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Racconti autobiografici

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Partenze d'infanzia

Sento ancora l'ansia che trasmetteva mia madre ogni qualvolta si dovesse partire. Si giungeva in stazione con un'ora di anticipo perché lei diceva: il treno non aspetta, e quando in lontananza tra sbuffi, fumo e vapore cominciava a prendere forma la sagoma nera e imponente della locomotiva, il cuore iniziava a battere forte con lo stesso ritmo del campanello che ne annunciava l'arrivo. Di li a poco sarebbe iniziato l'assalto, i più lesti salivano sui vagoni ancora in movimento, e dopo avere occupato i posti per tutta la famiglia si affacciavano immediatamente dal finestrino per farsi passare i bagagli. Accadeva spesso che quando il treno si fermava già tutti i posti erano occupati e bisognava così rassegnarsi a rimanere in piedi per tutto il viaggio o al massimo usare come seduta un pacco o una valigia, ostacolando il defluire degli altri passeggeri costretti il più delle volte a incredibili evoluzioni. Si partiva così tra lacrime e abbracci e la promessa di scrivere una lettera appena giunti a destinazione, destinazione che però spesso era ignota a molti di loro che per la prima volta si recavano al nord o all'estero in cerca di lavoro, e ignoto, quasi sempre voleva dire sacrifici, sofferenze, mortificazioni. Oggi diremmo che fra quei passeggeri non c'era privacy perché fatti pochi chilometri ognuno sapeva tutto degli altri, dopo di che i discorsi cadevano inesorabilmente sulla politica e sui politicanti, e non si aveva timore di iniziare il dialogo parlando male del governo perché l'interlocutore, di sicuro, era dello stesso parere e chi la pensava diversamente viaggiava nelle carrozze di prima classe dove i sedili semivuoti avevano i poggiatesta di panno bianco e le valige non erano di cartone e dove chi aveva il viso bruciato dal freddo e dal sole era allontanato prima che potesse esibire il biglietto. Io, i discorsi dei grandi non li capivo e ne mi interessavano, l'entusiasmo iniziale con cui intraprendevo ogni viaggio pian piano cedeva il posto alla

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   0 commenti     di: Antonio


Kennedy e la rivoluzione copernicana

C’è molto di cui rendersi conto prima di imparare che è la terra a girare intorno al sole. Per esempio, è più urgente e opportuno accettare di non essere il centro del mondo, come invece mamme, nonni, tate e balie ci hanno sempre fatto credere.

Una scoperta demoralizzante e spesso portatrice di delusioni dure a morire. Non è bello scoprire che i nostri satelliti possano mettersi a girare attorno ad altri pianeti, così come nulla fosse, senza neanche chiedere permesso. Anche il sole ci resterebbe male. D’altra parte, realizzare di non essere il centro del mondo ha i suoi risvolti positivi.

A questo proposito ricordo che, avrò avuto cinque anni, l’attentato a Kennedy (Bob, Los Angeles 1968), mescolato a qualche film perduto nella memoria, mi gettò nel terrore di finire vittima di un omicidio. La sera a letto, con la testa sotto le coperte, faticavo a prendere sonno, immaginandomi oscuri sicari in arrampicata sotto la finestra. Fu un periodo difficile.

Convinto di essere assediato da bande criminali, non mi coricavo se non dopo aver chiuso persiane, vetri e scuri interni. E non contento, ci accatastavo sotto una piramide di barattoli e scatole di latta: una sorta di allarme acustico che mi avrebbe dato il tempo di fuggire in caso di irruzione. Ma nonostante tutte queste precauzioni, ogni notte mi ritrovavo tremante sotto le lenzuola ad aspettare il peggio.

Una sera però ebbi un’illuminazione salvifica. Ma perché mai un killer dovrebbbe venire a uccidere proprio me? Chi sono io per attirare tutta questa attenzione? Non sono mica Kennedy, Nixon, o un altro potente della terra? Sono un bambino qualunque. Che bello! Da quel momento, recuperai la pace, non chiusi più meticolosamente scuri e persiane, nè tantomeno allestii più barricate di latta. Quella piccola rivoluzione copernicana mi aveva tirato fuori dal tunnel. Detto questo, devo ammettere però che non essere il centro del mondo, ancora oggi, mi fa girare un po’ le palle. 

