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Poesie di Giosuè Carducci

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Avanti! Avanti!

Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione
Indomito destrier.
A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti,
E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
L'urlo solingo e fier.

I bei ginnetti italici han pettinati crini,
Le constellate e morbide aiuole de' giardini
Sono il lor dolce agon:
Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
De le fanfare al suon;

E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
Il picciol collo inarcano e masticando il morso
Par che rignino "Ohibò!"
Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
D'un corpo che invecchiò,

Ripensando gli scalpiti de' corteggi e le stalle
De' tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
Guarda con muto orror.
E noi corriamo a' torridi soli, a' cieli stellati,
Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
Dietro un velato amor.

Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
Non vedi tu le parie forme del tempo antico
Accennarne colà?
Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
Oh gloria, oh libertà!

Ahi, da' prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
Ne' superbi silenzii il tuo superbo amore.
Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
Mi sfolgorar da' gelidi marmi nel petto un raggio,
Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
E i lampi de' bianchi omeri sotto le chiome d'òr.

E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
O immane statua bronzea su dirupato monte,
Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.

A più frequente palpito di umani odii e d'amori
Meglio il petto m'accesero ne' lor severi ardori
Ultime dee superstiti giustizia e li

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L'annuale della fondazione di Roma

Te redimito di fior purpurei
april te vide su 'l colle emergere
da 'l solco di Romolo torva
riguardante su i selvaggi piani:

te dopo tanta forza di secoli
aprile irraggia, sublime, massima,
e il sole e l'Italia saluta
te, Flora di nostra gente, o Roma.

Se al Campidoglio non più la vergine
tacita sale dietro il pontefice
né più per Via Sacra il trionfo
piega i quattro candidi cavalli,

questa del Fòro tua solitudine
ogni rumore vince, ogni gloria;
e tutto che al mondo è civile,
grande, augusto, egli è romano ancora.

Salve, dea Roma! Chi disconòsceti
cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
e a lui nel reo cuore germoglia
torpida la selva di barbarie.

Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
del Fòro, io seguo con dolci lacrime
e adoro i tuoi sparsi vestigi,
patria, diva, santa genitrice.

Son cittadino per te d'Italia,
per te poeta, madre de i popoli,
che desti il tuo spirito al mondo,
che Italia improntasti di tua gloria.

Ecco, a te questa, che tu di libere
genti facesti nome uno, Italia,
ritorna, e s'abbraccia al tuo petto,
affisa ne' tuoi d'aquila occhi.

E tu dal colle fatal pe 'l tacito
Fòro le braccia porgi marmoree,
a la figlia liberatrice
additando le colonne e gli archi:

gli archi che nuovi trionfi aspettano
non più di regi, non più di cesari,
e non di catene attorcenti
braccia umane su gli eburnei carri;

ma il tuo trionfo, popol d'Italia,
su l'età nera, su l'età barbara,
su i mostri onde tu con serena
giustizia farai franche le genti.

O Italia, o Roma! Quel giorno, placido
tornerà il cielo su 'l Fòro, e cantici
di gloria, di gloria, di gloria
correran per l'infinito azzurro.



Alle fonti del Clitumno

Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l'aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,

scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l'umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l'onda
immerge, mentre

vèr' lui dal seno de la madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride:

pensoso il padre, di caprine pelli
l'anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de' bei giovenchi,

de' bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su 'l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite
Virgilio amava.

Oscure intanto fumano le nubi
su l'Apennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
l'Umbria guarda.

Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l'antica
patria e aleggiarmi su l'accesa fronte
gl'itali iddii.

Chi l'ombre indusse del piangente salcio
su' rivi sacri? Ti rapisca il vento
de l'Apennino, o molle pianta, amore
d'umili tempi!

Qui pugni a' verni e arcane istorie frema
co 'l palpitante maggio ilice nera,
a cui d'allegra giovinezza il tronco
l'edera veste:

qui folti a torno l'emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l'ombre, tu fatali canta
carmi, o Clitumno.

O testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne' duelli atroce
cesse a l'astato velite e la forte
Etruria crebbe:

di' come sovra le congiunte ville
dal superato Cimino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.

Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno,

per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
"O tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa,

e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai n

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Sogno d'estate

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su 'l Tirreno.
Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza da 'l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioría.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
pur divenendo rio: su 'l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d'oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l'amore materno, percosso nel core
da quella festa immensa che l'alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su da 'l castello
annunziando Cristo tornante dimane a' suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l'aure, pe' rami, per l'acque,
correa la melodia spiritale di primavera;
ed i peschi ed i meli tutti eran fior' bianchi e vermigli,
e fior' gialli e turchini ridea tutta l'erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de' prati,
e molli d'auree ginestre si paravano i colli,
e un'aura dolce movendo quei fiori e gli odori
veniva giú dal mare; nel mar quattro candide vele
andavano andavano cullandosi lente nel sole,
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole.
Io guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
questo che or giace lungi su 'l poggio d'Arno fiorito,
quella che dorme presso ne l'erma solenne Certosa;
pensoso e dubitoso s'ancora ei spirassero l'aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
ove tra note forme rivivono gli anni felici.
Passar le care imagini, disparvero lievi co 'l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguía cheta l'opra de l'ago.



Il bove

T'amo pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,

O che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazienti occhi rispondi.

E del grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde.





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