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Racconti amore

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La fine era l'inizio: la laurea di Caterina

Il grande giorno era arrivato. Caterina era nervosa, aveva raggiunto il traguardo tanto sospirato: la laurea in legge, il sogno di una vita, ma il suo cuore era felice solo a metà. Perché? Perché non c'era Alberto a festeggiare con lei. Due anni prima si erano lasciati, lei era rimasta a Milano, ma aveva cambiato casa e quartiere, per non incontrarlo più. Era così Caterina: non sapeva perdonare, ma soprattutto non si perdonava tutto quello che era successo. Avrebbe voluto spiegargli ciò che l'aveva portata a chiudere quella storia, le sue insoddisfazioni di donna, che non si sentiva accettata per come era, le continue litigate, ma anche gli abbracci intensi che entrambi erano capaci di darsi dopo ogni sfuriata. Aveva saputo che Alberto aveva una ragazza, forse più di una, perché Alberto era così: un ragazzo non carino, che, tuttavia, si credeva Alain Delon. Ma a Caterina Alberto piaceva anche per quell'aspetto ridicolo del suo carattere, sebbene fosse infastidita dai commenti poco garbati che lui non perdeva occasione di fare, anche in sua presenza, ad oche giulive della sua compagnia. Era ancora innamorata di Alberto, da quel Capodanno, perché sapeva che poteva essere l'esatta metà della sua mela, anche se non era mai stata sicura dei sentimenti di lui nei suoi confronti. Così, nei giorni che precedettero la sua laurea, torturò le amiche di sempre, se fosse il caso di invitarlo. Come al solito, nonostante i consigli, lei decise di non farlo. Non l'aveva perdonato, ma, soprattutto, aveva paura di rivederlo e di riprovare forti emozioni. Si presentò davanti alla commissione, festeggiò con i genitori, con gli amici ed i compagni di corso. Era Dottoressa. La sera trovò il tempo di sciogliere quel masso di pianto che aveva dentro, ripetendosi che era sola. Iniziava per lei una nuova vita. Per anni ripensò a quel giorno, al sorriso orgoglioso dei suoi, agli abbracci degli amici, alle parole di conforto di Bianca, la sua migliore amica. Seppe qualche

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Colpi di fulmini

“Che noia girare in elicottero”. Pensò Gloria mentre sorvolava la spiaggia di Sabaudia con il piccolo elicottero di suo fratello. “Guarda quello coi capelli Rasta vicino al catamarano, - continuò a pensare guardando in giù - quello si che deve fare una vita interessante, libera, semplice, priva di condizionamenti…”
- Dove vuoi atterrare? ?" Le chiese il fratello.
- Puoi scaricarmi vicino alla spiaggia? Mi faccio un bel bagno, poi me ne torno in Taxi.
Gloria, vestita con un perizoma, un pareo, un fermacapelli di tartaruga e degli zoccoli di legno, prese il suo zainetto, dove c’era una felpa, i soldi ed il telefonino, e si incamminò verso la spiaggia, con il progetto di fare amicizia con quel bel tipo Rasta. Dall’alto sembrava carino, ma avrebbe dovuto esaminare i particolari, tipo l’acne, l’igiene, il modo di parlare…chissà, forse era uno straniero, un sudamericano, un francese, magari, si, un bel francese. La sua migliore amica le aveva assicurato che i ragazzi francesi sono i migliori in assoluto, per quello che riguarda la personalità e lo spirito avventuroso, naturalmente, perché per il sesso, lì bisogna vedere caso per caso, non c’è nazionalità. Gloria marciava verso la sua destinazione sicura dell’imminente ennesimo successo: nessun maschio poteva resisterle.
Il ragazzo Rasta in realtà, non era straniero, era italianissimo e si chiamava Simone. Si era trasferito su quella spiaggia da un mese. Dormiva in tenda e durante il giorno noleggiava il suo piccolo catamarano. Gli affari andavano abbastanza bene, anche se quella era stata una giornata proprio da dimenticare perchè nonostante il tempo bellissimo, l’affluenza di bagnanti si era rivelata inferiore alle attese. Era stanco, frustrato, provato fisicamente per il gran caldo che non aveva dato tregua per tutto il giorno e per il sole che anche in quel momento, nonostante mancassero un paio d’ore al tramonto, continuava a bruciare la pelle senza pietà. Un po’ per la

