"Benissimo, può andare"
Letizia salutò la commissione e con la tesina sottobraccio abbandonò l'aula. Tutto finito. Per l'ultima volta uscì dal portone del liceo nei panni di un'alunna. Era una bella mattinata di inizio luglio e una qualunque diciottenne avrebbe sprizzato gioia da tutti i pori. Avrebbe finalmente potuto godersi il sole, il mare, le serate all'aperto... un nodo le strinse la gola. Non aveva nessuno con cui condividere tutto questo.
Era sempre stata una persona socievole, spontanea, allegra, piena di amici... la leader del gruppo, quella che tira su i morali, sdrammatizza, la classica ragazza "se cade il mondo io mi sposto un po' più in là". Ma quella storia con Edoardo l'aveva trasformata, era ridotta ad essere la buccia di se stessa.
Si erano conosciuti durante la gita scolastica a Napoli, in terza superiore. Edoardo stava andando nella camera dei suoi amici e per errore, bussò alla porta della camera di Letizia. Lei, convinta che fosse Gaia, la sua compagna di stanza, aprì fiduciosa. Era avvolta in un morbido asciugamano di spugna, aveva i capelli bagnati sciolti sulla schiena e le spalle imperlate di goccioline. Lui era rimasto senza parole. Come aveva fatto a non notarla prima? "Ho sbagliato stanza..." spiegò senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso "scusa"
"Non fa niente..." balbettò lei imbarazzatissima.
"Ci vediamo a cena. Ciao"
Letizia lo guardò allontanarsi, con il passo sicuro di chi sa di avere un fisico perfetto e un viso da angelo.
A cena le si sedette vicino e non si staccò più per il resto della gita. Tutte le ragazze la guardavano con invidia e facevano commenti maligni su Letizia. Lei non le sentiva, in ogni caso non le sarebbe importato. Passeggiava sempre accanto a Edoardo, lui ogni tanto la prendeva sottobraccio e la stringeva a sè. Si sentiva così lusingata che avesse scelto lei per passare il suo tempo, proprio lui, che al termine delle gite scolastiche si lasciava dietro una lung
ALLA CATENA
In una masseria della terra di Puglia campava un cane - un lupo dal pelo nero intenso - inchiodato ad una catena lunga tre o quattro metri, per tutte le stagioni : e al vento, e alla pioggia, e all’afa soffocante. Una ciotola davanti, d’acqua neppure limpida, e gli avanzi dei pasti dei suoi padroni ; a Natale e a Pasqua le ossa dell’agnello. Probabilmente nessuno si era premurato di dargli un nome, ma a che sarebbe servito? L’animale era nato quale cane da guardia, il brillare degli occhi, che ancora emettevano l’assoluta fierezza della sua razza, bastava a tenere alla larga i malintenzionati.
Anni su anni vissuti con quella catena come compagna avevano reso “ Senzanome “ - così lo chiameremo - cattivo. L’odio che ogni suo tratto sprigionava avvertiva che non era il caso di avvicinarsi, manco per scherzo, al suo angolo. Le oche e le galline del cortile, abituate da sempre all’abbaiare e credule di quanto tramanda il proverbio, subito avevano sperimentato di avere incontrato una eccezione, perciò il loro becchime lo cercavano altrove e avevano reso l’animale ancora più solo e ancora più feroce.
A Senzanome tenevano compagnia, certo! la luna, le stelle, il cielo, il sole, alti sopra il suo sguardo, altissimi, ma egli non poteva non spiare e non immaginare oltre la recinzione, di dove gli provenivano i rumori ed il chiasso dei contadini, di dove s’incamminavano i camion e gli aratri per un viale fra olivi che si smarrivano alla vista, e non gli era per niente di conforto intuire la presenza di altri cani e lo strusciare di mille gatti. L’unica consolazione gli derivava da una cuccia, ricavata fra carcasse d’auto e tirata su con pezzi di lamiere, nella quale si rifugiava nei momenti in cui percepiva più intensi i suoni della vita. Allora, là dentro, pur vergognandosi di sé stesso, si domandava perché mai fosse venuto al mondo e quali colpe dovesse espiare.
Forse neppure era più in grado di camminare ; la sua stes
Una volta assai più numerosi, ora meno frequenti, ma chi non ha mai visto quei chioschi in fregio alle strade di uscita dalle città, oppure ai lati di certe provinciali preferite dal traffico veicolare perché più sgombre di auto? Una baracca, con il tetto di lamiera, sovente coperto da un po' di paglia, un bancone ricoperto di alluminio, o più recentemente di plastica, come le quattro o cinque sedie messe lì alla rinfusa accanto a un tavolo di legno segnato dagli anni e dall'uso, una tinozza piena d'acqua con le angurie al fresco e, nella migliore delle ipotesi, un grande frigorifero con la porta a vetro ed in bella mostra delle fette rosse del frutto tipicamente estivo, oppure bene ordinate in un contenitore fra pezzi di ghiaccio che la calura va sciogliendo sempre più rapidamente: questa è una melonaia, annunciata lungo il nastro d'asfalto da cartelli scritti in un italiano spesso approssimativo, evidenziata nelle notti d'estate da una ghirlanda di luci multicolori.
