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Racconti autobiografici

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Storia di un gatto

Ci sono anime che compaiono nella nostra vita in modo del tutto casuale, ma riescono a lasciare un impronta importante se solo abbiamo il coraggio di accoglierle. Cercavo un gatto, in vita mia ricordo pochi momenti in cui sono vissuta senza un piccolo felino vicino, ogni volta non ero stata in grado di sceglierlo, mi capitavano davanti senza che potessi dire di no e fu cosi anche in questo caso. Mi venne portato in uno scatolone, strappato alla strada e a morte certa, quando lo osservai mi guardò spaventato e si ritrasse nel buio del suo angolo, un esserino minuscolo, denutrito, sporco, infestato da pulci, zecche e ascaridi ma con due occhi grandi e luminosi verde acqua come solo i gatti sanno avere. Questa volta avevo sperato di trovare un bel gatto nero, come una piccola pantera domestica, in ricordo di un altro micione a cui ero stata particolarmente legata, ma come potevo dire di no di fronte a questo grido di aiuto? Con delicatezza lo estrassi dalla scatola, era una piuma, aveva il ventre gonfio e vuoto, lo misi per terra e parlando in tono dolce cercai di abituarlo alla mia presenza mentre scaldavo un po' di latte, si rifugiò subito sotto una poltrona ma la fame era tanta e non ci mise molto ad uscire dal suo nascondiglio, bastò allontanarmi di qualche passo per vederlo timidamente riemergere e puntare guardingo alla ciotola invitante, intanto continuavo a parlargli quasi in un sussurro, era tutto nuovo per lui, le pareti, i mobili, gli odori e io, si vedeva che non si fidava degli umani. Frugai nel frigo in cerca di qualche bocconcino che gli misi davanti ma restando a distanza, divorò anche questi e infine si ritirò nel suo nuovo nido: la solita poltrona sotto cui si sentiva un poco più sicuro. Lo lasciai fare e intanto preparai la vaschetta con la sabbia consapevole che i cuccioli hanno dopo mangiato il bisogno impellente di fare i bisognini, a questo punto dovevo tirarlo fuori, un ulteriore boccone servi allo scopo, lo raccolsi delicatamente e lo pos

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   7 commenti     di: gina


Due novembre

Lo ricordo come una festa
Si andava a Pianventena con la cinquecento gialla di mia madre, una maglia di lana ed il fumo che usciva dalla bocca giocare e fingere di essere un camino, le guance rosse e fuori dal finestrino i quadri che autunno aveva dipinto. Con la bocca sporca di marmellata di fichi e di more aveva intinto il pennello nel colore e rubato gli acquerelli ad un cielo, in quei momenti avrei voluto essere un pittore.
Dietro ogni curva un disegno d'autunno, fuori da quel piccolo abitacolo che conteneva la felicità e canzoni... non era triste novembre, cominciava già a spargere la nebbia qua e là e i campi diventavano distese da cui spuntavano le mani degli alberi quasi spogli e l'arancione acceso dei cachi che qualcuno aveva mandato per fare colore, aspettavano che anche l'ultima foglia fosse andata via per dare inizio a quel banchetto di crema che si scioglieva in bocca e nel palato e alla fine una piccola linguetta viscida che ho sempre pensato fosse il loro cuore, prezioso non si sprecava niente, gustoso come un gelato, da mangiare con le mani o con il cucchiaino.
Eccole le prime case in quella pianura romagnola, le staccionate, i giardini guardare la strada e la nostra corsa, eccolo bianco con un cancello di ferro nero... il cimitero.
Solo entrando là la festa finiva, mia madre ci diceva di non parlare e di camminare in punta di piedi fra visi che ci guardavano dalle foto passare e mi colpivano i bambini e i neonati e una statua di ferro sopra una tomba che cercava in vano di strappare quelle catene, il viso di mio nonno che non avevo conosciuto, una spugna per pulire e un mazzo di fiori e un brivido di vento che ci portava fuori.

   1 commenti     di: laura marchetti


E quale sarebbe la direzione?