   2 commenti     di: marco moresco


Penombra

Se guardo indietro non vedo la luce.
Solo piccoli sprazzi di sole nel cielo, subito nascosti da nuvole grigie che come bolle di sapone si espandono e torna il buio.
Il prato dei ricordi nasconde insidie di rovi, nidi di serpi celati tra i sassi nei viottoli.
Il colle della vita ha per me la punta aguzza, difficile da raggiungere senza le scarpe adatte.
E io ho solo sandali da indossare che lasciano scoperti i piedi esposti alle ortiche.
Vorrei un cielo fresco di bucato, un prato liscio come la seta e un colle morbido dove riposare il mio futuro



fino alla luce (III parte)

Venerdì 28 febbraio. Cinquantesimo giorno.
Venire ricoverati è un sollievo: so di essere in buone mani. Medici ed infermieri mi accudiscono e mi riveriscono. Sono continuamente sottoposto ad esami, visite e controlli. È incredibile come si stiano impegnando pur sapendo che non ci sono speranze. Ogni giorno che passa è per il mio corpo un anno che se ne và. Per quanto la medicina si impegni, non riesce a contrastare l’inesorabile passo del tumore che sta avanzando senza ostacoli lungo una trincea ormai stremata. I medici delle cure palliative sanno guardare negli occhi e sorridere nel modo giusto, sono capaci di farti capire che stai morendo infondendoti un calore rassicurante. Sembra che trasmettano il messaggio che la morte non è poi così male. Poi torno a casa, questa volta per sempre.
Talvolta mi sfiora un insano senso di colpa: come se mi sentissi responsabile di tutto il disagio che sto creando intorno a me. Come se non fossi stato abbastanza forte da essere invulnerabile a questa malattia e per questo avessi deluso mia moglie. È innegabile che in questo momento io rappresenti la causa dell’infelicità delle persone che amo. Non io, ma il mio cancro. Devo stare attento a non identificarmi con quella malattia, devo ricordarmi ogni istante che la bestia che si è insinuata dentro di me, è un letale parassita, ma grazie a lei sto analizzando la mia vita. Grazie a lei trascorro parecchio tempo accanto ai miei cari, sento di amare e di essere amato sempre di più.
Questa sera sono sereno. È venuta a trovarmi più gente del solito. Sono allegro e più in forma. Però me ne sto andando.
È notte ed il mio capezzale è circondato d'amore. Giaccio sulla mia comoda sedia a dondolo e sento che il mio respiro si fa sempre più lento e faticoso. Mio figlio D. è seduto sul letto di fronte a me e mi stringe la mano destra, mio fratello L. è di fianco a lui e mi tiene la sinistra. Sono gli ultimi contatti con il mondo materiale. Sono più lucido d

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3 denti del giudizio

Sto tentando di scrivere non so che cosa... un romanzo di vita vissuta, una raccolta di boutade e pensieri pseudifilosofici non so... sto tentando di lasciare un segno su questa terra che non riesco nemmeno a calpestare... che mi è sconosciuta... ma nemica...

Mi addormento dopo l'ultima considerazione... finalmente spossato da quell'estasi creativa che mi stravolge di tanto in tanto. La sveglia è clemente. le nove. cazzo però ho scritto fino alle sei e un quarto... poco male... dormire non mi piace negli ultimi tempi. cazzeggio per casa ravanandomi e stropicciandomi gli occhi. ciao mamma. ciao pà. ciao sorella... non ricordo mai il nome la mattina. non faccio colazione. esco. scivolo la prima rampa di scale dopodichè inchiodo. perchè uscire. non c'è niente da vedere.
Capisco che posso smetterla di pensare o di pianificare la giornata. Perchè non ho cavato un ragno da un buco. Troppe domande, interrogativi, dubbi. Zero risposte, certezze. Per lo meno non in quest'epoca, in questo posto, con queste persone. Qualcosa mi sta spingendo a cambiare palcoscenico. Voglio un costume diverso. Che qualcuno mi scriva un nuovo copione, molto più arguto, meno sfigato di quello che sto interpretando da Oscar. Chi può farlo?
Devo assolutamente diventare l'autore, lo sceneggiatore, il regista del mio film. La mia energia basta per un cortometraggio, cazzo, se non per un videoclip. Ridurre la vita ad un videoclip...

