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Racconti su avvenimenti e festività

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The Big Fella

Quando Lebron James ha superato Kareem Abdul Jabbar nei punti realizzati in NBA mi è tornata in mente una massima citata negli anni '80 - 90 da Dan Peterson.
"Ci sono verità, mezze verità bugie e statistiche".
Le statistiche in fondo hanno il compito di raccontare il passato con dati numerici ma non lo interpretano. Non lo fanno dal punto di vista estetico o emozionale. Che siano occupati operai, ingegneri o sportivi è lo stesso, la percentuale di occupazione di un paese è quella data dalla somma di tutti.
Ma è dal punto di vista estetico e emozionale che le cose tornano ancora meno.
Il gancio cielo di Kareem era la sublimazione del balletto col in mano il pallone a spicchi, estetica e pratica, poesia e concretezza. Quando partiva il gesto era spettacolo, sublimazione. Se poi centrava il canestro allora era la prova del finalismo evoluzionistico. Tutta l'evoluzione cestistica dell'arte del pivot si concentrava in un gesto che dipendeva solo da se stesso, non c'era modo di fermare il gancio cielo ed innamorati dalle divise giallo viola nella televisione a bassa definizione ci deliziavamo della bellezza.

Era la "verità".
Poi venne la "statistica" e Lebron lo ha superato.
Ma lasciateci ricordare la assolutezza di Jabbar.



Rosso

Il Professor Redford era fuori di sé, come sempre più spesso accadeva.
Seduto sulla sua poltrona, coperto da un plaid a quadri verdi e blu, farneticava nel suo mondo come sospinto su una zattera alla deriva.
Dietro di lui il balcone lo illuminava lasciando visibile solo la sua silohuette. Sapevo che i suoi occhi mi osservavano senza vedermi, mentre mi avviavo verso l'altra poltrona che gli stava di fronte dopo averlo salutato con affetto.
"Buongiorno Professor Red " gli avevo detto con un sorriso.
Era stato il mio professore d'inglese del liceo. Era gallese e se ne vantava. Aveva un buon accento italiano, non comune fra i parlanti anglosassoni e un aspetto poco britannico quanto il passato da rugbista. Era infatti un uomo di piccola statura, piuttosto leggero, con folti capelli neri picchettati di grigio. La stempiatura lo faceva somigliare a Lev Trotsky di cui condivideva anche l'ideologia; per questo nel nostro istituto tutti lo avevano soprannominato professor Red.
John Redford mi aveva osservata per un attimo e aveva sorriso dicendo:
"Ciao cara, da quanto tempo!"
Ero stata da lui il giorno prima, ma non lo ricordava.
"Siediti qui" aveva detto battendo col palmo della mano su un pouf che gli stava vicino, alla luce del balcone che affacciava sulle montagne viola, nel tramonto immobile. Seguendo il suo comando, mi ero seduta in silenzio, mentre lui si era girato a guardare fuori, poi mi aveva osservata nuovamente. Il suo sguardo faceva riaffiorare i miei ricordi.
Indietro nel tempo, mi rivedevo all'entrata del liceo, mentre mi spiegava quanto fossero importanti le acca aspirate nell'inglese standard. Mi parlava ed io pensavo di non aver mai visto in vita mia occhi più belli: un blu chiaro, compatto, intenso come certi mari lontani. Doveva essersene accorto, poiché ci eravamo interrotti in un breve silenzio imbarazzante senza alcun seguito.
Alla luce limpida che ci avvolgeva dai vetri del balcone, i suoi occhi erano ancora intatti, escluso per un

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La lepre

Le brume del mattino sfioravo i ciuffi d'erba bagnata che brillava come coperta da mille lustrini d'argento. La notte era passata nell'attesa: la caffettiera già pronta per il mattino, i pantaloni ben piegati sulla sedia, il rumore del ticchettio della sveglia che scorre lento nella buia e lunga notte.
Poi, dal balcone socchiuso i primi timidi raggi dell'aurora che accarezzavano il mio volto assonnato. Non c'è più tempo, ci si deve preparare: l'acqua fredda per rinfrancare lo sguardo, il profumo del caffè per preparare questa nuova giornata. La mano scorre veloce lungo la fibia della cartuccera, lo sguardo scruta il ferro lucente del fucile; nel cortile Jack e Furia, quasi sentissero la trepidazione che mi passa in cuore, iniziano ad abbaiare piano, come a dire: "Eccoci, siamo pronti! Saremo con te oggi". Il campanile scocca l'ora mentre l'ultimo lembo di notte e di nebbia fugge verso l'orizzonte. Ed ecco, io e i miei due fedeli segugi, i miei fedeli compagni, addentrarci tra le stoppie e i prati freschi di sfalcio.
Jack corre ad odorare ogni cespuglio, Furia scruta ogni ciuffo d'erba..."Cerca Jack, forza forza Furia"... i cani si cercano, il muso in una attento lavoro, in una smaniosa ricerca, poi Jack che fa sentire forte la sua voce, Furia lo raggiunge i due iniziano a seguire la traccia come in una danza primordiale... corrono, si fermano, poi sembra sia stato tutto un errore, Jack si avvicina : "Bravo Jack, bravo, dai continua" e gli passo la mano sul muso per dargli la mia fiducia. Furia continua ad abbaiare, ad un tratto i due iniziano a correre più forte : "eccola, ecco la lepre che cercavama!". Bella con il suo manto grigio e le sue possenti zampe. Corre, fugge dall'abbaiare continuo dei segugi che la inseguono, procede veloce, compie lunghi salti e d'un tratto si immerge nel fitto del bosco. I cani la seguono, ormai hanno visto la preda e sarebbe difficile farli tornare. L'abbaiare si perde tra gli alberi e i rovi, ad un tratto cambia strada e si sent

