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Racconti autobiografici

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Ho incontrato un randagio

Pochi giorni fa stavo guidando verso casa, e questo è già un evento che ha del miracoloso, perché come è proverbialmente noto tra le mie conoscenze, odio i motori. Ma non è della mia avversione verso le quattro ruote di cui voglio parlare.
L'evento che ha catturato la mia attenzione in quel abitudinario tragitto di strada è stato vedere un cane che costeggiava la strada. Voi direte: e che c'è di strano? In questo periodo estivo, è comune vedere, nonostante tutte le pubblicità progresso e le leggi inasprite, qualche cane abbandonato vagare in cerca della sua nuova fortuna.
Non era un cane come gli altri, era un cucciolo nero, piccolo battuffolo d'ebano arruffato.
Non potevo lasciarlo lì, un 'innocente creatura sfortunata e lasciando sopraffare il mio spirito (sopito )materno e da fottuta croce-rossina, ho fermato la macchina qualche metro più in là.
Invano raccontare che le mie buone intenzioni non sono state capite dal cagnolino traumatizzato ed il muro della sua sfiducia verso gli uomini si è posto tra noi in maniera prepotente e vincente: al primo richiamo ed ai miei primi passi verso di lui, questo ha risposto fuggendo a più non posso nascondendosi dietro alcuni cespugli chissà dove... A questa reazione mi sono re-incarnata nelle vesti dell'Ilenia di tutti i giorni, spogliandomi da quelle di angelica beneffatrice a caccia di una buona azione quotidiana, e non ho potuto contenere qualche colorita esclamazione... Sono allora tornata a casa, indubbiamente dispiaciuta ma con una riflessione in più:quando un soggetto A ha bisogno di aiuto ed un altro B glielo offre la buona uscita dell'operazione non dipende solo se B ha le competenze adatte, o le qualità per interagire con A ;importante è la predisposizione di A, cioè se accetta e comprende la necessità dell'aiuto altrui o se per altri motivi, qualunque essi siano( orgoglio, paura, delusione, sfiducia...), la nega.
È davvero un concetto elementare di psicologia spicciola, ma provarl

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Il giorno in cui scavalcammo il recinto -part1/2

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Erano giorni che l'altalena si era fracassata sul terreno ed era sul punto di marcire, ma c'era sempre l'onnipotente scivolo dalla lunga e calda lingua luccicante, pronto a leccare i nostri culetti ancora vergini.
Non c'era consentito scavalcare il grosso recinto in metallo arrugginito che ci avvolgeva nel maternoso grembo della piazza, i nostri genitori ce lo avevano categoricamente impedito.
Se ne stavano li, a fumare ricordi tra loro persi nel vento e lavori fulltime e corna e silenzi rinchiusi nella loro alcova d'amoroso odio.
Sentivamo l'infanzia come un bene prezioso da custodire gelosamente quando notavamo, negli occhi dei nostri genitori, l'illusoria utopia della vita e del suo crescere.
Ma mio nonno con la sua profonda voce e le sue vecchie mani da libraio storico, in una magica notte resa tale da una semplice luce di un abajur, mi raccontò che in quella stessa piazza si nascondeva un tesoro. Non mi spiegò esattamente di che tipo di tesoro si trattava, ne tantomeno il punto preciso dove poteva essere nascosto ma il tesoro c'era, e di questo ne eravamo tutti d'accordo.

"SCAVALCARE IL RECINTO? TU SEI PAZZO VASCO" ripeteva Giuseppe incerto.

Vedevo nel suo volto i segni dell'agghiacciante terrore verso l'ignoto.

"È UN IDEA GRANDIOSA" dissero in coro Lapo e Renzo.

Mi voltai verso Guido, quest'ultimo, dopo qualche istante di titubanza, acconsenti annuendo.

"Bene! Quattro contro uno! la decisione è presa" dissi "SCAVALCHIAMO IL RECINTO"

E cosi fu.

   4 commenti     di: STEFANO ROSSI


In confidenza

molte volte le poesie che scrivo non corrispondono alla realtà che vivo. Spesso mi capita che dei conoscenti, mi narrino le loro esperienze. Essendo una persona disponibile all'ascolto pronta a dire sempre quando occorre una parola di conforto, accade che le loro sensazioni, toccandomi l'animo, diventano per me fonte di ispirazione per scrivere. Pur ringraziando gli amici del sito che sempre mi incoraggiano quando pensano che io viva quella sofferenza che ho scritto, ciò un po mi infastidisce... la poesia non può essere sempre scritta in base alla propria, personale vita, ma deve accogliere il concetto di universalità, traendo ispirazione anche dalla vita reale, quotidiana, dalle persone, dai fatti, dal mondo etc etc.



