OGGI LA FAME MA DOMANI PEGGIO
Giu' al paese dove sono nato
Ci sono mille storie da raccontare
Quelle di casa mia e quelle di casa tua
È cosi' che io mi sfogo quando dentro mi sento ormai perduto
E pure cosi' io ne faccio un pregio
Oggi la fame domani forse è peggio.
Un mio collega, pochi giorni fa, mi si para davanti la scrivania nel mio ufficio, mani depositate all'interno delle tasche, camicia slacciata fino al terzo bottone ( li ho contati solo in un secondo momento.. ) ... della cravatta nemmeno l'ombra. Quel che mi lascia spiazzato, il suo sguardo... trasognato, distante, gli occhi fissi verso un punto imprecisato del cosmo, viso leggermente inclinato ed un sorriso ebete che non lascia adito ad alcun dubbio... “Giulio si è fumato un cannone alla toilette”( questo il mio primo pensiero..).
Ma c'è di più, sono trascorsi svariati secondi dall'attimo in cui ha fatto irruzione nel mio ambiente lavorativo e continua imperterrito nel volersi estraniare dalla realtà, continua a focalizzare quel punticino posto non si sa dove ( chissà che cazzo sta guardando!!) non ha ancora detto una sola parola, non mi rende partecipe, non accenna ai motivi per i quali si trova li in piedi, davanti ad uno Stefano basito.
Gli attimi si susseguono, comincio ad avvertire un leggero tremolio proprio sull'arcata sopraccigliare destra, sintomo evidente di disagio... condito da un pizzico di nervosismo non lo nego.
Decido di spezzare quel surreale equilibrio, decido di porre termine a quella situazione per me assolutamente priva di alcun senso, decido di aprire bocca.
"Giulio..." un filo di voce... mi stupisco per come io non sia riuscito ad imprimere forza vocale a quel nome. Aspetto un solo istante, un battito di ciglia... ( il tremolio sopraccigliare ora è un terremoto.. ) inspiro velocemente e mi ripropongo a lui.
"Giulio, va tutto bene?"... questa volta la mia voce è udibile... non ho nessun motivo per pensare non l'abbia udita anche lui.
Rimango in attesa di una sua reazione, in cuor mio mi auguro riprenda i "sensi" e mi dica qualcosa, qualunque cosa... "Stefano sei un pezzo di merda!" avrei gioito anche dinanzi ad un'esternazione così forte e al contempo incomprensibile, pur ché mi parlasse.
Un focolaio d'impazienza si accen
Nasce a Craiova, Romania nel 1972 da una famiglia abbastanza povera. Desiderata dalla madre, tenuta nascosta nel grembo sperando che niente e nessuno non potrà farli mai del male. Dopo sei mesi la pancia di sua madre era evidente e quindi Adela comincia ad essere indesiderata del padre e tutti gli altri. Arrivo alla luce dei nostri giorni nel 09 aprile facendo soffrire la madre fino al esausto. Era tutta nera e piena di cappelli. Dopo un po di giorni la forza e il sorriso di Adela, faceva divertire la madre. La madre che sapeva dalla sua avvenire già dopo il parto del primo figlio. Lo aveva sognata, cosi come doveva essere a anni 14, mora con capelli lunghi, magra, vestita con un camicia bianca come quella di un dottore, con un libro in mano accanto a un tavolo. Per lei era un segno del destino, e aspettava sempre fino quando il momento arrivo. Agognata dalla madre, Adela prova dal primo momento un grande affetto e amore nei suoi confronti. Anni sono passati in fretta e arrivo al età di anni 14. Età che gli cambio la vita. Presi delle borse di plastica e cominciai a infilare i libri di scuola e tutti i quaderni, le penne, colori e tutto quello che mi sembrava utile in quel momento. Le mani mi tremavano, tremavo tutta, e le lacrime non smettevano di cadere bagnando tutto quello che toccavo.
La mamma non smetteva di gridarmi di andarmene via. Vattene via! Vattene via! Non devi rimanere qui ne anche un minuto. Vattene dai tuoi zii. Devi scappare via, non puoi rimanere, vattene, vattene, vattene...