Aveva ancora duecento chilometri di rotaie davanti a sé.
Camminando separatamente su l'una o sull'altra due persone avrebbero potuto scegliere di essere eternamente vicine e esponenzialmente distanti. Senza una destinazione.
Ma i treni hanno una destinazione. "Se un treno non ha una città in cui arrivare è un treno che non ha senso". E un giorno salì sul treno con quella incrollabile certezza: sapere dove andare. Come se il desino le avesse fissato un appuntamento proprio là, al capolinea. Se lo immaginava sulla banchina a braccia conserte, a scrutare ogni volto.
Si sedette volutamente contraria al senso di marcia. Volutamente, ostinatamente contraria. Vide il mondo abbandonarla. Lo vide allontanarsi nei cartelli delle stazioni, negli alberi già precocemente tinti di rosso per l'estate arida, avara di piogge.
In fondo quel treno non era altro che una biglia di lamiere schizzata da una stazione.
Da una stazione ad un'altra.
Duecento chilometri più in là.
Osservando terra e cielo correre via da lei sentì che quel movimento del mondo le apparteneva da sempre. La mente rivolta al passato, lo sguardo si fermava su un istante che da presente scivolava nel passato e lei ferma. Ferma lì. Senza curarsi delle immagini successive, incondizionatamente assorta in quel mai più che era già scorso via per sempre. Ma lei lo teneva agganciato. Con gli occhi. Ferma lì. Agganciava il tempo come agganciava le persone. E qualora queste talvolta continuassero su un binario diverso dal suo, lei si bloccava a guardarle. Ferma lì a scongiurarle con gli occhi di non uscire dalla propria vita.
E il tramonto esce dalla sua visuale.
Scompare a sinistra del suo finestrino.
Scompare sotto l'orizzonte.
Alla stazione non incontrò nessuno. Tanto meno il proprio destino. Se lo immaginava sulla banchina a braccia conserte, a scrutare ogni volto. Nessuno scrutò il suo volto. E lei fece altrettanto.

Aveva ancora duecento chilometri di rotaie davanti

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   2 commenti     di: Silvia Zordan


Ahi che diarrea!

Nella mia formazione Universitaria in Italia e soprattutto post Universitaria, specialistica, nell'ambito dell'anestesia, ho imparato a riconoscere e curare la disidratazione, in pratica a correggere la perdita di fluidi corporei come sangue, sudorazione, siero nelle ustioni, vomito e diarrea.
Durante i corsi di medicina tropicale, presso il CUAMM di Padova, prima di partire come medico per l'Africa, era stato dedicato molto tempo delle lezioni alla cura della diarrea. Mi avevano molto affascinato l'approccio, la metodologia per la diagnosi di gravità e la cura di quest’affezione che, oltre ad essere il principale sintomo di tossiinfezioni alimentari e di parassitosi, comuni nei tropici, spesso accompagnava innumerevoli altre malattie come, per esempio, la diffusa malaria.
In Africa, mi era stato ben inculcato, si muore più per la diarrea piuttosto che per la malattia che l'ha provocata.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità, imparai, aveva pianificato delle strategie per la cura della diarrea, in base alla gravità e al luogo in cui questa veniva trattata: ospedale, ambulatorio o villaggio.
Oltre alle strategie mi fu insegnata la corretta terapia da applicare, che mi fu presentata come una delle scoperte scientifiche più straordinarie, più efficaci e più semplici per curare una gran quantità di vite umane, soprattutto i bambini, certamente i più colpiti.
Ero incuriosito, frequentando il corso di medicina tropicale, da questa che mi sembrava un’affermazione esagerata, poiché a parte il colera, potenzialmente mortale, dubitavo che il sintomo diarrea, fosse così pericoloso.
Pensavo ai farmaci antidiarroici come gli antibiotici orali, gli antiperistaltizzanti, le diete e tutto ciò che normalmente un medico prescrive anche il giorno d'oggi al malato diarroico acuto.
Fui molto sorpreso di sapere, invece, che l'Organizzazione Mondiale della Sanità aveva messo all'indice questa terapia e presentava, invece, come cura

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   1 commenti     di: Antonio Sattin


Come si fa

Ci sono storie che è difficile raccontare. Perché sono tue e ti fanno soffrire. Perché le hai nascoste nel ripostiglio della tua mente, sapendo che prima o poi ci dovrai fare i conti. Come si fa a tirarle fuori e darle in pasto a chi vorrà leggerle, superando il pudore che impone di lasciarle coperte, al loro posto? Sinceramente non lo so. E chissà se è veramente pudore o semplice vigliaccheria. Sono qui, a battere controvoglia i tasti del computer, non sapendomi decidere se alla fine vorrò veramente pubblicare quello che sto scrivendo.
Questa storia, poi. Che se l'avessi inventata me ne vergognerei per l'insieme di cose che ha dentro; ma come si fa a pensare che sia credibile un racconto che mescola livide storie familiari con grandi eventi, sopra cui far aleggiare l'ombra cupa della morte prematura. "Come in un libro scritto male..." canta Guccini e mai come questa volta sento che ha ragione.
Una storia affondata nella memoria, ma che ogni tanto mi riaffiora, sbattutami in faccia da un suo simbolo. Molte storie sono, nella memoria di chi le ha vissute, legate ad un qualcosa. Una canzone, un odore, una luce particolare che di colpo ti fanno rivivere quegli attimi. Per questa storia il simbolo è un disegno che tutti abbiamo visto un po' di tempo fa: il logo delle Olimpiadi invernali di Torino. Ricordate? Nel febbraio del 2006 non si parlava d'altro, tutto ha ruotato intorno a quell'evento. La televisione ci ha sommerso di trasmissioni sugli sport più bizzarri. Ci ha fatto persino appassionare al Curling, con i suoi colori e lo strano rito di spazzare il ghiaccio davanti alla boccia di pietra che scivola verso il suo obiettivo. Simbolo ufficiale di Torino 2006 è stato il disegno di una scia di stelle a quattro punte che sale verso l'alto torcendosi da destra verso sinistra in modo da formare la siluette della Mole Antonelliana.
Ogni tanto, a tradimento, me lo ritrovo davanti. A volte su una vecchia rivista, in uno spezzone dell'epoca o appiccicato come v