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Il ritrovo di un amore

Le giornate andavano avanti. Il sole del mattino mi consolava, il buio della notte mi rilassava. Il fuoco che ardeva nel camino tutti i santi giorni di freddo che dovevo sopportare, mi diceva che avrei superato quel momento, che sarei tornata a vivere la mia vita senza la solitudine che da più di un anno mi affiancava costantemente. No alla fine mi davo una risposta non c'è l'avrei fatta a superare quel momento. Da quando lui se ne era andato ero sprofondata in un abisso e temevo di non riemergere più. Lo avevo tanto amato e tanto ancora l'amavo... ma lui non c'era, forse non ci sarebbe stato mai più. Ci eravamo lasciati per chissà quale motivo, di quelle storie che a volte prendono quella brutta piega.. fatta di continui litigi.. parole incomprese.. sguardi assenti. Ultimamente non ci capivamo più e addirittura ero giunta a pensare che avesse un amante. Troppe incomprensioni, avevano portato a tanti litigi fino alla perdita della nostra fiducia che avevamo cresciuto insieme con tanta cura.. il nostro era un rapporto che non doveva aver fine, ci ripetevamo sempre, invece da più di un anno non avevo più sue notizie come lui non le aveva delle mie. Lo avevo lasciato lì su due piedi, davanti la soglia della porta, mi fissava con quei occhi che ogni notte mi ritrovo davanti e che durante il giorno cerco fra la gente. Mi ero trasferita nella casa dei miei genitori, che ormai da tre anni non c'erano più. Avevo lasciato la casa in affitto che distava di un chilometro dalla casa di Alberto per essere più tranquilla. Per evitare di non incontrarlo più avevo scelto la meta più lontana a cui potevo mirare, tenendo sempre in considerazione il fatto che dovevo continuare a lavorare se volevo mantenermi da sola. Avevo trovato impiego in un negozio di alta moda e ottocentocinquanta euro al mese mi facevano più che comodo. Sapevo gestirli bene.
Quel mattino mi ero portata la sciarpa di lana che intorno al collo mi confortava dal freddo che faceva gelare i miei p

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Tutto con un sms

“1 nuovo messaggio” è la scritta apparsa sul mio cellulare, quel telefono che ho ormai da tre anni, un po’ ammaccato e con qualche tasto poco funzionante. Quel telefonino che aveva visto e risposto ai messaggi più strani, più stupidi, ma anche quelli più importanti, ma mai mi sarei aspettata di leggere ancora quel nome. Lo spengo, voglio metterlo via, non lo leggerò, eppure il mio dito va a riaccenderlo, quel nome è ancora li, in cima a quell’sms così lungo, li scrivevi sempre così tu, messaggi chilometrici che passavo ore e ore a rileggere. Che faccio? Lo leggo? Sono due anni che non ti fai più sentire, tante volte mi sono chiesta il perché, il motivo che ti aveva spinto ad escludermi così dalla tua vita, dal tuo cuore.
E senza preavviso i ricordi cominciano a riaffiorare nella mia mente, prima come immagini sfocate, poi, sempre più nitidi, mi stupisco di non opporre alcuna resistenza a quell’onda di emozioni e sentimenti che avevo riposto in un cassetto polveroso, in un angolo del mio cuore, e che ora torna a bagnarmi gli occhi.
Ci eravamo conosciuti al campo estivo, ricordi? Tu eri il mio animatore, sono bastati tre giorni perché mi rubassi il cuore, tre come le parole che mi sussurrassi quando dovetti andarmene, quella frase che nessun altro prima d’ora aveva mai pronunciato con tanta sincerità e armonia, Ti Voglio Bene. E da li sono stata tua, quei tuoi ragionamenti così complicati, quella tua musica così soave e armoniosa, quel tuo sorriso così sincero, e quei tuoi occhi, che sapevano farmi giocare con le stelle. Come una piccola bimba sperduta pendevo dalle tue labbra, e tu raccoglievi i miei dubbi e le mie domande, e ne davi sempre una risposta, con te sono cresciuta, dentro e fuori.
E poi, quel fatidico giorno, quel magico momento in cui, sotto casa tua, mi prendesti la mano. Ricordi? Stavamo sempre li a parlare, come due piccioncini innamorati, anche se non lo eravamo. Mi guardasti negli occhi, nelle mie iridi castane, e l

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   8 commenti     di: Anna Bona


Sul treno

Tanto valeva la pena farsi coraggio e salire, si guardò indietro e pensò all'acqua cristallina che si era lasciato alle spalle e ai giorni felici ormai lontanissimi.
Il vagone del treno ero buio e vetusto, si sedette nell'unico vagone dove le chiacchere non erano sparate a decibel esagerati, prese un libro dalla borsa e si fermò a pensare a quante trame di libri che aveva letto da giovane riusciva a ricordarsi ancora.
Dove era seduto non era di certo come la sua poltrona preferita nella casa delle vacanze estive, un luogo paradisiaco e utopistico nel suo essere così un'oasi di tranquillità.
"Mi scusi è libero quel posto?"
Rimase un attimo interdetto di fronte a quella donna, vestiva d'alta classe come se fosse appena uscita da un set pubblicitario e la sua bionda chioma era una splendida cornice per un viso leggiadro come il suo.
La riconobbe subito nonostante lei ignorasse chi fosse lui, quella persona era la sua vicina di casa quando andava al mare, era una giovane che si diceva essere una vera macchina da soldi sul lavoro e infatti non dormiva quasi mai nella sua abitazione e si vedeva di rado.
"Prego, è libero si accomodi."
Si sedette in maniera goffa, il vestito non era solo un'opera d'arte ma era anche parecchio ingombrante e poteva rendere ridicola anche la dama più elegante, appena trovata la posizione più comoda tirò un respiro di sollievo.
Lui ricacciò il naso nel libro, colonne e colonne di parole senza senso, la sua mente vagava in fantasie via via sempre meno caste e sempre meno adatte ad un luogo pubblico.
Non era da lui quello che stava capitando nel suo animo, quel battito impazzito del cuore e quel desiderio animalesco erano i sentimenti di un altro ne era consapevole.
Si alzò ben attento a recitare per bene il ruolo della persona tranquilla e a capo chino senza guardarla negli occhi si accinse ad uscire dallo scompartimento.
Percorse il corridoio con passo svelto e celere al bagno, dove ricomporsi si diceva tra sè e sè, men