Ce n'è una anche vicino a casa mia: è lì, come il suo proprietario, da quasi trentacinque anni. Si anima con i primi caldi e si chiude non appena le sere si rinfrescano. Dietro il bancone c'è Claudio, capelli bianchi che un tempo erano biondi, occhi chiari, il volto segnato dalle rughe, la voce che si è fatta roca per via di quei sigari che costituiscono al tempo stesso il suo vizio e il suo passatempo.
Di giorno apre i battenti verso le nove e la sera chiude quando non ci sono più avventori.
Lo conosco da quando ero ragazzino; è un po' più vecchio di me e non ha avuto una vita fortunata, perché il matrimonio si è rivelato un fallimento e l'unico figlio, che adorava letteralmente, una sera di novembre non è più tornato dal lavoro: a un incrocio, complice la nebbia, un autocarro gli si è parato davanti; inutile è stata la frenata e in quel fragore di lamiere contorte e vetri infranti con cui si è spenta quella giovine esistenza è iniziata per Claudio una lunga vita di solitu
Ero un'ordinata ombra grigia incamminata lungo una linea diritta, prima che Graziana una mattina di un certo Settembre (precisamente il 2004) mi proponesse una scorciatoia.
Ho sentito una voce di donna chiedere una cosa senza senso: "Come li fate qui i frappè al latte di mandorla?"
Mi sono girata e davanti a me ho trovato un volto d'estate ancora bollente, seminascosto da una quantità impensabile di capelli, sembravano ancora gonfi di salsedine. Solo più tardi ho capito che i capelli di Graziana sono proprio così. Sembrava più grande di me, una al quarto o quinto anno, ma poi ho realizzato che solo chi non ha mai vissuto a Torino potesse fare una domanda del genere. Dissi soltanto: "Al latte di mandorla... non li facciamo."
Il mio unico problema era completare il modulo di iscrizione matricole al Politecnico, appoggiarmi al tavolino distante due metri senza perdere il posto in fila, scrivere sorvegliando la borsa, con bella calligrafia, nascondere il viso al momento in cui avrei dovuto leccare la marca da bollo prima di attaccarla al foglio. Gli occhi dei ragazzi mi infastidivano: d'accordo che non c'era nient'altro di meglio da fare nell'attesa che si smaltisse la coda, però perchè dovevano guardare tutti me? Ero ridicola, ecco perchè, nel giro di tre minuti mi erano caduti per terra la fotocopia del diploma del liceo, la penna, senza accorgermene avevo abbandonato la borsa tra le braccia di uno sconosciuto per raccogliere i miei pezzi smarriti. Nel restituirmela quello aveva preteso gli dicessi il mio nome, da dove venivo, a che corso mi stessi iscrivendo.
"E come li fate?" Arrivò mentre trascrivevo il codice fiscale, riuscii a sbagliarlo.
"Dici... come facciamo i frappè?" Lei sorrise e fece di sì con la testa. Alcuni dei ragazzi avevano smesso di squadrare me e preso a farlo con lei.
"Non, non saprei..." Alla vaniglia, ai frutti di bosco e in molti altri modi, ma in quel momento non mi veniva in mente niente che non fosse il mio codice fisca
Stavamo realizzando i getti di completamento dei solai di copertura.
Il lavoro doveva essere eseguito in modo continuo ed era molto pesante. Si doveva lavorare a seguire, se necessario fino al tramonto del sole.
Le betoniere si avvicendavano e le pompe continuavano incessantemente a vomitare il calcestruzzo; gli operai con movimenti frenetici, sudati e trafelati, tenevano il ritmo, distribuendo e governando questo magma grigio con sapiente destrezza.
Tutto doveva essere perfetto... l'ingegnere aveva raccomandato tutti, ricordando che in alcun modo i getti delle travi portanti dovevano essere interrotti.
Ne andava dell'orgoglio degli operai fare bene.
Assisto ai getti sui solai, qualche schizzo di cemento mi ringhia di starmene lontano; parlo col capo dei carpentieri che impartisce gli ordini, perentori, secchi e brucianti.
Chiedo se l'impresa ha provveduto il pranzo per gli operai... (è questa la tradizione quando si ultima il solaio di copertura.)
Il capo dei carpentieri mi risponde che l'impresa non può farlo in quanto non ha la disponibilità economica.
È un uomo robusto, di bassa statura, abbronzato (in pieno inverno), ha un'aria mite che contrasta con l'autorità con la quale dirige i suoi uomini; fuma le
sue Marlboro infilandole in un bocchino che gli conferisce una inaspettata signorilità.
A tratti lo osservo e mi sembra un nostromo con l'equipaggio alle vele.
