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Racconti su avvenimenti e festività

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Aisha 2 il fatto

Qualche mese fa, dopo avermi ”sfruguliato” per ore, per il cambiamento della mia vita (lui è stato il primo al quale ho raccontato di Francesca), Tonio mi fa :
- ”Senti Prof non so se potrai aiutarmi, ma ho bisogno di raccontarti una cosa, per la quale mi trovo un po’ incasinato” “Ahi Ahi” gli ho risposto, ”hai beccato una ragazza che ti ha finalmente riacceso il cuore? E poi sfotti me? Bastardo?! ”No, non è questo, c’è di mezzo una mia alunna, ma il problema è ”di molto” diverso e complesso (da che insegna in Toscana, talvolta ”la mi parla” come il Benigni!)
La storia è più o meno questa: Aisha è una mia alunna, quinto ginnasio, è nata in Italia da genitori tunisini, di religione islamica; ha sempre dichiarato ai compagni in classe che le origini della sua famiglia non le avevano mai creato problemi d’integrazione, nè mai le era stato imposto l’uso del velo (nonostante la madre lo portasse rigorosamente) quindi, di fatto, per nascita e per cultura lei si definisce italiana a tutto tondo (scherzando sul fatto di essere alquanto grassottella).
In classe ho altri 3 ragazzi ”stranieri”, una in particolare, nata anche lei in Italia da genitori misti, mamma russa e papà veneto, è un vero fenomeno, sia in capacità culturali che……fisiche! Ma lasciamo perdere.
Il fatto è che da un po’ di tempo vedo Aisha, come dire, assente? Preoccupata? Indifferente alle sollecitazioni sia mie che dei compagni di classe. Sai come sono fatto, sai che vedere qualcuno in ambasce mi provoca ansia, e allora sono stato lì a stuzzicarla, a blandirla a cercare di spezzare quest’aura di imbambolamento. Ma non ho ottenuto nulla, anzi, forse ho fatto peggio; ho fatto aggravare la sua posizione ”autistica”.
Ne ho parlato con i suoi amici; pare che nessuno se ne freghi più di tanto, ma, Olga, che in realtà si chiama Helogher, la ragazza con la madre russa, mi ha detto che forse è un problema fisico, forse Aisha si vede “

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   3 commenti     di: luigi deluca


Supermonteradio 100. 2 Mz (prima parte)

Autunno, quasi inverno, 1977
Da quando la nebbia ha cominciato ad avvolgere le parte alta della montagna su cui si arrocca, come un muschio variopinto, l'abitato di Montepiano, la sera, puntualmente, la colonnina del mercurio scende di circa cinque gradi per cui l'orologio-termometro-datario piazzato sulla parete sovrastante la vetrina della cartoleria-edicola-tabaccheria di piazza Monumento segna costantemente circa dieci gradi al calar del sole riducendosi a poco meno di cinque all'approssimarsi della mezzanotte, e non si è che ai primi di novembre ma a settecentocinquanta metri di altitudine.
Come tutte le sere, in ogni periodo, tempo e stagione dell'anno, dalle ventuno in poi tutto il perimetro di piazza Monumento è una linea continua e ininterrotta di auto parcheggiate, e quando raramente qualcuna se ne va, sgommando, viene istantaneamente rimpiazzata.
La piazza è abbastanza grande da contenere così allineate una trentina di macchine aventi come unico comune denominatore l'autoradio ad alto volume, spesso intervallato da grida e lazzi degli occupanti intenti a sfottersi tra loro.
Il resto del paese appare come l'anticamera dell'obitorio ma piazza Monumento, con i suoi tre bar quasi equidistanti fra loro e l'altra piazza del paese, piazza Cavour, lontana circa duecento metri, con l'unica strada che la collega alla prima, pomposamente denominata corso Garibaldi, ma larga da sei a otto metri appena, pullula di vita sebbene tende a scemare con l'avanzare incalzante della notte.
Nella vechia Ford Escort del sessantatré color amaranto sbiadito Franco Dicaro, sbadigliando e ruttando contemporaneamente, lacera un provvisorio silenzio e sbuffando di noia, dopo essersi puntellato con braccia e mani contro il volante, prorompe:
"puttana miseria, porca e maledetta, ogni sera è sempre la stessa solfa, se non si fanno le dieci quel morto di sonno non arriva. Mi sono rotto di aspettarlo".
"perché hai di meglio da fare?" lo apostrofa sghignazzando G

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   3 commenti     di: Michele Rotunno


Stralci della conferenza stampa del primo uomo ad aver viaggiato nel tempo

(..) E così decisero che sarebbe stato un ragazzino il primo a viaggiare nel tempo. La scelta cadde su di me per due fattori: il mio altissimo q. i. che mi rendeva il più affidabile tra i pretendenti ma, soprattutto, il fatto che, essendo orfano, nel caso nessuno sarebbe venuto a reclamarmi. Nessun modulo da far firmare, ne assicurazione da stipulare, quindi. Probabilmente pochi di voi ha mai sentito parlare di questo progetto prima di questa mia conferenza stampa. La chiesa ci era stata talmente con il fiato sul collo, per la paura venissimo a conoscenza di verità scomode, che abbiamo dovuto far finta di chiuder baracca ricominciando tutto di nascosto. Non mancando gli investitori fu cosa abbastanza semplice. L’ esperimento per come era stato previsto non doveva essere solo un’indagine scientifica e la prova innegabile del raggiungimento di un livello tecnologico altissimo, ma l’apri-strada per una rivoluzione nella storiografia. Con i miei appunti infatti la “compagnia” avrebbe potuto ricostruire periodi storici rimasti oscuri, colmando le lacune che i “cronisti” nel corso degli anni avevano creato. A questo scopo mi dotarono di vari gadget con i quali potetti registrare e filmare tutte le mie avventure e non solo. Avevo inoltre un traduttore istantaneo per poter dialogare con chiunque avessi incrociato sul mio cammino e un dispositivo spazio-temporale che ogni due mesi mi spostava in un’altra epoca. E per non farmi notare troppo, mi fecero indossare una speciale tuta in grado di trasformarsi adeguandosi all’anno in cui mi trovavo. Non mi furono imposte regole specifiche, ma non avevo neanche particolari libertà. Mi dovevo limitare ad osservare e trascrivere, sfruttando a mio vantaggio le varie situazioni. Fondamentale era non influire sul corso della storia:se avessi cambiato il passato chissà cosa sarebbe successo ai giorni nostri! Dovevo essere concentrato a non attirare su di me attenzione, essere quasi invisibile insomma. Immagino avret