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   13 commenti     di: Massimo G.


Il giusto di Binasco

Secondo quanto riporta il Mosaico, Bollettino della Comunità Ebraica di Milano: "La comunità di Milano risale all'Ottocento.
In città, infatti, capitale del ducato dei Visconti, prima, e degli Sforza poi, era sempre stato concesso agli ebrei di fermarsi al massimo tre giorni consecutivi per sbrigare i loro affari.
Per questa ragione essi risiedevano in località vicine, come Monza, Abbiategrasso, Melegnano, Lodi, Vigevano, Binasco, e andavano ogni giorno a Milano.
Questo pendolarismo fu possibile fino al 1597, anno in cui furono espulsi." Tale ospitalità confermata anche da una rapida "spigolatura" su internet digitando "Ebrei e Binasco trova poi degna segnalazione negli anni bui delle persecuzioni razziali e della "soluzione finale" nella storia e nelle vicende umane di Augusto Weiller, avvocato milanese, sfollato con la moglie, la figlia e il figlio in questo piccolo paese a metà strada tra Milano e Pavia.
Così, molti anni dopo, ne descrive il ricordo il figlio, ing. Guido nel libro autobiografico " La bufera. Una famiglia di ebrei milanesi con i partigiani dell'Ossola"-Edz. Giuntina:..." Nel tardo pomeriggio dell'8 settembre, aspettavo, a Binasco che papà, mamma e Silvana arrivassero da Milano"..." Milano era semidistrutta, le strade in cattive condizioni, molto gli "sfollati pendolari"..." Ero uscito dal nostro "monolocale con servizi ed angolo di cottura"..."Ad un certo punto sentii una voce lontana che gridava una frase, ripetendola più e più volte, che all'inizio non capivo. Poi le parole si fecero più chiare " La pace sia con voi! A ripeterla era un contadino, che avanzava, in piedi su un carro a pianale basso trainato da un cavallo al passo, tenendo in mano le redini e facendo gesti larghi con il braccio libero"..."Tre o quattro giorni dopo, non ricordo la data esatta, papà ascoltò alla radio, la piccola radio rimediata, sistemata sul comò, una trasmissione in tedesco. Non ho mai saputo se fosse la voce di Hitler o di uno dei suoi; a tra

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Poteva essere e non è

Poteva essere e invece non c'è, altro tempo assieme, altro tempo a scrutarci negl'occhi chiari mentre ti accarezzavo le palpebre infastidendoti. Mi piaceva molto toccare quelle parti di te che forse nessuno le avrebbe trovate particolarmente attraenti; i denti, le palpebre, le ciglia, la pancia. Mi piaceva la sensazione che provavo, che si prova toccando il velluto, che dalle mani, dai polpastrelli mi pervadeva sino ad arrivare alla testa, annebbiandomi la ragione, per poi giungere lì, nella palude del sesso. Poteva essere ancora.
Non ci siamo più capiti, più dedicati, più tollerati. Potevamo condividere, anche il silenzio della statistica o dell'arte interessandoci l'un all'altro, dandoci ciò che chiedevamo solo per sentirci ancora amati. Ed è così che ci siamo sentiti entrambi: Non amati. Oggi "Non è", è come ti chiami nel mio cellulare.
Rileggo nei tuoi versi come mi vedevi più di un anno fa. Non bella, probabilmente non simpatica, non signorina, non serena ma di sicuro, non inibita. Felice di quel momento trascorso assieme. Non ci conosevamo neanche allora, ma eri la persona più bella che in quel momento conoscessi. Sotto l'acqua che scorreva, fra le risa che intervallavano getti freddi e getti caldi, il tuo sorriso me lo ricordo ancora. Non credo che lo dimenticherò mai, ma vorrei farlo. Giusto solo per sopravvivere mentre tu vai avanti.
"Se non ridi lascia stare", dicevi. Forse è per quello che ci siamo lasciati, ma sai... non credo che si possa ridere sempre nella vita, perderebbe quella magia che poi ti ha fatto scrivere di me, quella magia che ti ha fatto accorgere della mia voglia di te in quel giorno estivo.
Sarebbe bastato tenerci per mano più spesso, in modo tale che forse, dico forse, sarebbe stato più difficile districarsi le dita. Tornerai? Non è persa la speranza.
A volte mi chiedo se a te capita di sentire ancora la mia pelle sotto le dita...
il mio odore, la mia mancanza. Io non credo ma sono femmina per cui mi concedo i

