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Poesie di Giosuè Carducci

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Egle

Stanno nel grigio verno pur d'edra e di lauro vestite
ne l'Appia tristal le ruinose tombe.

Passan pe 'l ciel turchino
che stilla ancor da la pioggia
avanti al sole lucide nubi bianche.

Egle, levato il capo vèr' quella serena promessa
di primavera, guarda le nubi e il sole.

Guarda; e innanzi a la bella sua fronte
più ancora che al sole
ridon le nubi sopra le tombe antiche.



Nella piazza di San Petronio

Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.
È l'ora soave che il sol morituro saluta
le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo;
le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe,
e del solenne tempio la solitaria cima.
Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
e l'aer come velo d'argento giace
su 'l foro, lieve sfumando a torno le moli
che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.
Su gli alti fastigi s'indugia il sole guardando
con un sorriso languido di viola,
che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l'anima de i secoli,
e un desio mesto pe 'l rigido aere sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,
quando le donne gentili danzavano in piazza
e co' i re vinti i consoli tornavano.
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.



Per le nozze di mia figlia

O nata quando su la mia povera
casa passava come uccel profugo
la speranza, e io disdegnoso
battea le porte de l'avvenire; 4

or che il piè saldo fermai su 'l termine
cui combattendo valsi raggiungere
e rauchi squittiscon da torno
i pappagalli lusingatori; 8

tu mia colomba t'involi, trepida
il nuovo nido voli a contessere
oltre Apennino, nel nativo
aëre dolce de' colli tóschi. 12

Va' con l'amore, va' con la gioia,
va' con la fede candida. L'umide
pupille fise al vel fuggente,
la mia Camena tace e ripensa. 16

Ripensa i giorni quando tu parvola
coglievi fiori sotto le acacie,
ed ella reggendoti a mano
fantasmi e forme spïava in cielo. 20

Ripensa i giorni quando a la morbida
tua chioma intorno rogge strisciavano
le strofe contro a gli oligarchi
librate e al vulgo vile d'Italia. 24

E tu crescevi pensosa vergine,
quand'ella prese d'assalto intrepida
i clivi de l'arte e piantovvi
la sua bandiera garibaldina. 28

Riguarda, e pensa. De gli anni il tramite
teco fia dolce forse ritessere,
e risognare i cari sogni
nel blando riso de' figli tuoi? 32

O forse meglio giova combattere
fino a che l'ora sacra richiamine?
Allora, o mia figlia, - nessuna
me Beatrice ne' cieli attende - 36

allora al passo che Omero ellenico
e il cristïano Dante passarono
mi scorga il tuo sguardo,
la nota voce tua m'accompagni. 40



La madre

Lei certo l'alba che affretta rosea
al campo ancora grigio gli agricoli
mirava scalza co 'l piè ratto
passar tra i roridi odor del fieno.

Curva su i biondi solchi i larghi omeri
udivan gli olmi bianchi di polvere
lei stornellante su 'l meriggio
sfidar le rauche cicale a i poggi.

E quando alzava da l'opra il turgido
petto e la bruna faccia ed i riccioli
fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
coloraro ignei le balde forme.

Or forte madre palleggia il pargolo
forte; da i nudi seni già sazio
palleggialo alto, e ciancia dolce
con lui che a' lucidi occhi materni

intende gli occhi fissi ed il piccolo
corpo tremante d'inquïetudine
e le cercanti dita: ride
la madre e slanciasi tutta amore.

A lei d'intorno ride il domestico
lavor, le biade tremule accennano
dal colle verde, il büe mugghia,
su l'aia il florido gallo canta.

Natura a i forti che per lei spregiano
le care a i vulghi larve di gloria
così di sante visïoni
conforta l'anime, o Adrïano:

onde tu al marmo, severo artefice,
consegni un'alta speme de i secoli.
Quando il lavoro sarà lieto?
Quando securo sarà l'amore?

Quando una forte plebe di liberi
dirà guardando nel sole: "Illumina
non ozi e guerre a i tiranni,
ma la giustizia pia del lavoro"?



Davanti alle terme di Caracalla

Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di nevi.

A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch'a più ardua sfida
levansi enormi.

"Vecchi giganti" par che insista irato
l'augure stormo "a che tentate il cielo?"
Grave per l'aure vien da Laterano
suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco,
nume presente.

Se ti fur cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da 'l reclinato
capo de i figli:

se ti fu cara su 'l Palazio eccelso
l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l'evandrio colle, e veleggiando a sera
tra 'l Campidoglio

e l'Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);

febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.

Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l'Appia via.





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