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Racconti autobiografici

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ombre dal passato

Ore 2. 30 dopo una serata con gli amici, passata in spiaggia attorno ad un falò per Beatrice è ora di tornare a casa, per fortuna c’e Andrea che come sempre fa da taxi per tutte! Beatrice arriva a casa, infila la chiave nella serratura ormai vecchia e rumorosa, e dopo qualche difficoltà finalmente riesce ad aprirla, si sfila i sandali e scende le scale senza far rumore, in punta di piedi per non svegliare nessuno, ad un tratto vede un ombra muoversi nella sua stanza, sente dei rumori ambigui; con il sandalo in mano spalanca la porta, pronta all’ attacco, ma ….. invece era solo il suo batuffolo di pelo, con le orecchie e il musino a punta, luna, la sua piccola cagnolina che possedeva da quando aveva 7 anni, che con le sue zampette stracciava i fogli sparsi per la stanza;dopo lo spavento si lasciò andare ad una risata:<<Che scema che sono chi altro poteva essere, se non tu piccola peste!>> Abbracciò la sua piccolina e si gettò sul letto, sfinita dalla serata. Ore 8. 43 la sveglia suonava all’ impazzata ma Beatrice presa dai suoi sogni, dormiva beata; allora la madre si catapultò nella sua stanza e la buttò giù dal letto: <<È tardi! Svegliati che tua sorella ti lascia a piedi, dai!>>. La madre era una donna che aveva vissuto una vita piena di dolori. Fin dall’ infanzia si trovò a far da madre ai suoi fratelli, il padre era troppo occupato a lavorare e a tradire la moglie, sua madre invece era impegnata a pedinare il marito per coglierlo in flagrante e a disperarsi perché non avevano abbastanza soldi per sfamare i nove figli di cui era madre; aveva il viso segnato dalle peripezie vissute, gli occhi spenti dal troppo dolore passato, che s’ illuminavano solo alla vista dei successi dei figli, era una madre dalle alte pretese, perché aveva fatto troppi sacrifici per i figli, per la famiglia e troppe volte era stata delusa; mascherava sotto l’ aria di donna severa e rigida, il bisogno di sentirsi speciale, di sentirsi amata dalla sua famiglia.

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   1 commenti     di: maria pisano


Al mio figliolo.

Stavolta non pronuncerò il tuo bellissimo nome, ma ti chiamerò come a te piace, perché un appellativo affettuoso vale molto di più del proprio nome.
Quando ti succhiavi il pollice e ti ribaltavi nel liquido amniotico, il silenzio che ti avvolgeva era infranto dal canto felice di tua madre che all'epoca vocalizzava: Amore lontanissimo, canzone interpretata da Antonella Ruggero.
Ricordo le premure che lei si prendeva per il suo "pancione" e la sua volontà che tu crescessi sereno, forte del suo Amore e cullato dalle materne carezze.
Spesso la mia mano coccolava quella strana protuberanza e mi chiedevo da chi fosse abitata e in che modo sarebbe cambiata la mia esistenza. Ogni sera alle 21 c'era un momento ricreativo, piccoli e grandi scalciate da sferrare, tanto per dare il segnale che tutto stesse a posto!
Tua madre mi chiamava a sé, cosicché anch'io potessi percepire al tatto gli urti dei tuoi calci, ma quando iniziavo a tambureggiare sull'addome proteso di tua madre, tu ti fermavi immediatamente.
Già da allora volevo comunicare con te e farti percepire che al di là del buio che ti circondava, c'era un altro mondo che ti avrebbe accolto con tutto il calore possibile.
Resta indimenticabile l'ecografia nella quale per la prima volta io e mamma scorgemmo che quel tira calci serale era un maschietto! Quando vidi chiaramente i tuoi testicoli, l'emozione della sorpresa e il mio orgoglio, mi fecero esultare: ma è un maschio!
Sinceramente non so come avrei reagito se al tuo posto ci fosse stata una femminuccia, probabilmente sarei stato ugualmente felice, ma sappi che la nostra unica preoccupazione era che tu nascessi sano!
Sorrido ancora quando ripenso a quel bellissimo 20 di agosto: lo stupore sui tuoi occhi socchiusi, il tuo viso lungo, la ciocca indomabile dei tuoi capelli che scendevano fluenti sulla fronte, le lunghissime unghie che nei primi mesi tagliavo con delicatezza e attenzione, la pronta reazione al colpo del martelletto sul tuo ginoc

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   4 commenti     di: Fabio Mancini