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   0 commenti     di: elena


Viale Edison

“Lo sapevi che la vetta occidentale del Kilimangiaro è chiamata Casa di Dio?” Mauro aveva l’aria di uno che sta confessando una rivelazione. Roberto cercò di essere contenuto: “Ah, bene…”
ma quello insistette: “Eh, sì, tu pensa che sono 5895 metri, la montagna più alta d’Africa, no?”
Mauro era mezzo infossato in una poltrona sommersa dalla polvere, annaspava tra libri e annuari cenciosi con l’aria dello studioso, del bibliofilo; annusava quasi le pagine, le soppesava, se le passava tra le mani candide e adipose con cura chirurgica, stucchevole, di sicuro affettata. Quando trovava qualcosa a suo dire interessante strizzava gli occhietti da dietro le spesse lenti, poi, con un ché di compiaciuto si rivolgeva verso Roberto battendo l’indice sulla carta. “Tu pensa che erano i Maori a chiamare il Kilimangiaro Casa di Dio… chissà come si diceva nella loro lingua…”
“Ngàje Ngài.” Fece Roberto mentre stava tentando di riporre un pesante scatolone sulla mensola più alta dello scaffale. Mauro non la prese bene, si tolse gli occhiali, come per eliminare qualsiasi filtro tra sé e il mondo, poi staccò la schiena dalla poltrona di pelle, lasciando una oleosa ombra di sudore sullo schienale: “E tu come lo sai?” Il tono era quasi di sfida. “Ho letto Hemingway, Le nevi del Kilimangiaro, mi pare fosse questo il titolo.” “Ma che bravo… Ah Hemingway… già, già…” Mauro era abbastanza infastidito, non cercava nemmeno di dissimulare quel suo atteggiamento indisponente e volgare. Ma con tutta evidenza faceva parte del suo carattere. Roberto non lo sopportava, ma aveva bisogno di lui, gli serviva la sua biblioteca, o meglio, la biblioteca del padre di Mauro, un archivio veramente fornito, parecchie prime edizioni pressoché introvabili. Valeva la pena?
Il clima di ottobre stava rapidamente precipitando verso un freddo plumbeo, annoiato, senza speranza. Roberto lo sapeva benissimo. Sapeva che presto o tardi sarebbe ritornato

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Natale

Ed eccoci qua...
Anche quest'anno il Natale è ormai alle porte... In ogni angolo delle città, è tutto un'intermittenza di lucine colorate.
Alberi e viali illuminati...
Dai balconi delle case, pendono strani   "pupazzi vestiti di rosso", intenti a salir la scala ed intrufolarsi negli appartamenti a lasciare, per la gioia dei più piccoli, una caterva di  regali.. alcuni utili, altri privi di qualsiasi significato...  
Le vetrine dei negozi  sono vestite a festa, con gli abiti più lussuosi e scintillanti che mai...
Glitter e paillettes sono le parole d'ordine...
Rosso, argento ed oro... I colori del Natale (li chiamano)
Volantini, cartelloni e brochure dei grandi magazzini, sono stati  disegnati, colorati e riempiti apposta "di Natale"...
 
Come formiche, ci si accalca nella mischia, per accaparrarsi gli ultimi regali... Che poi... il più delle volte, non sono apprezzati, perchè destinati a persone sbagliate delle quali ci si è ricordati all'ultimo istante, oppure perchè , solo il giorno prima, qualcuno che non era nella lista ci ha fatto un pensierino e allora bisogna sdebitarsi...
Folli corse al giocattolo più grosso che c'è... poco importa se idoneo o no... poco importa se dietro quel gioco qualche bambino ( magari della stessa età di colui al quale  è destinato quel gioco), abbia dovuto dimenticare cosa sia la gioia di un regalo o semplicemente smettere di giocare perchè ha necessità di lavorare..
Nelle case poi... impazza la mania dell'albero più grosso ed addobbato... Quasi ci fosse un premio da vincere...
C'è di tutto su quei rami... Palle colorate, ma rigorosamente colori che nn facciano a botte tra loro (un po' come si fa con i vestiti ) rosse e dorate, al massimo argentate, ma mai e poi mai aggiungerne altre di colore blu, tutto al più bianche o trasparenti con leggere sfumature... Se poi sono di vetro e  soffiate a bocca... ancora meglio...
Pupazzi di stoffa (uno per ogni forma)... ghiaccioli pendenti e per finire... f

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   1 commenti     di: Lucia



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