Che fu mai,
signori miei,
il mio esser attore?
Enigma assordante d'una maledizione,
o scia incontrastabile,
d'una talentuosa vocazione?
Fu forse
teoria scomposta di giorni,
addestrati a sorridersi,
a sorridere;
quel prendere a pugni
il cancerogeno affastellarsi
del selvatico vivere,
come feci per il sussurro d'esistenza,
che mi vide boxeur?
No, fu il teatro,
voce suadente eppur ribelle,
che la mia anima sottrasse,
al manto geloso d'un inverno,
la strada ch'a rivelarmi imprese,
lo sfavillare diluviale,
di mille personaggi in uno soltanto;
giace come ritratto infuocato,
nei miei labirintici anfratti d'anima,
il volto d'ogni donna,
di cui strenna mi feci inesaurisibile
d'amore e seduzione.
Ancor t'odo e scorgo,
fedele e sbarazzino Sarchiapone,
che nelle paludi
stridule e risucchianti del niente,
come me
tutto provasti a essere un po' contemporaneamente.
Amar davvero è forse
imparare a stringer
convivenza un po' bambina un po' assassina,
con i palpiti irregolari,
di quel bandito talora feroce,
che nome ha cuore.
E se pubblico un po' vi ho dilettato,
or che del mio esistere
sol resta il ricordo brulicante,
che dal vostro amarmi trae supremo fiato,
concludo dirvi osando,
decifrando l'autentico senso,
della mia terrena dipartita
"non piangete, è soltanto sonno arretrato".