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Poesie di Cesare Pavese

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Sei la terra e la morte

Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall'alba.

Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l'hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singuiti
che tu ignori. Il dolore
come l'acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull'acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.

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Il ragazzo che era in me

Va' a sapere perché fossi là quella sera nei prati.
Forse mi ero lasciato cadere stremato di sole,
e fingevo l'indiano ferito. Il ragazzo a queí tempi
scollinava da solo cercando bisonti
e tirava le frecce dipinte e vibrava la lancia.
Quella sera ero tutto tatuato a colori di guerra.
Ora, l'aria era fresca e la medica pure
vellutata profonda, spruzzata dei fiori
rossogrigi e le nuvole e il cielo
s'accendevano in mezzo agli steli. Il ragazzo riverso
che alla villa sentiva lodarlo, fissava quel cielo.
Ma il tramonto stordiva. Era meglio socchiudere gli occhi
e godere l'abbraccio dell'erba. Avvolgeva come acqua.
Ad un tratto mi giunse una voce arrochita dal sole:
il padrone del prato, un nemico di casa,
che fermato a vedere la pozza dov'ero sommerso
mi conobbe per quel della villa e mi disse irritato
di guastar roba mia, che potevo, e lavarmi la faccia.
Saltai mezzo dall'erba. E rimasi, poggiato le mani,
a fissare tremando quel volto offuscato.
Oh la bella occasione di dare una freccia nel petto di un uomo!
Se il ragazzo non ebbe il coraggio, m'illudo a pensare
che sia stato per l'aria di duro comando che aveva quell'uomo.
lo che anche oggi mi illudo di agire impassibile e saldo
me ne andai quella sera in silenzio e stringevo le frecce
borbottando, gridando parole d'eroe moribondo.
Forse fu avvilimento dinanzi allo sguardo pesante
di chi avrebbe potuto picchiarmi. O piuttosto vergogna
come quando si passa ridendo dinanzi a un facchino.
Ma ho il terrore che fosse paura. Fuggire, fuggii.
E, la notte, le lacrime e i morsi al guanciale
mi lasciarono in bocca sapore di sangue.
L'uomo è morto. La medica è stata diverta, erpicata
ma mi vedo chiarissimo il prato dinanzi
e, curioso, cammino e mi parlo, impassibile
come l'uomo alto e cotto dal sole parlò quella sera.

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Il vino triste

La fatica è sedersi senza farsi notare.
Tutto il resto poi viene da sé. Tre sorsate
e ritorna la voglia di pensarci da solo.
Si spalanca uno sfondo di lontani ronzii,
ogni cosa si sperde, e diventa un miracolo
esser nato e guardare il bicchiere. Il lavoro
(l'uomo solo non può non pensare al lavoro)
ridiventa l'antico destino che è bello soffrire
per poterci pensare. Poi gli occhi si fissano
a mezz'aria, dolenti, come fossero ciechi.

Se quest'uomo si rialza e va a casa a dormire,
pare un cieco che ha perso la strada. Chiunque
può sbucare da un angolo e pestarlo di colpi.
Può sbucare una donna e distendersi in strada,
bella e giovane, sotto un altr'uomo, gemendo
come un tempo una donna gemeva con lui.
Ma quest'uomo non vede. Va a casa a dormire
e la vita non è che un ronzio di silenzio.

A spogliarlo, quest'uomo, si trovano membra sfinite
e del pelo brutale, qua e là. Chi direbbe
che in quest'uomo trascorrono tiepide vene
dove un tempo la vita bruciava? Nessuno
crederebbe che un tempo una donna abbia fatto carezze
su quel corpo e baciato quel corpo, che trema,
e bagnato di lacrime, adesso che l'uomo
giunto a casa a dormire, non riesce, ma geme.

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Al lento vacillare stanco

Al lento vacillare stanco
di un'altra fiamma perduta,
al lento disfarsi e svanire
del mio amore ormai lontano,
che pure mi diede tant'ala
a levarmi sul mondo
e tante cose dolci e segrete
mi cantò nell'orecchio,
o, più profondo, nel cuore vivo,
cose trepide di dolcezza,
che nessuno saprà mai,
che mai saprò ridire,
al dileguarsi inesorabile di tutti i mie i sogni
al morire di un'altra illusione:
mi ritorna nell'anima il monotono ritmo del tempo,
la vita orrenda, sempre uguale,
e il martellare dei pensieri inutili,
l'interminabile struggermi grigio
in mezzo allo spettacolo del mondo
sempre uguale,
ma tanto misterioso e terribile
di gioie e dolori,
che fa chiudere gli occhi e raccogliersi in sé,
quasi un rombo improvviso
che rintroni il cervello.
Ma nella vita così fatua e triste,
dileguato lontano il bel sogno sereno,
mi riafferrano a tratti,
ferocemente improvvisi,
struggimenti di desiderio,
soffocamenti folli,
lancinanti come ferite
che si riaprono d'improvviso
ad un urto violento,
ali tronche e rabbiose
d'un grande sogno che vivo
senza comprendere certo
che cosa sia mai.
Desiderio per tutte le donne che passano in strada,
per un viso, un bel corpo,
una febbre sensuale che mi rugge nel sangue.
Io le seguo con l'occhio perduto le donne che passano
E ogni volta mi par di lasciare
sul loro cammino,
ch'è così tiepido e profumato,
della carne strappata e del sangue, una brama viva.
E tutte mi sfiorano e poi:
dileguate per sempre.
Invidia dei meravigliosi suicidi d'amore,
quando l'ultima stretta folle s'inonda di sangue,
violento, porpureo,
e se ne bagnano i cuscini e la rivoltella,
e tutto è come esaltato,
rintronato dal rombo;
e gli occhi malcerti muoiono
negli occhi del viso supino che già si raffredda,
ma la bocca disperatamente
cerca ancora la bocca adorata.
Desiderio pazzo di un'impresa eroica,
che mi sollevi sul mondo
e possa rinchiudermi in me, sopraffatto d'orgoglio,
che almeno nei gesti si pla

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Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

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Poesie Cesare Pavese (1908 - 1950) è stato un poeta e scrittore italiano. La produzione letteraria di Cesare Pavese si colloca tra realisimo e simbolismo lirico, comprendendo anche aspetti di decadentismo espresso dal rapporto tra vita ed arte. Oltre che per il suo lavoro di scrittore e poeta, Cesare Pavese è ricordato per una ricca produzione di critica e traduzione (tra cui la traduzione del romanzo Moby Dick). Nel giugno 1950 Pavese riceve il Premio Strega per l'opera La bella estate.

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