Sono fabrizio, ho 21 anni, tre denti del giudizio spuntati su quattro, e chissà perchè tutti storti. Amo un sacco di cose ma non me stesso. mi dicono che sono carino, o meglio a detta della maggior parte delle gentili donzelle di una città che si atteggia a metropoli ma non è altro che uno sputo nella campagna. un grosso sputo. E tanto per starci bene, chiunque si sputa addosso. Ho sputato, meno di quanto avrei potuto e dovuto, ho preso le difese di sputatori e sputati. Ma non ci ho mai capito un cazzo.

Ho pochi amici meravigliosi e tanti che non sanno d'esserlo. Personaggi

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Trip tabagisti e non

Fuori era una giornata meravigliosa il sole era una calda palla di fuoco invernale e, probabilmente, la gente camminava per la strada discutendo sulla bellezza di quel tempo così insolito.
Noi, tristissimi repressi, eravamo nascosti in un centro benessere abbandonato. Per accedervi era necessario scendere delle ripide scale. Prima di cominciare a scenderle controllavamo sempre le finestre delle abitazioni vicine non volevamo essere visti. Scendevamo le scale correndo, aprivamo la porta con uno strattone ed entravamo. Nel salone principale c'era un fortissimo odore di vino e alcune bottiglie, aperte ma non finite, se ne stavano sul bancone ormai da qualche mese.
La sala era piena di graffiti e di scartoffie macchiate di vino, vomito e urina. Sulla destra c'era una porta a vetri chiusa a chiave. Da quella porta si poteva entrare in un reparto buio, composto da piccole stanze rettangolari divise da sottilissimi muri di cartongesso. Ognuno di noi, in quel reparto, aveva una propria stanza che poteva essere riconosciuta dalla "tag" in vernice nera che avevamo posto su ogni porta.
Sfortunatamente, l'unico ad avere le chiavi per aprire quella porta era Ned, un ragazzo che si faceva vedere molto raramente dalle nostre parti.
Al centro del salone principale c'era un piccolo cucchiaio polveroso, deformato dal calore. Quel cucchiaio ci dimostrava che, in quel posto, non eravamo i soli visitatori abituali. Era un cucchiaio per eroinomani, sapevamo che era così e questo ci consolava moltissimo. Forse non può essere chiaro a tutti questo ultimo passaggio. Come può, un cucchiaio usato da degli eroinomani, essere considerato una consolazione? Quando le persone si sentono sbagliate, quando fanno cose sbagliate o quando semplicemente vanno contro il mondo e la sua etica si sentono sollevate nel constatare che esistono persone che hanno comportamenti ancora più sbagliati. È un modo per convincersi che nessuno ha ancora toccato il fondo e che c'è ancora abbastanza tempo per

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   0 commenti     di: Andrea Pezzotta


Donne

Donne che ancora non sono tali, donne bambine, donne di vetro, donne in frantumi, donne che tuttavia non sanno di esserlo.
Donne che sono parte di me anche se non le conosco, anche se non so chi siano, donne con cui ho condiviso pensieri, agonie ed ossessioni.
Donne che si vergognano di essere tali e cercano di annullarsi, di scomparire.
Donne che perdono, insieme ai kili, anche speranze e sogni, affogandoli tra gli incubi.
Donne, ossa in pantaloncini che corrono per bruciare se stesse, un'altra volta ancora.
Donne in un letto che non potrà mai scaldarle.
Donne che cercano un segno, donne che chiedono di Dio, che si guardano intorno domandandosi dove sia finito, quando le abbia abbandonate.
Donne che hanno oltrepassato la sottile linea bianca, frastornate da fragorosa ma inudibile euforia.
Donne che combattono loro stesse e la bilancia.
Donne orgogliose, che ridono tra sè e sè guardando altre donne, più grasse, che hanno perso la propria battaglia.
Donne rifiutate, donne cadute, donne che vogliono tornare cenere, donne che sperano ogni giorno in un miracolo, o forse nella morte.
Donne, bambine, anziane, donne che rifiutano la loro condizione di donne.
Donne alla costante ricerca di perfezione, anche se irraggiungibile.
Donne che per raggiungerla preferiscono non essere, essere nulla.
Donne che non parlano, ma che urlano in silenzio, chiedendo aiuto ad ogni passante, supplicando attenzioni in ogni sguardo.
Donne che bramano braccia pronte ad accoglierle, donne che sussurrano parole a loro stesse, per riempire il vuoto che le divora.
Donne che desiderano amore, e trovano calore in una malattia.
Donne e MALATTIA, che rifiutano di chiamare con il suo nome. ANORESSIA.
E io, SONO VIVA.

   7 commenti     di: gaia porcelli



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