Sul chiuso quaderno
di vati famosi,
dal musco materno
lontana riposi,
riposi marmorea
dell'onde già figlia,
ritorta conchiglia.
Occulta nel fondo
d'un antro marino,
del giovane mondo
vedesti il mattino;
vagavi co' nautili,
co' murici a schiera,
e l'uomo non era.
Per quanta vicenda
di lente stagioni,
arcana leggenda
d'immani tenzoni
impresse volubile
nel niveo tuo dorso
de' secoli il corso!
Noi siamo di ieri:
de l'Indo pur ora
su i taciti imperi
splendeva l'aurora;
pur ora del Tevere
a' lidi tendea
la vela di Enea.
È fresca la polve
Che il fasto caduto
de' Cesari involve.
Si crede canuto,
appena a l'Artefice
uscito di mano,
il genere umano!
Tu, prima che desta
a l'aure feconde,
Italia la testa
levasse da l'onde,
tu, suora de' polipi,
de' rosei coralli
pascevi le valli.
Riflesso nel seno
de' ceruli piani,
ardeva il baleno
di cento vulcani:
le dighe squarciavano
di pelaghi ignoti
rubesti tremoti.
Ne l'imo de' laghi
le palme sepolte,
nel sasso de' draghi
le spire rinvolte,
e l'orme ne parlano
de' profughi cigni
su gli ardui macigni.
Pur baldo di speme
l'uom, ultimo giunto,
le ceneri preme
d'un mondo defunto:
incalza di secoli
non anco maturi
i fulgidi augùri.
Su i tumuli il piede,
ne' cieli lo sguardo,
a l'ombra procede
di santo stendardo;
per golfi reconditi,
per vergini lande
ardente si spande.
T'avanza, t'avanza,
divino straniero;
conosci la stanza
che i fati ti diêro:
se schiavi, se lagrime
ancora rinserra,
è giovin la terra.
Eccelsa, segreta
nel buio de gli anni,
Dio pose la mèta
de' nobili affanni:
con brando e con fiaccola
su l'erta fatale
ascendi, mortale!
Poi, quando disceso
Su i mari redenti,
lo Spirito atteso
ripurghi le genti,
e splenda de' liberi
un solo vessillo
sul mondo tranquillo:
compiute le sorti,
allora de' cieli
ne' lucidi porti
la terra si celi:
attenda su l'àncora
il cenno divino
per nuovo cammino.
Odio l'allor, che quando alla foresta
le nuovissime fronde invola il verno,
ravviluppato nell'intatta vesta
verdeggia eterno,
pompa de' colli; ma la sua verzura
gioia non reca all'augellin digiuno;
che' la splendida bacca invan matura
non coglie alcuno.
Te, poverella vite, amo, che quando
fiedon le nevi i prossimi arboscelli,
tenera l'altrui duol commiserando
sciogli i capelli.
Tu piangi, derelitta, a capo chino
sulla ventosa balza. In chiuso loco
gaio frattanto il vecchierel vicino
si asside al foco.
Tien colmo un nappo: il tuo licor gli cade
nel'ondeggiar del cubito sul mento;
poscia floridi paschi ed auree biade
sogna contento.
A mezzo solco il vecchierel gia' stanco
l'aratro sospendeva mentre l'aurora
alle montagne imporporava il fianco:
levato ei s'era ch'era notte ancora.
Una riversa zolla era il suo banco;
e presso lui la giovinetta nuora
attentamente avea disteso il bianco
tovagliolin che di bucato odora.
Sussurravano i pioppi: in ciel rotata
la lodoletta coll'allegro canto
l'umile imbandigion facea pi grata.
Il sol nasceva. Assisa sovra il corno
del bue sdraiato una passera intanto
salutava tranquilla il novo giorno.