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Racconti autobiografici

Pagine: 1234... ultimatutte

L'amico di vita

Mi sono spesso chiesta il perchè diamo fiducia alle persone sbagliate e allontaniamo coloro che ci amano veramente. Ho imparato sulla mia pelle, le ferite che lasciano i rapporti non sinceri e ho compreso che non si può dimenticare il dolore, ma si può fare di esso un punto di forza per ripartire e crescere. Spesso ci sono persone che ti dicono : " Io ti voglio aiutare". Ma quante di queste sono sincere? L'uomo tende ad affidare il suo cuore a quella gente che in verità non gli importa nulla di come stai, ma che ti concede il proprio tempo, per un proprio tornaconto. Chi ti ama veramente e vuole starti accanto, aiutarti nei momenti difficili, sono quelle che non ti risolvono i problemi, ma ti restano accanto e ti incoraggiano ad affrontarli con la forza che hai dentro di te. Sono quelle persone che non ti allontanano da chi non ti comprende, ma che ti prendono per mano e ti avvicinano a loro, aiutandoti a spiegarti e relazionarti da persona adulta e matura. Sono quelle persone che non si mettono sempre in prima linea e prendono le tue difese solo per apparire belle ai tuoi occhi, ma sono quelle persone che restano in disparte, che mettendoti una mano sulla spalla ti fanno capire che per te ci sono, ma che lasciano il privilegio di affrontare la vita, di prenderti i meriti e le critiche con la consapevolezza che ogni volta che cadi, quella mano è pronta a sorreggerti.
Avere accanto una persona pronta a fare il viaggio con te, nel bene e nel male, è meraviglioso, l'importante non avere accanto un parassita ma un Amico con la A maiuscola.

   8 commenti     di: laura


La mia squallida vita e il mio squallido modus vivendi

Fondamentalmente iniziò tutto per un errore: l'HIV era una delle pià grandi minacce alla fine del secolo ventesimo, e mia madre ebbe la grande fortuna di conoscere mio padre, arzillo ometto sciupafemmine, che ne era infetto. Forse nemmeno lui lo sapeva, non credo, anzi, lo spero: non è già carino il pensiero che i tuoi scopino, figuriamoci una scopata infettante, dalla quale, poi, nasci tu. E tu, alla fine, chi sei? Un miracolo medico, ma non mi sono mai sentito così. Mi sono sempre sentito un figlio del mondo, allo sbaraglio... quello sempre! Un ragazzo di vita, uno cresciuto qua e là, uno a cui nessuno ha dato tante cure e tanto amore, lasciato un po' a sè stesso. E questa infantile solitudine mi ha fatto sviluppare questa infinita fantasia. Alla morte di mio padre, ricordo, che non soffrii manco un poco: mai una lacrima, mai un cazzo. Però ricordo bene quel giorno: ero troppo occupato a giocare a monopoli col mio amico Shay, arrivò mia madre in lacrime e disse - tuo padre è morto! -, non me ne curai affatto, continuai a giocare. Ma in fondo, cosa me ne doveva fregare? Gli unici ricordi che mi ha lasciato quell'uomo sono di droga, di distacco, di ospedali... Invece fu traumatica la morte di mia madre. Si suicidò ingerendo una bottiglia di sonnifero e il cuore le scoppiò... boom! La mattina seguente, ritrovatomi a casa di un amico di famiglia, avevo già capito... Bene, da questo punto inizia la mia seconda vita, quella di un ragazzo di strada, poco seguito dalla famiglia, disprezzato in casa, considerato drogato, eretico, alcolizzato, arrabbiato, cafone, maleducato, bestemmiatore, stronzo, egoista, menefreghista, disinteressato, violento, senza scrupoli, insensibile, irrispettoso, fumatore, cattivo, pazzo, depresso e un'altra volta stronzo. Il problema, forse, non ero io... ero un piccolo pargolo a cui venne a mancare la figura materna e quella paterna, lasciato da solo, portato a dodici anni da uno psicologo che mette paura, portato, senza la sua

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   1 commenti     di: Mimmo Rossi