Naviga sicuro, calmo e determinato, conosce la rotta; osserva con gli occhi socchiusi, gustando nelle narici il maestrale gelido.
Comincia a piovere... penso: "Speriamo non continui, dovremo sospendere il lavoro."
" Ma... gli operai si sono portati il pranzo?"- domando
" No ingegnere, purtroppo non ci sono i soldi perché neppure io ho potuto pagarli; mangeranno questa sera, a cena, a casa loro."
Non mi sfugge una sottile nota di dignitosa tristezza nella risposta.
" Dannazione!", esclamo: "questo non è possibile!!"
Rifletto - " Stai perdendo il controllo,
Questa è la storia di come tre amici hanno capito di essere inseparabili. P è il primo, ma il meno brillante dei tre. Crede solo in una cosa: nell'amicizia; poi c'è L, il playboy del gruppo e quello anche più violento. Infine c'è F, il migliore nel mettere a rischio l'amicizia. Possiamo cominciare. Era novembre e P, come al solito, quel pomeriggio aveva lezioni di violino. F lo incontrò davanti all'edificio dove avrebbe suonato e gli chiese se, per caso, conosceva una certa G. Sfortunatamente P la conosceva. F decise di provarci, non ascoltando l'amico ( P ) che ripetutamente gli aveva detto che anche lui provava dei sentimenti nei confronti di G. F andò a segno e aprì una storia con G. Per F e P furono due settimane di tensione. P, che inizialmente decise di accettare la storia dell'amico, capì che purtroppo non ci riusciva. F, che vedeva P come un eroe che aveva messo in prima linea la felicità dell'amico, capì che doveva scegliere: o la sua ragazza o il suo migliore amico. F la lasciò ma P lo convinse, inghiottendo questo enorme macigno, a continuare a starci insieme. Una settimana dopo, inevitabilmente, la relazione di concluse definitivamente. F e P tornarono come prima. Ma chi aveva ragione? F? Che credeva che la cotta dell'amico fosse solo una sbandata passeggera? O P? Che vedeva F come un traditore? Non importa. erano tornati amici e F si promise che non avrebbe mai ricommesso un simile oltraggio ad un'amicizia. Trascorse un anno e due mesi senza problemi per i tre amici. Però a F era rimasto il ricordo di cosa aveva fatto l'anno prima e il periodo fra ottobre e novembre gli faceva un po' paura. Non successe nulla, fino a capodanno. F, P e L erano insieme per l'ultimo giorno dell'anno con altre cinque ragazze. C'era però G ( sempre una G ), il desiderio di L. Verso le undici e mezza andarono a pattinare ma G e altri due tornarono a casa mentre F, P, L e gli altri rimasero sul ghiaccio. Qui entrò in gioco B, ex ragazza di L che provava ancora q
[continua a leggere...]Una domenica d'inverno mi trovo ad Angiari. Poiché fa freddo decido di andare a scaldarmi, come al solito, davanti al camino dell'amico Egidio. Questo uomo fa il contadino e la mia amicizia con lui dura da molti anni.
In primavera trovo Egidio in campagna a seminare, o nel vigneto a potare le viti. In estate egli sta nell'orto a raccogliere pomodori. In autunno è nel vigneto a raccogliere l'uva e poi in stalla a pigiare, torchiare e mettere l'uva nelle botti. Io adoro vedere i lavori dei campi e mi piace aiutarlo un poco.
Durante i lunghi mesi invernali Egidio sta seduto accanto al camino a fumare la pipa. Molti amici suoi vanno là, e io mi siedo fra loro e mi diverto ad ascoltare le storie di una volta.
Ma questo pomeriggio la sua fattoria è chiusa. I vicini mi dicono che Egidio è all'ospedale e sta per morire.
Nella casa dei vicini, incontro molti amici di Egidio. Resto a parlare con loro e rimango sorpreso, terribilmente sorpreso.
Un vicino mi elenca i difetti del moribondo, le sue colpe vergognose, i vizi, le mancanze. Non c'è più stima né rispetto per lui.
Un amico di Egidio sparla di lui, lo critica e gli versa addosso cumuli di fango. Un altro mostra tutto il suo odio, il rancore represso, la gelosia, la rabbia, l'invidia.
Eppure io ho incontrato questi uomini quando frequentavano la fattoria. Sembravano tutti amici buoni e generosi. Adesso si rivelano quello che veramente erano: adulatori, ipocriti, falsi e opportunisti. Amici interessati che hanno comprato i favori leccando e adulando il fattore quando poteva dare.
Pochi giorni dopo Egidio muore e il giorno del suo funerale è grigio e gelido. Davanti alla chiesa, lungo il corteo e perfino in cimitero gli amici seguitano a sparlare sottovoce.
Erano amici perché era conveniente per loro, perché ricavavano vantaggi. Avevano gesti servili e parole ipocrite perché avevano timore o perché desideravano ricompense. Adesso che Egidio è morto, adesso che non serve più, gli amici si
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