La notte era cupa e ventosa, lo scricchiolio
del vento fra i rami rimembrava presagi antichi
fuggiti da qualche oblio.
In remota contemplazione, stavo davanti ad un bosco
simulacro erboso e verdeggiante di ombre e tempi da lì
non ancora fuggiti.
Ero come sopito quasi in veglia, ebbro di vino e malinconie,
evocavo la morte, che beffarda non mi prestava orecchio.
All’ improvviso nel suo funesto planare, dalle ignote rive delle
tenebre una civetta, solitaria come me, portava seco illusioni
e saperi cosmici al di là della stessa ragione, spavalda si posò
sul davanzale del mio balcone.
Il suo piumaggio sconvolto dalla brezza sembrava quello degli
antichi messaggeri d’altri luoghi e d’altre figure, i suoi occhi color
fuoco rubino trafissero il tormentato fantasma che era divenuto il
mio cuore.
Quell’idolo di cabalistiche provenienze, lacerò la perversa
tela della disperazione che mi avvolgeva e soffocava.
Poi come è venuto se ne andò inghiottito dalla bruma che lenta
cominciava ad arrampicarsi sugli antichi arbusti.
Da immemorabili stagioni ormai ammuffite bramo il suo ritorno, speranzoso
di rievocare quel demone caritatevole.