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I capelli dello sciamano

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I cinque elicotteri bielica sorvolavano la giungla del Guayate, accompagnati da una musica a tutto volume. Non era la Cavalcata delle Valchirie, ma “Tu amica tivù”, sigla del videoimpero del cavalier Banana. Per questa spettacolare incursione il cavaliere si era ispirato a un noto film, ma aveva scelto un brano adatto ai suoi uomini. I quali erano trentasei, tutti rasati a zero in camicia e bermuda bianchi, alcuni armati di telecamere, altri di mitra e fucili, altri ancora di champagne e astici surgelati, perché il cavalier Banana non rinunciava alla merenda neanche nelle situazioni più disagevoli.
E disagevole, nonché inospitale e misteriosa appariva la giungla sotto di loro, un immenso oceano clorofilliano ancora non ferito da disboscamenti e rasoiate autostradali. Molti anni prima una multinazionale aveva provato a attraversare il Guayate, costruendo una strada da Guayamàn a Guayalàs, ma liane, mangrovie e altri serpenti vegetali avevano ingoiato in pochi giorni asfalto, ruspe, e anche qualche capomastro e ingegnere, di cui furono ritrovati solo i vestiti, impiastrati di bava verde. Così diceva la leggenda. In verità, la giungla del Guayate era uno dei pochi posti ancora ignoti dell’arcinoto mondo. Il clima pestilenziale, quaranta gradi graveolenti di umidità, vi aveva allevato un inferno delle peggiori anomalie zoologiche e botaniche. Ragni grossi come granceole, insetti mimetici pronti all’agguato, rane volanti, pappagalli rostrati, persino un camaleonte con la lingua di dodici metri, che saettava dall’alto degli alberi introducendola in ogni orifizio incautamente esposto. E poi serpenti, uno più velenoso dell’altro, il Guayatrès, che uccideva in tre minuti, il Guayasprint, che uccideva in dieci secondi e il Gua, che uccideva di terrore al solo evocarne il nome. E che dire del serpente sacco-a-pelo, che di notte ingannava gli esploratori assonnati? E come non citare la scimmia sputatrice, il ratto degli scroti e il minicaimano da pozzanghera? In quanto alle piante, ricorderemo soltanto il muschio sabbia mobile, la liana thug e la pera meteora, che cadeva dal suo albero di sessanta metri con un dolce quintale di polpa.
Eppure in questo inferno, c’era chi viveva come in paradiso. Gli indios Guayafeliz, una tribù di duecento individui che non conoscevano né civiltà né new economy, e vivevano di pesca caccia e raccolto, fumando l’erba Mariaguaya e accoppiandosi in tutte le combinazioni consentite dal loro limitato numero.
E lo sciame di elicotteri si stava dirigendo proprio verso il villaggio indio, un elegante quartiere di capanne di fango in mezzo a una radura tra liane e baobab. Il motivo di quel viaggio era in un servizio che Canale Undici, una delle più note televisioni bananiche, aveva trasmesso la settimana prima, e che il cavaliere aveva visto dapprima con viva curiosità, poi con febbrile interesse e infine con indicibile speranza.
Il servizio era questo:

Eldorado
Un programma sugli ultimi luoghi inesplorati della terra presentato da Ramada, il fuoristrada che non ti porta mai fuori strada.

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