crepuscolo malato
giù si sprofonda trionfale il letto.
Tu fischi sempre benché mozzi il fiato
la vertigine folle della stretta.
Vibran nel fischio tuo inni di strazio.
Ancora - senti - un tintinnio di sproni.
Striscia per terra come un boa sazio
il tuo vestito giù dalla poltrona.
Io non sono il tuo uomo né il tuo amore.
Fiera tu sei, o angelo mio breve.
Senza tremare piantami nel cuore
il tuo aguzzo tacco alla francese.
Sui ristoranti nel crepuscolo
c'è un'aria sorda di città,
ma l'ebbre grida che l'offuscano
il vento dissipa qua e là.
Fuori barriera là sul vicolo
l'eterno tedio è il solo re:
qui son le lacrime d'un piccolo,
laggiù un'insegna di caffè.
Ed al di là della metropoli,
con i capelli "dernier cri"
van con le dame belle e i nobili
gli esperti e fatui dandì.
Là sul laghetto i remi gemono,
si sente un urlo e nulla più;
la luna come un folle demone
ride nell'etere lassù.
Del solo amico il volto livido
trema nel calice con me:
egli divien per l'aspro liquido
solo e divino come un re.
E i camerieri sempre cullano
le teste stanche in qua e in là,
fra gli ubriachi guerci che urlano:
"Nel vino sta la verità!"
Ed un'immagine femminea,
- se in carne o in ombra, non lo so -
dietro i cristalli sta, virginea:
saper chi sia nessuno può.
Passa fra gli ebbri lenta e umile,
- con lei nessuno mai non c'è -:
ravvolta d'aliti e di nuvole
ella si siede accanto a me.
C'è in lei il profumo delle favole
di tempi ormai che non son più;
dondolan come un'ala fragile
le piume in lutto in su e in giù.
guardo attraverso il velo torbido
che m'incatena il cuore a sé:
vedo la riva strana e morbida
di un orizzonte che non c'è.
Ed i misteri so degli angeli,
un altrui sole mi si dà,
e giù dell'anima negli angoli
l'asprigno vino se ne va.
Treman le piume come glicine
in ogni sogno ch'io non ho,
fioriscon gli occhi di vertigine
sovra una sponda che non so.
Una è la chiave del miracolo
e in fondo all'anima mi sta:
demone, è questo il verbo magico:
"Nel vino sta la verità!"
Sta la luna sovra il prato
come un circolo incantato
scintillando, e tace.
Bianco è il prato di corolle:
scivolando l'ombra molle
si riposa e giace.
Triste è uscire sulla via:
un'arcana nostalgia
regna nella pace.
Ma domani un chiaro lume
romperà le oscure brume
come una gran face:
e tu andrai lungo il sentiero,
mentre sotto il più leggero
filo d'erba vita nasce
Aleksandr Aleksandrovič Blok - Poeta e drammaturgo russo. Fu il più alto rappresentante della corrente decadente-simbolista e il poeta dagli accenti più sicuri e profondi. La sua originalità e freschezza di ispirazione non risentirono affatto degli studi platonici e religiosi che caratterizzarono il movimento dello "scitismo" cui anche Blok aderì negli anni antecedenti la rivoluzione. Opere: I versi della bellissima dama (1904); La maschera di neve, Faina, Pensieri liberi (1904-1908); Drammi: La baracca dei saltinmbanchi (1906), Il re sulla piazza (1907), La sconosciuta (1908), Le rose e la croce (1912); Poemi: Gli Sciti (1915), I dodici (1918); Saggi: Gli intellettuali e la rivoluzione (1918), Diario vol. I e II (1911-1921).