Buonanotte alla mia Madame Bovary, a te, a me

Forse è così che dobbiamo viverci: lontani.
Tu in una fredda e lontana e bella e fertile città del nord.
Io nella tua madre terra, arida e deserta, che ormai si è abituata ai tuoi, sempre più frequenti, addii.
Io no, non riesco ad abituarmici. Forse perché non ci siamo neanche detti " ciao", un semplice a fior di labbra saluto innocuo, e pure, così grondante di chissà quali ignote ( e da me sognate) conseguenze! Come faccio a lasciarti se non ti ho mai avuto?
E pure mi trovo a parlare di te. Tu che non sai nemmeno come mi chiamo, chi sono, cosa faccio. Io di te invece so tutto: brutta cosa spiare la vita altrui da un profilo virtuale sotto mentite spoglie. Spero mi perdonerai...
So, ad esempio, che c'è qualcosa tra noi, che non si può spiegare. Rileggendo questa ultima frase, non nascondo, che mi meraviglio di me stessa e non mi piaccio. È una tipica frase da ragazzina quindicenne alla prima cotta, o da cantautore stile Pausini o Antonacci o D'Alessio. Con te non posso esser scesa così in basso!
Ora recupero, dammi il tempo di una riga e giuro che recupero!
Da circa un anno ospitiamo una cagnolina randagia. È diventata la cocca di mia madre, la sua ombra, e non esce mai dal giardino, forse perché è tale la sua paura di essere abbandonata un'altra volta da schiacciare la sua natura curiosa e girovaga. In questo arco di tempo tuttavia ha ricevuto delle visite da cani di passaggio. Sia ben chiaro incontri privi di qualsiasi finalità procreativa dato che la bestiolina è stata sterilizzata.
Dal momento che faccio come lavoro a tempo pieno la spettatrice della vita altrui, in forma virtuale o reale che sia, non potevo perdermi lo spettacolo offerto da i comportamenti della mia amica a quattro zampe e dei suoi nuovi amici. Ebbene lei ha sempre dimostrato una certa simpatia per un pitbull a macchie nere, un cane del tutto innocuo e per esser cattivi anche un po' stupido. Ho pensato, sarà per la prestanza fisica. Ed in effetti questo cane,

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La storia dell'occhio di vetro

Per noi bambini era molto naturale che la nonna avesse un occhio di vetro. Se si abituano i bambini a convivere con un fatto un poco strano o con una persona un po' particolare, essi, con il tempo, riterranno il fatto e la persona davvero normali, e non ci faranno più caso.
Questo è il presupposto della storia che ora narro e che riguarda quest'occhio di vetro.
In giovane età, la mia nonna materna - la stessa per intenderci delle creme, di cui ho scritto in un mio precedente racconto- era stata sottoposta ad un intervento chirurgico, per il quale era stato necessario e ineluttabile estrarle il bulbo oculare sinistro.
Il fatto risaliva agli anni '40. Con il tempo, la povera donna s'era abituata a collocare nell'orbita vuota un occhio in vetro sottilissimo, uguale in tutto e per tutto al fratello gemello. La protesi aveva un'iride e una pupilla del tutto identiche a quelle dell'occhio sano e, tranne che per una evidente fissità dello sguardo, un osservatore attento non avrebbe potuto dedurre altro.
Poiché la nonna era alquanto maldestra e " malanòsa" , ossia propensa a fare malanni e a rompere oggetti per disattenzione ( così come entrare con i piedi nella crema...) , di questi occhi finti ella ne aveva rotti diversi, soprattutto la sera quando, prima di andare a letto, sfilava l'occhio di vetro per riporlo in un bicchiere d'acqua sterilizzata che teneva sul comò.
La nonna dormiva senza quell'occhio, ma al mattino lo doveva rimettere al proprio posto.
Era proprio durante questa operazione di collocazione oculare, che l'occhio le scivolava di mano e si riduceva in mille schegge, frantumandosi al suolo.
La cosa era seccante perché l'occhio finto era molto costoso e non se ne trovava facilmente in commercio proprio di quello stesso preciso colore; bisognava ordinarlo presso un ottico, e nel frattempo alla nonna toccava mettere degli occhiali neri alla Ray Charles che a noi bambini impressionavano