Il verso e l'inverso

La tempesta, risaliva dal mare, montando le colline con la sua rozza grisaglia, portando un gelido vento e cascate d'acqua che spazzavano via il cielo e assediavano, con gli odori del fango, il bosco di pini ed il pascolo.
Il tuono, il lampo, le zolle e le pietre, le radici e le chiome degli alberi sfogliati risalivano dal ventre della terra come un vomito; umidi umori che arricchivano la pioggia. Ne moltiplicavano l'ira maligna e il suo nero odio che faceva fuggire impazzite le bestie, dissolvere gli uccelli dal cielo. In questo mondo, dal caldo della placenta, risalivo nuotando, per incontrare occhi che non mi avevano mai visto. Esplose un tuono, mentre con un battito di palpebre scacciavo umori di sangue ed amnios, mentre il cielo s'irrobustiva della sua forza devastante. Il tuono aveva coperto la mia voce, e al terrore di quegli occhi negai la replica, mostrando obbedienza al silenzio del fulmine e al fragore del tuono.
È un maschio disse un donna, abbandonando per un attimo la preghiera, ed altri mormorii come un rifrangersi di marea sui ciottoli della riva, fecero il giro di quelle bocche, l'un l'altro chiedendosi di fermare quell'ansia che, come vento, viaggiava insieme alla tempesta.
Quel corridoio che avevo attraversato per giungere al mondo esteriore, ora sputava la placenta e si richiudeva intorno all'utero, che irrigidendosi mi aveva scacciato. Una donna, ora, nella poca luce danzava da sola, con le mani di un uomo che le cingevano il viso e le spalle, mentre un'altra donna frugava tra le sue cosce con garze e cotone.
Ruotavo tra braccia, mentre la tempesta strappava, intorno al mio corpo lavato dal sangue, abbracci rigidi come convulsioni che mi assalivano improvvisi. Lo sciame di luce di un fulmine attraversò la finestra colpendo, come un pugno, le voci della casa che tacquero d'improvviso.
Era giugno, in piena estate, candido e coerente, ero sdraiato felice su morbide lenzuola. Felice perché udivo ondeggiare su di me l'onda di visi che odo

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   4 commenti     di: Michele Loreto


Rapporto con la fede e la religione

Sono nato e cresciuto in un ambiente in larga parte formato da adulti anziani o di mezza età. I più anziani erano più o meno credenti mentre i miei genitori si definivano entrambi agnostici. Per mera convenzione hanno lasciato che mi battezzassero, che andassi a catechismo e ricevessi tutti i sacramenti. Io però già da bambino avevo grossi dubbi dinanzi agli insegnamenti catechistici, poiché comportavano la fede in fatti soprannaturali e la cosa strideva con l'insegnamento degli adulti che tante cose credute da bambini non erano reali. Io ho manifestato i miei dubbi in primis ai miei genitori che, in quanto agnostici, mi rispondevano ogni volta che a certe domande non c'era risposta, lasciandomi insoddisfatto e sempre dubbioso. Quando manifestavo le mie perplessità ad adulti religiosi, compreso anche il mio parroco, mi sentivo rispondere che le mie domande erano un buon segno perché denotavano sensibilità e questo era un segno che avrei presto trovato una fede profonda. Io allora volevo credere e quindi mi sono lasciato convincere a proseguire la formazione cattolica che mi stavano impartendo. Ma col passare degli anni mi accorgevo che i miei dubbi non cessavano affatto e sono arrivato quasi a chiedere di rifiutare il sacramento della cresima. Ma mi fu spiegato che senza cresima non ci si poteva sposare. Io allora accettai anche di ricevere la cresima, anche perché continuavo a sperare di trovare la fede. All'epoca nessuno mi aveva ricordato che c'è anche il matrimonio civile e che anche senza cresima viene concesso di sposarsi in chiesa. Giunto all'adolescenza mi sono reso conto che niente era cambiato e ho iniziato a valutare di aderire a un'altra religione, ma poiché non vedevo alternative convincenti sono arrivato al punto di tentare di crearmi una religione personale: un monoteismo elementare. Infatti in quegli anni mi sembrava accettabile l'idea di un dio ma i dogmi religiosi continuavano a non convincermi. Nella tarda adolescenza ero arrivato a sv

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   0 commenti     di: Luigi Lucantoni


Ologramma impoverito delle mie vicissitudini interiori

Avevano interrotto le comunicazioni. Le radio, le televisioni, i giornalisti, le loro stesse menti erano andate a farsi fottere. I cieli sembravano più plumbei del solito, nonostante l'inverno fosse sempre stato abbastanza crudele. Le strade, umide di pioggia, sembravano bocche lascive che bloccavano con cattiveria il volo delle foglie, incollandole alle loro labbra di cemento. Gli alberi grondavano resina e pioggia, nelle giornate di vento non era insolito percepire l'odore delle loro pelli coriacee. Un aroma di marcio e fiori, un profumo che avrei volentieri indossato. Il placido scorrere dei pomeriggi era a tratti ostruito da nubi gravide di altra acqua. Forse era tutto quel succedersi di piogge e fulmini ad aver causato la fine delle trasmissioni dei media. Forse era la stanchezza di tutte quelle persone, una nostalgia come amalgamata in coscienza collettiva. Un sospiro come di discreta rassegnazione. Ne feci parte anche io, prolungando volutamente le ore fino ad ottenere un aspetto consunto, livido e impoverito. Un ammasso di polvere, qualcosa di semplice da spazzare via. Ma in fin dei conti era la notte il vero problema. Quando il soffitto diventava l'unico paesaggio e le mie pupille erano dolorosamente dilatate, accadeva che la mente cominciasse a scivolare sulle proprie teorie. Chi ero? Non ero, forse. Quale sarebbe stato il mio avvenire? Nessuno, forse. La nullità del tutto che mi circondava era asfissiante e la notte, con il suo vestito freddo ed umido, non era d'aiuto. Che il mondo finisca, pensai, che finisca assieme a questi tormenti.



