Il destino mi addestrò
a ricarmarmi custode sonoro,
su lingue di strade
silenti eppur così loquaci,
che corteggiavano a mia insaputa
le corde ribelli della mia chitarra;
non sono, ne fui mai io
a cesellare fantasmi di zucchero
di compiute, alate serenate,
furono piuttosto loro
ora lo so,
a prendermi sotto l'ombrello
delle loro carezze color privilegio,
suonare per imparare
la misura inesplorata del mio amare,
e poi,
scorgermi io stesso innamorato,
tra lo sfuggente comporsi e dileguarsi
di un fiume di baci tra innamorati;
sonorità mie,
in realtà davvero mie mai foste,
ma vi faceste piccole piccole
tramortendo la vostra identità infinita,
perchè io imparassi davvero
a esplorare i fondali tremanti del mio cuore;
ora, dinanzi a questa lampada
gravida di luce orgogliosa e ancestrale,
lucido una per una,
come un orologiaio esperto e preciso,
queste note che portano il vestito
di un tempo che in me nacque
per lasciarsi intrappolare in melodie;
eccole, quarti, ottavi o metà,
crome che hanno ricoperto
con una ragnatela di miele,
l'indomabile guizzo dell'immensità;
eccole,
a farsi madri consolatrici
del rantolio lacrimante
di un padre di famiglia orfano di lavoro,
del clochard impegnato a ritagliarsi
il più perfetto buco del cartone,
per mandare alla stella da cui nacque
la sua dichiarazione di amore e fedeltà;
sì, odo anche il tuo fruscio
disarmonico e talora ipocrita,
sciabordare di piccoli centesimi,
che mi creava il cerchio di cristallo
di un esile tozzo di pane,
con cui frantumare i crampi dello stomaco;
eccomi, signore,
mi offro a te soltanto,
in estasi forse acerba
e forse illusoria di menestrello,
tu soltanto sai bene,
che le mie mani null'altro furono,
che fedeli esecutrici
dell'intarsio tra suono e dono;
ora capisco
che rileggerò tutte quelle note
nei contorni inafferrabili
del tuo abbagliante viso,
e sarà allora davvero,
che potrò dire d'aver scorto il paradiso.