Sfoglio l'album dei ricordi

Sfoglio l'album dei ricordi.
La foto in bianco e nero sbiadita dal tempo ha come sfondo un giardino con alberi secolari.
Quattro figure sono in primo piano: le madri ai lati e le figlie coetanee al centro.
Tutte si tengono per mano.
La bambina a sinistra ( che riconosco a me somigliante) non riesce a stare in posa composta. Ha un piede sopra l'altro, le scarpe bianche alte alla caviglia, i calzini scesi in modo diverso, la gonnellina estiva chiara che lascia scoperte le ginocchia.
La frangetta tagliata di netto a metà della fronte è il solo elemento simmetrico della figura infantile.
Si intuisce che è stata costretta a posare mentre avrebbe desiderato giocare con l'amica e correre nel parco.
Lei, sempre rinchiusa in una scatola di appartamento sola con la madre, appare come un fuoco d'artificio che sta per esplodere.
Dal braccio teso della donna a sinistra la mano della bambina è trattenuta con forza e si intuisce che la madre la stringe con fermezza e possesso.
La signora sorride davanti alla macchina fotografica. Ha la gonna godé, la camicia bianca e le scarpe basse adatte alla sua figura alta e snella, l'acconciatura è quella in voga negli anni cinquanta. Il suo sguardo un po' spento tradisce l'apparenza del sorriso.
Lei: giovane mamma in un corpo di donna matura.
Ricordo con nostalgia le giornate trascorse con l'amica della domenica nella casa dove rimanevo impressionata a guardare le mosche appiccate sulla carta moschicida sopra la grande cucina a gas. La cosa che mi affascinava era che l'abitazione riservava al piano terra un ristorante dove spesso mangiavamo all'aperto sotto il pergolato e il cibo aveva un altro sapore rispetto a quello di casa. La mamma non è mai stata una brava cuoca, non amava fermarsi ore davanti ai fornelli e in questo credo di aver ereditato da lei perché riesco sempre a bruciare tutto quello che tento di cucinare.
Mi divertivo ad assaggiare nuovi piatti anche se era ben poco il tempo impiegato

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Galline, quattro stagioni

"Pio, pio..."

Entravi in casa ed un giorno sentivi che erano arrivati. Le galline comparivano da nonno sotto forma di pulcini dorati che durante l'inverno abitavano in casa, in uno scatolone.
Solitamente venivano posti nel piccolo ingressino, quasi a miracol mostrare, un pigolare continuo. Il posto era anche stategico perchè non ingombravano il piccolo soggiorno e poi erano accanto alla stufa a legna che li teneva al calduccio.
Ne servivano una mezza dozzina perchè la selezione naturale prevedeva che qualcuno non ce la facesse.

In primavera, sbozzolati e rimasti solitamente in non più di quattro, venivano alloggiati in un gabbiotto esterno per acclimatarsi. Ormai erano ingombranti in casa e non potevano più stare nell'angusto scatolone di cartone.
Fuori ad accoglierli il freddo che in alcune notti era ancora pungente perchè la conquista del mondo esterno era dura per galline con la crestina ancora a raso che non erano ancora prontissime per la vita adulta. Ma chi lo è "in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna?"

In estate, ormai galline e rimaste in tre, veniva fatto l'inserimento nel pollaio. Inizialmente erano separate da una rete che le divideva dalle vecchie matrone poi, dopo qualche beccata di aggiustamento, entravano a pieno titolo nel gruppo.
Era qui che cominciavano i miei esperimenti per vedere quanto fossero intelligenti.
"La gallina non è un animale intelligente" cantavano Cochi e Renato ed in effetti quando mettevo un vecchio specchio nel pollaio dapprima lo beccavano sorprese di vedersi senza riconoscersi, poi guardavano dietro per cercare di capire il trucco.

A partire dal successivo autunno un paio delle vecchie galline diventavano brodo e lesso per la domenica; non avevamo l'abitudine di dare i nomi alle galline perchè si sapeva che fine avrebbero fatto. Veniva chiamato Angiolino che scendeva dalla sua postazione al secondo piano del condominio per procedere alla esecuzione.
Nei giorni delle feste coman

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22 novembre

aaaauuuuuuuggggghhhhh... aaaaa.. ho l'acqua alle ginocchia. si è sfasciato l'ombrello.. e l'acqua invece di scendere, sale. eppure pare che scenda, ma sale. se salisse dal basso, forse scenderebbe. allora sì. e l'ombrello si porterebbe capovolto. per non bagnarsi i piedi. fratello, non ridere. non c'è niente da ridere quando piove così tanto. fratello.



