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Racconti di Howard Phillips Lovecraft

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I ratti nel muro

Il 16 luglio 1923 mi trasferii ad Exham Priory dopo che l'ultimo artigiano aveva finito i suoi lavori. La restaurazione erastata un'impresa stra-ordinaria, perché dell'edificio era rimasto ben poco: un guscio vuoto e in rovina. Il luogo eradisabitato dai tempi di Giacomo I, quando una tragedia orribile e in gran parte misteriosa aveva colpito il signore delcasato, cinque figli e parecchi servi, e aveva indotto il terzo figlio, mio progenitore in linea diretta e unico sopravvissutodell'aborrita famiglia, a fuggire sotto l'ombra di atroci sospetti. Poiché l'unico erede legittimo era ritenuto un assassino, ibeni erano passati alla corona senza che il mio antenato facesse nessun tentativo di discolparsi o di tornare in possesso diquel che gli apparteneva. Sconvolto dall'orrore di qualcosa che andava oltre il rimorso e il timore della legge, pervaso daldesiderio di cancellare l'antico edificio dai suoi occhi e dalla memoria, Walter de la Poer, undicesimo barone di Exham, erafuggito in Virginia e lì aveva fondato la famiglia che nel secolo successivo avrebbe cambiato nome in Delapore. Ad Exham Priory non aveva abitato più nessuno, benché in seguito fosse stata annessa alle proprietà dei Norrys efosse diventata oggetto di studio per la sua architettura bizzarra e composita. I torrioni gotici poggiano su una strutturasassone o romanica e le fondamenta rivelano uno stile ancora più antico, o meglio un miscuglio di stili: romanico, druidicoe, se ci si può fidare di quel che dicono le leggende, addirittura cimbrico. A proposito delle fondamenta c'è da osservareun fatto strano: su un lato formano, tutt'uno con la solida parete di calcare che piomba a precipizio nella valle sottostante, una landa desolata che si stende cinque chilometri a ovest del villaggio di Anchester. Architetti e studiosi di antichitàhanno sempre amato questa reliquia dei tempi perduti, ma la gente delle campagne la detesta da secoli, quando i mieiantenati vivevano ancora a Exham; e ora che il mus

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Nyarlathotep

Nyarlathotep : il caos strisciante. Io sono l'ultimo, e parlerò al vuoto in ascolto.
Non ricordo quando la cosa ebbe inizio. Mesi or sono? Anni? So che a un periodo di sconvolgimenti politici e sociali s'andava aggiungendo la strana e cupa apprensione di un orrendo pericolo fisico; un pericolo diffuso che comprendeva tutto, un pericolo quale può essere immaginato solo nei più atroci incubi notturni. Ricordo che la gente si aggirava con facce pallide e preoccupate, sussurrando avvertimenti e profezie che nessuno osava poi consapevolmente ripetere o riconoscere di aver udito. Un mostruoso senso di colpa gravava sulle città della terra, e dagli abissi interstellari sembravano giungere fredde correnti che facevano rabbrividire chi si trovava in posti bui e solitari. Vi era una diabolica alterazione nel corso delle stagioni, e da noi un caldo autunno indugiava paurosamente, dando l'impressione che il mondo - forse l'universo - fosse sfuggito al controllo delle divinità note e delle forze conosciute.
Fu allora che un'incarnazione di Nyarlathotep uscì dall'Egitto. Chi fosse nessuno poteva dire, ma era del più antico sangue indigeno e aveva sembianze di faraone. I fellah si inginocchiavano al suo cospetto senza saperne il motivo. Diceva di essere emerso dal buio di ventisette secoli e di aver udito messaggi venuti da luoghi estranei al nostro pianeta. Olivastro, snello e sinistro, egli venne nei paesi della civiltà e, dove egli arrivava, la quiete svaniva e le ore notturne erano lacerate dagli urli degli incubi.
Ricordo quando giunse nella mia città, la grande, vecchia, terribile città dai crimini infiniti. Perdurava, innaturale, il caldissimo autunno e fu in quel caldo soffocante, con una grande moltitudine di gente inquieta, che io andai da lui. Camminammo, interminabilmente, nell'interminabile crepuscolo. Raggiungemmo l'altissimo edificio di pietra. Salimmo per scalinate senza fine. In alto, egli ci attendeva in una sala vuota. Lo guardammo, ma egli no

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Dagon

Scrivo queste note in una morsa d'angoscia e so che al termine della notte sarò finito. Senza un soldo e senza la droga che rende sopportabile la mia esistenza, non posso reggere oltre la tortura: mi butterò dalla finestra di questa soffitta. ma la mia dedizione alla morfina non deve farvi pensare che sia un debole o un degenerato; quando leggerete queste pagine, intuirete (anche se non riuscirete a comprendere del tutto) perché non mi restino che l'oblio o la morte.
Fu in una delle zone più aperte e meno frequentate del Pacifico che il piroscafo di cui ero sovrintendente cadde vittima dell'incrociatore tedesco. La grande guerra era all'inizio e le forze navali del nemico non avevano ancora ceduto completamente, come poi sarebbe avvenuto: la nostra nave venne catturata e noi dell'equipaggio fummo trattati con il rispetto e la considerazione dovuti ai prigionieri di guerra. Anzi, la disciplina dei nostri carcerieri era così blanda che dopo cinque giorni riuscii a fuggire da solo, in barca, con acqua e provviste per diverso tempo.
Finalmente libero e alla deriva, non avevo alcuna idea delle acque in cui mi trovavo. Non sono mai stato un provetto navigatore e dalla posizione del sole e delle stelle potei solo concludere che ero a sud dell'equatore. Ignoravo completamente la longitudine e non erano in vista né isole né tratti di costa. Il tempo si manteneva buono e per innumerevoli giorni avanzai senza meta sotto il sole feroce, aspettando di scorgere una nave o di essere scagliato sulle sponde di una terra abitabile. Ma non si vedevano né navi né terra, e nell'immensa solitudine del mare e del cielo cominciai a disperare.
Poi, mentre dormivo, avvenne il cambiamento. Non ne conoscerò mai i particolari, perché non mi svegliai dal mio sonno agitato e fitto di sogni. Quando riaprii gli occhi scoprii di essere mezzo sprofondato in una massa disgustosa di fango nero che s'estendeva intorno a me a perdita d'occhio, e in cui la mia barca si era arenata a qu

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