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Gita scolastica

Frequentavo il terzo magistrale e si avvicinava la fine delle lezioni.
Ogni anno, come è usanza ancora in essere nelle scuole, i professori, valutando l'importanza e la formazione che ne deriva, organizzano una gita scegliendo mete artistiche o archeologiche o più raramente per semplice diporto.
Quell'anno ne venne programmata una per la fine del mese di maggio ad Ischia, isola dell'arcipelago campano sorella minore della più famosa Capri.
Con me e le mie compagne del 3° D erano pronti a partire i ragazzi di altre sezioni del nostro istituto con i quali avevamo in comune qualche docente tra quelli a cui veniva attribuito un valore minore, non legato alla loro capacità o preparazione, ma alla materia insegnata.
Come ad un professore d'italiano sicuramente in una scala da uno a dieci viene assegnato un dieci di certo ad un professore di fisica (educazione fisica!) si darà al massimo un sei.
C'era tra i ragazzi che avevano aderito alla gita anche la mia amica Paola cosa che dava all'evento un'aria più allettante. Condividere il divertimento con gli amici è già un divertimento, così ho sempre pensato e oggi, a sessant'anni, non ho ancora cambiato idea.
E deve essere una verità sacrosanta perché io della gita ricordo ben poco e quel poco sono i momenti vissuti con Paola.
Non avevamo occhi che per i ragazzi delle altre sezioni che avevano il pregio di piacerci e di cui parlavamo sottovoce giù, affondate nelle poltrone, in fondo al pullman.
Il panorama? Chi l'ha visto?
A Napoli so di essere salita sul traghetto ma solo perché conservo una magnifica foto che mi vede ripresa su una panchina bianca di metallo sistemata come le altre in file ordinate su un ponte di quel gran barcone che ci stava portando a largo, verso la nostra meta.
Forse neanche i professori avevano saputo dare interesse agli obiettivi proposti e non so se fu questa le causa o più verosimilmente per altre già accennate, fatto sta che nella memoria, tra i pochissimi ricordi c'

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   1 commenti     di: patrizia chini


Danni collaterali

"Svegliati, è per te..." Mi disse mia madre.
Andai al telefono.
"Buongiorno, ci sarebbe l'incarico per una supplenza di un giorno, alle scuole Razzauti, in via Basilicata, per la sostituzione dell'insegnante di Inglese."

Accettai, anche se l'inglese l'ho sempre trovato ostico. Si trattava comunque di una scuola elementare, via, me la sarei cavata!
Si trattava di fare un'ora d'inglese a diverse classi delle elementari, sarei stato lo specialista insomma. Era la legge del contrappasso. Io che pensavo che la Neda Rossi, insegnante alle superiori, avesse avuto ragione quando mi disse:
"... Ma oh, si vive anche senza sapere l'inglese, eh..." chiosando la fine del mio patimento scolastico nel liceo scientifico "Cecioni".

Purtroppo anche all'università, invece, c'era stato l'esame di lingua inglese, ed era passato non senza preoccupazioni. Ora arrivava la supplenza che tornava a smentire la profezia; che l'inglese servisse davvero?

Parto, col mio bravino blu notte, alla volta delle scuole, puntuale, alla seconda ora dei bambini. Il fatto di fare una sola ora per ogni classe è in un certo senso positivo, ottimizzando, diciamo, l'effetto sorpresa, mi mantengo meglio nel ruolo d'insegnante, senza che i bambini prendano confidenza. Vado per tentativi sul cosa farli fare. Sento come si chiamano, ma non ho la necessità di fare appello, perché le presenze le prendevano alla prima ora le insegnanti che li accompagnavano nell'"Aula di Inglese".
Peccato, qualche minuto se ne sarebbe andato così, invece c'è da impiegarlo inventandosi qualcosa.

Mi oriento sui numeri. Inizialmente li scrivo in lettere chiedendo alla classe la traduzione, poi, visto che su alcuni ho anche dei dubbi, le comincio a scrivere volutamente sbagliati, cosa che mi riesce benissimo, chiedendo a tutti di correggere i miei errori.
Questa tecnica paga con i bambini più piccoli. Per i più grandi c'è la tombola in inglese che mi dicono che a volte fanno con l'insegnante vera.
Per allonta

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