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   1 commenti     di: Riccardo Dosso


Una frazione di secondo

Qualcuno bussò alla porta della classe, proprio mentre la professoressa annunciava i nomi degli interrogati.
- Avanti!-
Un ragazzo alto e snello, ma non troppo sottile, con corti capelli castani e occhi scuri si affacciò nella stanza. Con un sorriso travolgente, espressione da conquistatore attivata, ben impressa sul volto, si rivolse alla professoressa, col chiaro intento di farla capitolare al suo fascino.
- Buongiorno Prof. Potrebbe uscire Monica Delenti? Il professore di matematica dovrebbe comunicarle delle informazioni per il compito di recupero... Non ci vorrà molto, in ogni caso.-
Il suo tono di voce basso e dolce era quello abituale, ma sortiva sempre l'effetto desiderato. Tutte le ragazze della classe lo osservavano con gli occhi appannati dall'ammirazione e anche la professoressa era rimasta momentaneamente confusa da quella "visione celestiale".
- Sì... sì, certo... Tutto bene Daniele? Come procedono gli studi?- chiese la docente, con un sorriso accattivante. Assurdo! Una donna di quell'età che ci provava con un diciottenne! Speranze di qualcosa di proibito, desideri sopiti di una signora che ormai di giovane non aveva più nemmeno la voce. Eppure era lì, a guardarlo e a sorridere come la più consumata delle attrici, delle conquistatrici. Daniele sorrise educato. Assurdo.
- Tutto bene signora Goffoli, anche se sono molto impegnato per fare in modo di passare questo esame. La maturità è un bel traguardo. -
La donna annuì, continuando a fissarlo stordita. Era un bel ragazzo, innegabile, molto sopra la media sia in fatto di fisicità sia di mentalità. Un colpetto di tosse non identificato la riportò alla realtà e la donna fece cenno alla ragazza richiesta, Monica, di alzarsi.
- Vai, ma non trattenerti molto. Dobbiamo iniziare a spiegare Verga. -
La fanciulla, di media statura, con corti capelli neri e occhi azzurrissimi, si avviò alla porta, mentre le sue compagne le scoccavano occhiate di intesa e sorrisetti malcelati.
Daniele chiu

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   4 commenti     di: *Sunflower*


In ascolto

Quel giorno l’avrebbe rivista. Finalmente. La notte era appena trascorsa turbolenta, piena di sospiri angosciosi, di sogni profondi e terribili, di un irriverente sudore che imperlava il buio dei sentimenti sempre vivi e forti, ma ormai incupiti, svuotati da un senso di vertigine che si affacciava inesorabilmente ogni volta che pensava a lei.
La signorina Hunnigan gli aveva dato le indicazioni che, per fortuna, si erano rivelate corrette. Quella simpatica vecchina, ormai sola al mondo, aveva preso a cuore le sue tormentate riflessioni, i suoi silenzi, i suoi sguardi persi nel nulla. Sì, aveva deciso, lo avrebbe aiutato a rivivere delicati momenti che ormai solamente la memoria gli consentiva di riassaporare.
Ne riconobbe la calligrafia tremolante, le parole incerte che ombravano quel pezzo di carta ingiallito e sgualcito, lasciato sul comodino della sua camera. “Museo Nazionale, ore 9. 30, sala 11, sarà lì. Buona fortuna”. Era tutto ciò che la signorina Hunnigan era riuscita a scrivere. Le mani tremanti e lo sguardo ormai spento non le avrebbero consentito di potersi dilungare in ulteriori informazioni. Ma lui sapeva che, in fondo, non ne aveva bisogno. Quelle poche parole avrebbero potuto donargli un anelito di speranza, un profondo, meraviglioso tuffo al cuore, una lacrima di gioia che, forse, avrebbe finalmente sostituito quelle versate in gran quantità per l’ingiusto dolore della solitudine.

C’era il sole. Quel giorno, nonostante le nefaste previsioni metereologiche, un globo luminoso campeggiava tra le sparute nuvole che, timidamente, tentavano senza fortuna di celarne i raggi i quali, prepotentemente, proteggevano il mondo sorridendo.
Anche lui, finalmente, sorrideva. Ne aveva il diritto.
Di buon mattino, si preparò allegramente; l’abito migliore, la cravatta alla moda, le scarpe più eleganti. Non poteva sfigurare. Chissà come, ma gli sembrò che anche la radio trasmettesse le musiche più melodiose ed accattivanti, di quelle che fa

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