Ancora la vita
come fosse un altrove
da abitare nel sogno
e questa - di rabbie, di attese,
e pure cara, cercata -
la porta da valicare,
una vigilia, una sosta.
Ancora l'ansia,
come scura semenza
da concimare, annaffiare,
e in essa la mappa
per seguitare il viaggio.
(Un pomeriggio, a Sabaudia,
nella tua ultima estate
- dal terrazzo tua madre
chiama il mare che avanza -
maledici il catrame
dentro la sabbia, lungo la battigia,
e stupisci dell'olio
di uliva che smacchia).
Parole come gesti che additano il percorso,
innervate, veloci, da sottrarre al silenzio.
Parole che dissaldano segreti,
che disfano la trama
spessa della paura.
Leggere come foglie,
aguzze come lame,
usurati strumenti
ma chiamano l'attesa,
la salvezza.
Corsa breve di sillabe, universo
ricomposto di scaglie,
involucro, confine,
di un impresa insoluta.
Mappa, specchio reclino,
porta schiusa di un sogno,
e cercarvi la voce
che finalmente adduca
dal nome al corpo.
Fiato, grido, sussurro,
e ritrovarvi il segno
lieve, solo il lacerto di un motivo
che un poco ferma, un poco accompagna.
Parole del tornare nell'addio.
Ci sono tante voci
nelle nostre giornate,
sono tante e diverse,
vanno tutte ascoltate.
Sono le nostre voci
che dicono parole
l'una legata all'altra:
non sanno stare sole.
C'è la voce del vento
che soffia e che rinfresca,
del passero, del gatto,
anche dell'acqua fresca
che scivola fra i sassi,
degli alberi il fruscio,
lo stormire delle foglie,
dei grilli il frinio.
La voce della fiamma
che crepita e s'arrossa,
c'è la voce del mare
ora quieta, ora mossa.
E, se tendi l'orecchio
di notte nella stanza,
odi l'orso di pezza
che ride e fa l'inchino
al pulcino che danza.
C'è la voce segreta
che ci portiamo dentro,
quella che ci accompagna,
ci avverte, ci conforta.
Ci sono tante voci
oltre la nostra porta.
Vanno tutte ascoltate
Non meravigliatevi. I poeti sono tutti
un solo invisibile, indistruttibile popolo.
Parlano e sono muti. Trascorrono ère
e cantano ancora in un'antica lingua morta.
Nascono e spariscono civiltà,
ma sempre vanno lungo la strada del cuore.
Parlano di partenze, di ritorni.
Sono uguali per quel che non dicono.
Tacciono come rugiada, semenza, desiderio,
come acque scorrenti sull'argilla,
poi con il canto sottile dell'usignolo
nel bosco divengono agile sorgente sonora.
C'era nella tua voce quieta, querula,
anche quando parlavi di Ninetto
o di tua madre santa smemorata,
il grido trattenuto, il dispiacere
di chi ha lasciato (o soltanto sognato)
il giardino-recinto
dove ciascuno accoglie e dona amore.
C'era in quel grido il Cristo, il Corsaro,
Centauro che ammaestra scalpitando,
il demone che atterrisce e che invade
fin dentro la speranza e il desiderio,
ma c'era ancora il ragazzo che attende
alle porte del mondo
e accarezza la morte e la chiama
come la sola uscita sicura.
C'era in quel grido questo restare
- dopo la rabbia, dopo la tristezza -
che conosce e patisce
seguitando a cercare.