Era turbata, aveva gli occhi tumefatti perdeva sangue dal naso e dalle labbra. Praticamente aveva il viso sfigurato. Erano le ore 23 quando lasciai casa e la mamma, piena di paura e piangendo talmente forte che non vedevo dove camminavo. Trascinando le borse pesante senza sentire il male che mi facevano le braccia, sali nel ultimo treno che mi portava dai miei zii che non sapevano dalla mia visita permanente.
Tutto il viaggio non ho fato altro che piangere per il di
La mia base operativa per lanciare segnali verso il mondo era uno stanzino minuscolo in cui era posizionato solamente un computer con il suo mobiletto, due o tre mensole per i cd e la sedia per mettersi di fronte al monitor. Le ginocchia andavano incastrate al meglio contro un ripiano che reggeva i fili necessari per il funzionamento della macchina.
Lo stanzino era mutato negli anni. Quando ero più piccolo, ai tempi della macchina da scrivere, era un vero e proprio ripostiglio contenente due scaffali pieni di roba incellofanata e riposta dentro i cartoni. C'era lo spazio a malapena per entrarci e, per aprire la finestra dagli infissi rossi, bisognava spingere in dentro un cartone con tutte le proprie forze. Dal momento che era la stanza meno frequentata della casa, decisi che sarebbe diventata la mia.
Quando la conquistai, per prima cosa scoprii il modo per aprire la finestra. Poi ci posizionai di fianco uno sgabello e disegnai con un pennarello rosso una serie di pulsanti sul cartone di fronte. Conteneva una batteria di pentole mai utilizzate. E infine lo bucai con il jack di un gran paio di cuffie rotte con microfono annesso che mio padre mi aveva regalato. Lo stanzino divenne la mia stazione radio ed io ci passavo i pomeriggi pensando che le cazzate che dicevo potesse ascoltarle tutto il mondo. Era facile. Ogni volta che mi serviva un nuovo canale, lo disegnavo col pennarello rosso e diventava immediatamente operativo. A volte gli ascoltatori mi chiamavano in diretta lamentando di non prendere al meglio il segnale e di non sentire bene la radio. Io fingevo di girare alcune manopole. Adesso sentivano bene.
In quella stanza avevo letto il mio primo libro: Il mago di Oz. Mi sedevo a terra con la schiena appoggiata alla porta senza permettere intrusioni. Ero praticamente in una botte di ferro. Ogni tanto mia madre spingeva la porta e mi faceva scivolare col culo sul pavimento chiudendomi nell'angolo tra il legno e il muro. Mi guardava, mi chiedeva che cosa st
Una mattina appena alzati, fatta l'alza bandiera, notai un via vai di persone, intente a installare i vetri alle finestre, con stupore compiaciuto, domandai ad un permanente cosa stesse accadendo, questi mi disse, sanno che arriverà una ispezione da parte di un generalone da Roma e corrono ai ripari.
A nostre spese, poco dopo, scoprimmo cosa voleva dire correre ai ripari, tutti siamo stati impegnati, per eseguire le pulizie della caserma (scoprii che questa era l'usanza) per far trovare tutto in ordine... ma era un fumo di paglia.
La mattina successiva, mi svegliai con un gran mal di gola e febbre, chiesi visita al caporale di giornata, mi portarono in infermeria, dove trovai un ufficiale medico, mi visitò e mi disse che, dovevo stare ricoverato per un paio di giorni vista la febbre molto alta, mentre lo diceva, parlando con il suo collaboratore disse, che fortuna così abbiamo anche un ricoverato da mostrare al generale.
Mi ricoverarono in infermeria, avevo un letto... vero, lenzuola vere e un cuscino decente, la mattina successiva, trovai una bella sorpresa, una bel vassoio con ogni ben di dio (mai vista una cosa del genere) all'ora di pranzo mi portarono un primo di pasta, spaghetti alla puttanesca, porzione da camionista, mentre stavo per affondare la forchetta in quella che a vedere era una buona pasta, entrò nell'infermeria il medico che, precedeva il comandante del battaglione e di seguito il generalone che appena mi vide disse: "vedo che l'appetito non manca..." io stavo per replicare, ma mi fu impedito dal comandante, che immaginando cosa avessi potuto dire cercò di minimizzare, mettendola sullo scherzo riguardo la quantità della porzione.
La mia permanenza in infermeria durò 4 giorni, la febbre non scendeva, per cui mi lasciarono riprendere, poi anche loro qualcosa dovevano fare no?