una nuova vita

Quello che mi appresto a scrivere è il racconto del mio dramma risolto poi in modo positivo.
La luce che si intravvedeva dietro le montagne, che descrivevo nella mia seconda poesia, si era spenta di nuovo in un letto di ospedale, dove ho avuto una grossa crisi cardiaca che ha costretto i medici a portarmi in terapia intensiva intubarmi e collocarmi in uno stato di coma farmacologico.
Le speranze date dai medici erano poche.
Tutto quello che sto scrivendo mi è stato riferito da mia moglie.
L’unica cosa che ricordo è che prima della crisi ho sentito intorno a me un forte profumo di fiori, ho chiesto a mia moglie se lei sentiva questo profumo ma ho ricevuto una risposta negativa.
Sono stato due settimane in questa situazione, la mia mente ha girovagato in altri mondi che per me erano la realtà, ma questo sarà motivo per un altro racconto.
Dopo due settimane è arrivata la notizia che si era reso disponibile un cuore compatibile per me.
Fortunatamente le mie condizioni erano un po’ migliorate altrimenti non era possibile fare il trapianto.
Alle 0re quattro di un mattino di Giugno vengo trasferito in sala operatoria per la sostituzione del mio cuore.
Sono convinto che sia stato un miracolo, le mani dei chirurghi sono state guidate dall’alto, ci sono varie coincidenze che mi hanno fatto pensare a questo, il profumo, mio cugino che in quei giorni era a San Giovanni Rotondo e pregava sulla tomba di Padre Pio per me, il cuore, non ho la completa certezza ma sembra sia venuto da una regione del sud.
Mi sono risvegliato nel letto della terapia intensiva dopo una settimana.
La prima persona che ho visto è stata mia moglie che stentavo a riconoscere, perché era completamente vestita con indumenti ospedalieri sterili, cuffia, maschera, vestaglia.
Non mi sono reso conto subito cosa mi era accaduto, l’unica cosa è che non riuscivo a muovermi, dato che la mia muscolatura era completamente sparita.
Ho chiesto a mia moglie, che non mi ha mai lasciato per un

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   19 commenti     di: andrea venturi


Anatomia di un presagio

È un uomo in ombra. È l'ombra di un uomo. Ma esiste. C'è! Come Dio sulle autostrade. O, come Dio, tanto l'ho immaginato e demonizzato, che ho finito col farlo esistere veramente. Comunque è lì, da qualche parte: dietro una finestra, un edificio, qualcosa... E mi guarda, mi segue, mi osserva, mi spia. Sa chi sono, perché sono qui...
È successo questa notte, quando il sogno un'altra volta si è arreso ai miei tornanti e, virando le sue braccia di paesaggi intrusi, ha sguainato la lingua assorbendo fiotti di saliva e di presagi.
Io ero immobile. Il mio corpo lucido, patinato, trasformato in una raccolta di Playman, prigioniero sopra lo scaffale di una libreria d'antiquariato, nascosto tra il terzo e il quarto volume dell'Enciclopedia Britannica e, sopra, occultato da decine e decine di mucchietti della Selezione Reader's Digest.
Lui camminava nervoso avanti e indietro. Guardava continuamente il telefono come se aspettasse la chiamata di qualcuno poi, di tanto in tanto, mi estraeva dalla mensola e, sfogliandomi le pagine d'epidermide sinuosa, scendeva con le dita a governare la turgidità del sesso. Poi il telefono ha squillato. Lui si è precipitato.
"Finalmente," ha detto. "Certo, certo, lo faccia passare.". E proprio in quell'istante ho varcato la soglia, sfoggiando sembianze decisamente più umane -anche se alcune pose osé, durante il presumibile trasporto, mi erano rimaste incollate creandomi un vestiario inusuale: un po' Moschino, un po' Kenzo.
Dentro, il grigio sovrastava e, nella penombra, si mischiava con il nero dettando forme e regole ai contorni delle tenebre.
"Ivano Mimosa?".
La voce greve e celata, ma da qualche parte doveva pur arrivare.
"Eccomi," ho detto, gettando gli occhi verso il baluginìo del suono, cercando di focalizzarne il viso, aspettando che le pupille si dilatassero adattandosi all'assenza della luce.
"Avanti. Entri. Non la mangia mica nessuno.".
Voce d'uomo, antica e gonfia, come

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