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Oggi voglio scrivere le mie venti righe

Scrivere mi fa sciogliere come un cubetto di ghiaccio, che ad alte temperature diventa liquido e poi mentre scrivo l'acqua sciolta si mette a bollire e diventa vapore, che si diffonde nel vento e nell'aria come le parole e ricade sui fiori, sull'erba, sulle piante e le fa crescere rigogliose, verdi, brillanti.
E le piante donano ossigeno. Ossigeno per respirare, per vivere una vita magari normale, senza un granché di importante, ma è la nostra, fatta di parole, di lettere messe in fila l'una dopo l'altra per manifestare idee, amore, solitudine, condivisione, sogni mai vissuti, sperati, agognati. Condividere la scrittura:
questo è il nostro post-it.
Questa è la nostra penna, penna per stare al passo coi tempi, per dire che abbiamo ancora tanto da dire:e' una partita a ping-pong queste venti righe che mettiamo in fila, dove il giocatore cambia quando concludiamo le nostre "20 righe" e la palla colpisce nel segno. La mente del nuovo giocatore riscalda i neutroni che lavorano per scrivere pensieri nuovi, idee fantastiche o reali che prendono corpo e plasmate lasciano il segno. E mangiare, bere, uscire sono diventati secondari se non ti regali quello spazio di te.
Sì, perché lo fai anche per te stessa, per sentirti viva, perché sai che qualcuno ti legge, che, forse, qualcuno capisce tra le righe quello che vuoi veramente dire.
Chissà se è verità o fantasia o menzogna quello che uno scrive, non importa, è un fluido che scende direttamente dal cuore ai tasti e questo basta.
Sì è una danza in cui la musica è dentro di noi: trallallà, trallallà...
Scrivere è come volteggiare fino a farsi girare la testa, fino a cadere per terra, senza fiato, fino a quando le dita ti fanno male a farlo in fretta e gli errori ti fanno tornare indietro a rivedere, a ripensare.
Ma lo scorrere del pensiero, invece, deve essere veloce come il sangue dalle ferite, rosso vivace, vero come il respiro che ti permette di vivere. È proprio così che si riescono a dire le cose

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Acqua ferma

La nebbia sale dal lago...
Quell'umido polline del fior dell'acqua, che germoglia semi di malinconia.
Che mette radici scure e cresce contorto,
scavandosi sentieri che scendono profondi nel cuore sino all'anima,
e che ti segnano la vita.
Niente è come in altri luoghi.
È il graffio del lago che ti marchia,
che incide il suo solco.
Più del mare e più del deserto,
più della montagna.
Non si sfugge all'odore del lago.
Se lo respiri nei primi giorni di vita non hai più scampo.
Scordati lo sguardo folle del marinaio.
Dimenticati del sorriso sul volto del contadino che ara il suo campo,
e del passo deciso e cupo del montanaro.
Non avrai mai l'incedere spedito e nervoso del cittadino,
né la risoluta tranquillità del cammelliere.
Nulla di tutto questo sarà mai tuo.
Avrai per sempre solo quello sguardo perso,
di chi cerca un orizzonte che non vede,
di chi non ha neppure il miraggio di una speranza da inseguire,
ma solo la rabbia e la malinconia dell'acqua ferma, che ristagna e marcisce senza morire mai.
Mesto, come l'onda bassa che sbatte sugli argini di sasso.
Inquieto, come i ruscelli che di malavoglia portano la loro acqua a quella trappola liquida,
scendendo ripidi da gole scure di foglie morte e di salamandre.
Andar via?... E da che?
Non si può sfuggire all'acqua ferma.
Nessuno può sfuggire a se stesso.

L'alito ghiaccio delle valli scure, scende a spazzare il cielo e...
ora... se ancora speri di poter non credere in Dio,
ecco l'immane spettacolo celeste che ti si sbatte in faccia,
a non far restare altro davanti ai tuoi occhi,
che non sia lo sgomento di una obbligatoria rassegnazione.
Stelle, stelle e ancora stelle si specchiano nell'acqua.
Ombre riflesse di montagne nere s'increspano dinanzi alla barca.
Il senso del freddo che sale dal basso mi avvolge silenzioso, eppure mi parla.
Qualcosa si cela là sotto.
Lo sento... l'ho sempre sentito.
È l'acqua del tempo passato, quella che non se n'è mai andata, ch

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   6 commenti     di: Tinelli Tiziano



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