Non sa, la barca, risalire il fiume.
Nessun vento contrasta la rapida.
Felicità, gonfiavi le mie vele.
Ora smorte ricadono in lamenti.
Ma sarebbero ancora le parole
l'essenziale energia. Quel silenzio
che sempre è il limo fertile del verso,
ora è puro veleno.
Natale è un flauto d'alba, un fervore di radici
che in nome tuo sprigionano acuti ultrasuono.
Anche le stelle ascoltano, gli azzurrognoli soli
in eterno ubriachi di pura solitudine.
Perché questo Tu sei, piccolo Dio che nasci
e muori e poi rinasci sul cielo delle foglie:
una voce che smuove e turba anche il cristallo,
il mare, il sasso, il nulla inconsapevole.
Andare a destra, a sinistra. Scendere e salire.
Resta la direzione obliqua, anche lei deludente.
Ci vorrebbe altro spazio, un'altra dimensione.
Perché resta l'anelito, se tutto è poi vietato?
La formula del giglio saprei là, e la forza
oscura che lo anima come anima me.
E saprei perché esiste la massima illusione,
fascio di luce, amore, di cui oggi ti avvolgo.
Se gli scalmi tradiscono, e si allentano
i cerchioni di ferro dei remi,
e i remi laschi perdono fiducia
e si affloscia la presa della mano,
se sei lontano, se pallidi suoni
dalla terra promessa mi raggiungono,
ah, si gonfi la vela, prenda slancio
lei, la parola, l'unico mio Dio -
Entro in questo amore come in una cattedrale,
come in un ventre oscuro di balena.
Mi risucchia un'eco di mare, e dalle grandi volte
scende un corale antico che è fuso alla mia voce.
Tu, scelto a caso dalla sorte, ora sei l'unico,
il padre, il figlio, l'angelo e il demonio.
Mi immergo a fondo in te, il più essenziale abbraccio,
e le tue labbra restano evanescenti sogni.
Prima di entrare nella grande navata,
vivevo lieta, ero contenta di poco.
Ma il tuo fascio di luce, come un'immensa spada,
relega nel nulla tutto quanto non sei.