Mentre stavamo finendo il Car ci furono assegnati gli incarichi a me fu assegnato il 31/B. vigilatore esterno, capii successivamente cosa voleva dire, finito il car
La sera del 5 gennaio, sotto quella che noi chiamiamo la nappa d'el camìn, il cui bordo era ornato da un addobbo di cotone arricciato, mettevo la mia calza lunga, di lana. All'epoca, anni cinquanta/ sessanta, le bambine portavano calze lunghe con dei bottoncini. La nostra cucina era poco illuminata perché la finestra s'affacciava su di una calle stretta e scura e io mi chiedevo sempre come avrebbe fatto a passare la Befana carica di peso, come era. Dopo cena mia madre preparava la colazione da lasciare alla vecchia signora. Metteva sulla tavola persino il portauovo con l'uovo cotto à la coque e la tazza di porcellana bella. Il bricco del latte e l'orzo da sciogliere. Mi era concesso stare in piedi fino alle ore nove, poi senza tante discussioni andavo a letto. Restavo sotto le coperte a scrutare la luce gialla che, dalla cucina, entrava come una lama nell'ingresso e si fermava sulla soglia della mia camera. Sentivo i miei genitori parlottare, bisbigliare e anche ridere piano, erano giovani allora. Dalla fondamenta salivano i passi frettolosi di qualche ritardatario infreddolito. A gennaio spesso nevicava, a Venezia. Non è come ora che il clima s'è fatto più caldo e non nevica quasi mai. Ogni anno mi proponevo di stare sveglia tutta la notte per poter vedere la Befana "fare la colazione", ma non ci riuscivo. Me la immaginavo avvolta nello scialle di lana nero, gocciolante di neve, scapigliata e china sulla tazza a sorbire rumorosamente il latte. Quando tutta la casa era al buio, scivolavo lentamente nel sonno. Alle sei del mattino del giorno seguente, scattavo dal mio letto e volavo scalza in cucina. Mio padre aveva già riattivato la stufa a carbone e c'era un bel tepore. Controllavo subito se la Befana avesse mangiato. Mia madre aveva lasciato tutto sulla tavola e vedevo bene che nel fondo della tazza c'era ancora un rimasuglio di latte e che l'ovetto era sparito. Anche il tovagliolo era sporco appena, una impronta proprio nel s
[continua a leggere...]Quattro occhietti lucidi e senza palpebre si facevano spazio tra peli fitti, grigi e appuntiti, in una testolina grande la metà dell'addome, tondo e grassoccio, che le stava dietro. Come riesca, un esserino pelosetto, a trasformare la carne della sue prede in fili elastici, collosi e robustissimi, non è dato sapere, e deve essere un segreto che tutti i ragni sanno ben custodire, se l'uomo ancora non lo ha trasformato in denaro. Un segreto che gli consente di non appiccicarsi alla stessa tela che gli procura il nutrimento.
La sagacità di questo insetto dovrebbe consentire, alla specie umana, di mettere in forse la propria celebrata intelligenza, dal momento che la trappola che l'uomo ha imparato a costruirsi, per sopravvivere, gli si è incollata addosso imprigionandolo senza scampo.
L'uomo si compiace della sua tela, tanto che la chiama "progresso", e per lui poco conta che ci stia soffocando dentro.
Il ragno di questa storia è di quelli comuni, tondo, grigio e con una croce sulla schiena che parrebbe essere il segno di una fede, diversa da quella che hanno le mosche che cattura.
È da un mese che osservo quello che combina, più o meno da quando è comparso fuori dalla mia casa, e lui cura quello che faccio io. Dal suo sguardo sembrerebbe deluso. Come dargli torto, al suo confronto io sembro un bipede approssimativo. Quel suo squadrarmi pietoso mostra che è convinto sia il numero di zampe e di occhi a indicare le qualità intellettuali di un essere.
Ma la tragedia che vive la mia specie, o forse solo io, non sta soltanto nelle quattro zampe che abbiamo, neppure sufficienti per alimentare fughe che abbiano un andamento dignitoso. Rispetto a lui io sono più grosso e pesante, ma s'intuisce subito che lui è certo che la grossezza e il peso non sono aspetti correlabili alla qualità. Gli uomini, invece, ne sono convinti, al punto da credere di essere più intelligenti delle donne per i cinque grammi che hanno di cervello in più, senza sospettare che possano
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