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Poesie di Mario Luzi

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Linfe

Quiete, maturità impende dal cielo.
Non più io, sono gli alberi felici
che parlano e le rose e le acque vive
nei salti, e le città
sublimi dove salgono i sentieri.
E quest'ora eternamente propizia
che rimane da vivere, nel sole
alta e sempre futura.

Ma dovunque mi tragga il chiaro fuoco
nel meriggio, oh tu guardalo tremare
fra i carri di vendemmia che s'inoltrano
lenti per le contrade
fra siepi ed ombre fluide, ovunque appare
il tempo giustamente compiuto.
La sua voce s'è sciolta già in preghiera
là dove il vento cade.

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Era una viva attesa che raggiava

Era una viva attesa che raggiava
in te paura e tremito ed in me
sensibile delizia d'inoltrarmi
fra gli alberi, di bere alle fontane.
Il barbaglio delle acque vaghe, il cielo.
le ombre quiete nell'aria animata,
anche il vento moveva in me il sorriso.

Era la stessa febbre che ci estrania
rapidamente dai morti e ci svia
mentre restano soli fra le torce
nell'immane fatica di scavarsi
la strada fra le rocce d'ombra, stanchi
e intenti a penetrare fino al fondo.
Ne vedesti il profilo aguzzo, accanto
riposano le mani estenuate.

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Questa felicità

Questa felicità
Questa felicità promessa o data
m'è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove il molteplice nell'unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo

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Prima di Sera

"Credi, credi di conoscermi" recita lei quasi parlando al vento
e osserva controsole la polvere
strisciare sullo stradone deserto.
"Appartieni troppo a te stesso" insiste ad accusarmi
prolungando la pena dell'indugio
quella parte di lei che ancora combatte
avvilita e altera nella macchina ferma.
Ma le suona falso l'argomento
e ne scorgo sul cristallo la larva
che spenge d'un sorriso
dimesso le parole appena dette.
"Oh di questo hai anche troppo sofferto" aggiunge poi quasi portando fiori
sul luogo, un'orticaia, dove mi ha crocifisso.
"Vanamente" mormoro più che dal rimorso
toccato da quel tono
di persistente, doloroso affetto;
e ora vorrei non le sembrasse indegno
cercare in altri la causa
del suo male, fosse pure il mio torto.
"Vanamente" e mi viene non so se dal ricordo
o dal sogno un'immagine di lei
gracile, impalata nella sua altezza, che guarda un fiume
dall'argine e, poco oltre la foce,
la lacca grigia del mare oscurarsi.
"Lascia perdere" dice lei con la voce di chi torna
dopo un'assenza di anni sul luogo stesso
e raduna le spoglie lasciate in altri tempi, dopo lo scacco.
"Perché non è in nostro potere richiamarci"
mi chiedo io sorpreso che sia lì, ferma, sul sedile accanto.
"Che intesa può darsi senza luce di speranza?
Perché la speranza è irreversibile" commenta
il suo silenzio rigido senza più lotta
mentre abbassa risoluta la maniglia
e getta un'occhiata di squincio al casamento, alto, che tra poco la inghiotte.

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Ménage

La rivedo ora non più sola, diversa,
nella stanza più interna della casa,
nella luce unita, senza colore né tempo, filtrata dalle tende,
con le gambe tirate sul divano, accoccolata
accanto al giradischi tenuto basso.
"Non in questa vita, in un'altra" folgora il suo sguardo gioioso
eppure più evasivo e come offeso
dalla presenza dell'uomo che la limita e la schiaccia.
"Non in questa vita, in un'altra" le leggo bene in fondo alle pupille.
È donna non solo da pensarlo, da esserne fieramente certa.
E non è questa l'ultima sua grazia.
in un tempo come il nostro che pure non le è estraneo né avverso.
"Conosci mio marito, mi sembra" e lui sciorina un sorriso importunato,
pronto quanto fuggevole, quasi voglia scrollarsela di dosso
e ricacciarla indietro, di là da una parete di nebbia e d'anni;
e mentre mi s'accosta ha l'aria di chi viene
da solo a solo, tra uomini, al dunque.
"C'è qualcosa da cavare dai sogni?" mi chiede fissando su di me i suoi occhi vuoti
e bianchi, non so se di seviziatore, in qualche "villa triste", o di guru.
"Qualcosa di che genere?" e guardo lei che raggia tenerezza
verso di me dal biondo del suo sguardo fluido e arguto
e un poco mi compiange, credo, d'essere sotto quelle grinfie.
"I sogni di un'anima matura ad accogliere il divino
sono sogni che fanno luce; ma a un livello più basso
sono indegni, espressione dell'animale e basta" aggiunge
e punta i suoi occhi impenetrabili che non so se guardano e dove.
Ancora non intendo se m'interroga
o continua per conto suo un discorso senza origine né fine
e neppure se parla con orgoglio
o qualcosa buio e inconsolabile gli piange dentro.
"Ma perché parlare di sogni" penso
e cerco per la mia mente un nido
in lei che è qui, presente in questo attimo del mondo.
"E lei non sta facendo un sogno?" riprende mentre sale dalla strada
un grido di bambini, vitreo, che agghiaccia il sangue.
"Forse, il confine tra il reale e il sogno..." mormo

[continua a leggere...]

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