L'invito

Iginia ama molto le minestre di legumi e cereali; detesta, invece, i cavoli che hanno un forte odore. E, poiché, sente il tempo... al sole associa la minestra di pasta con fagioli, con la variante di un buon riso al dente. Ai temporali e alla malinconia, associa i broccoli e tutti i cavolfiori. E la giornata è sempre soleggiata se sul fornello, cuociono i fagioli. La vita appare intensa... piena di prospettive... non statica e incolore, come nei dì festivi, perché non è, con cibi elaborati che si onora una festa religiosa.
Taluni, però chiaman fagiolini anche i bacelli verdi del fagiolo; Iginia, non avendo definito, i propri gusti, non li gradisce. Ricorderà un invito: "Mi ricordo una mensa... per ogni commensale, due piatti: il piano sotto, sopra l'altro: profondo... Donna Ersilia, la mamma di Graziella, poiché il consorte, sarebbe rincasato, solo per cena, mi si rivolse: è quasi mezzogiorno: rimani a pranzo. Io non avrei voluto: mi sentivo a disagio... però per l'insistenza, rimanevo." Poi sul tavolo rotondo, apparecchiato, depose una zuppiera. "Ecco possiamo desinare." Mi aspettavo qualcosa di gustoso o di diverso, ma non singolare... Ma quando vidi, il mestolo approdare, verso di me, con un groviglio d'erba ebbi un sussulto: "Ma questa è erba fresca... Proprio quella che cresce sul laghetto..." Donna Ersilia, insieme con la figlia vide che non mi decidevo a introdurre in quel fondo la forchetta, od il cucchiaio. "Che ti succede? Perché non vuoi mangiare? Ti sono indifferenti i fagiolini?" Non rispondevo... né volli mangiare, nonostante l'invito fosse insistente. "Che usanza strana...! Lo dirò alla mamma, che qui si mangia canne per fagioli..."
Poi, di ritorno a casa digiuna e anche mortificata, rispondevo alla mamma che mi chiedeva: "Allora? Sei stata bene, in compagnia di Graziella e di sua mamma? Hai mangiato qualcosa di diverso?" "Eccome!" Le risposi: "Non ti puoi immaginare: il piatto era profondo e conteneva le canne del laghetto... ma i

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Consola quelle lacrime!

È un giorno di festa e io cammino tranquillo su una strada secondaria dell'anonima periferia di Torino. La desolazione circostante è così perfetta che per un bel po' penso di esserci solo io da quelle parti, ma non è così. Davanti a me c'è un incrocio stradale; là noto una donna sulla cinquantina, una signora come tante. Sta guardando con una strana attenzione verso il marciapiede opposto; dove io però non vedo nulla di particolare. È indecisa se attraversare o andare via; poi la sento dire ad alta voce "Chissà perché sta piangendo?... Va be non importa" e con fare ben deciso fila dritto per i fatti suoi. Mi passa accanto senza degnarmi di uno sguardo.
Arrivato all'incrocio mi accorgo che c'è un altra donna. È vestita di cose povere e abbinate con cattivo gusto. Sulla sessantina. Ha i capelli lunghi e trasandati, il volto distrutto dalla vita. Grassa, con delle gambe molto gonfie. È tanto turbata e cammina di qua e di là. Fa fatica nel muoversi e il suo ciondolare mi ricorda un pinguino. Piange.
Lei mi vede, capisce subito che ho intenzione di avvicinarmi e urla "Quel bastardo mi ha portato via la collana". Mi colpisce il fatto che nonostante la rabbia quel urlo non riesce a essere cattivo. Mi avvicino a lei, il suo tono di voce ora è solo di una donna ferita, completamente privo di aggressività, rancore o altro. Non riesce a smettere di camminare avanti e indietro: mi da l'idea di non sapere nemmeno come bisogna reagire alla situazione, che per lei è molto forte.
Un ragazzo dai pantaloni marroni l'ha scippata di una catenina d'oro che aveva al collo. Ha paura che il marito non gli regalerà più nulla, giorni fa gli sono anche entrati in casa. Ora non ha più preziosi. Nel dirmi queste cose ho la sensazione che ingenuamente cerchi di giustificarmi il suo essere turbata, il suo pianto.
Le sue lacrime sono come quelle di una bambina completamente indifesa ai soprusi. A lei non resta che soffrire ogni volta che qualche stronzo le fa del male. I

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   3 commenti     di: Pepè



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