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   7 commenti     di: Marcello Affuso


Bastava non pensare

Fumando l'ennesima fortuna blu capì che bastava non pensare. Doveva solo capire come.
Bevve un caffè amaro, guardò il Colle Oppio, ascoltò lo stridere dei gabbiani e cominciò a bestemmiare.
Viaggiò sulla metro B, lesse che erano vietate tante cose, ad esempio fumare. Si accese una sigaretta e smise di leggere.
Arrivò al lavoro, andò in bagno e lo trovò rotto. Accadeva spesso. Decise di inviare tre email. Ordinaria amministrazione. Spacchettò le serigrafie per l'invio natalizio e ci pisciò sopra. Chiaro, non aveva più un lavoro ma doveva pur sempre pisciare.
Capì finalmente come poteva non pensare.
Scese in strada. Fece un respiro profondo. Lo smog aveva l'odore ed il sapore del fumo passivo. Si accese una fortuna blu. Quello che contava era il percorso e non la meta. Cominciò a camminare.
L'asfalto gli sembrò un nastro che sussurrava di andare, una sorta di sirena post-moderna con gli occhi grigio ardesia ed i solchi del tempo. Vide uno stormo di gabbiani e decise di non farsi domande. Tanto lo sapeva che il mare non c'era.
Raccolse alcune pietre. Le mise in tasca. Aveva tasche grandi e grande era la voglia di alleggerirsi. Vide uno specchio che rifletteva l'immagine di un rottame. Pensò di essere lui. Guardò bene. Era solo un frigo arrugginito. Restava il più bello del reame.
Prese il frigo e lo scagliò contro lo specchio. Si assicurò che non vi fossero altri specchi. Meglio non guardare. Di rottami quel giorno ne aveva già visti. Mise una mano in tasca e accarezzò le pietre con un gesto deciso e cortese. Lui sapeva perché.
Arrivò alla fine della strada. Si girò e ricominciò a camminare. Non era un percorso a ritroso, disegnava una nuova traiettoria.
Quattro passi. E si fermò. Un gatto nero attraversava la strada. Con rapidità prese una pietra dalla tasca e la scagliò. Non era superstizione. I gatti li detestava esteticamente.
Otto passi. Aveva camminato abbastanza. Si sdraiò lungo la strada e si addormentò. Si sveg

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   4 commenti     di: Marco Roca


La terra non muore mai

-Cosa avrai indosso? Cosa indosserai quel giorno?
Quella domanda ruppe la quiete della domenica mattina. Parlava con voce chiara, seppure fosse un po' rotta. I respiri incespicavano tra le parole, come se stesse trattenendo dei piccoli singulti.
Sua moglie non rispose. Guardava le ante dell'armadio della stanza da letto, chiuso, bianco, immacolato. A quella domanda, la testa riprese a scoppiarle.
-E se fosse domani? Cosa indosserai domani?
Di nuovo, insisteva. Non voleva rispondere. Quale domani? Non avrebbe avuto nessun domani, lei. Non voleva immaginare un seguito alla loro storia, dei giorni in cui avrebbe respirato, pianto, riso, e delle notti in cui si sarebbe obbligata a dormire, avrebbe respirato, pianto e col passare del tempo riso.
Si alzò di scatto e iniziò a riordinare i loro vestiti, sparsi sul letto, alcuni spiegazzati, altri già impilati uno sull'altro. Stava cambiando stagione, era tempo di tirare fuori golf e calze un po' più pesanti, e pantaloni di flanella. Le sue mani si muovevano frenetiche da un maglione all'altro, così i suoi occhi, e dentro di lei non riusciva a stare ferma. - Che cosa farò? Che farò??- pensava - non te ne andare, ti prego ti prego non farlo. Non prenderlo, ti prego.
Dalla testata del letto lui si allungò fino ad afferrarle le mani, le strinse, se le portò al petto. Lei si fermò. I suoi pensieri si paralizzarono, e poi con un tuffo al cuore sentì ancora una volta, lento e stanco, il respiro regolare del marito, e poi il suo, frenetico, affannato, terrorizzato quanto lei, vigile come una lepre in fuga in mezzo agli spari. In quel momento qualcosa dentro di lei si scaldò, vide quella piccola lepre rallentare, fermarsi e, finalmente, annusare l'aria serena. Un'altra volta, il suo cuore si era calmato. Lo guardò, gli occhi le divennero lucidi: lui sorrideva.
Le indicò con lo sguardo una maglietta bianca con dei fiori di giglio disegnati sopra, una gonna nera, larga, che le arrivava al ginocchio. Lei prese una

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   0 commenti     di: tinie M.


Come una Stella

Mi chiamo Whois,
ho diciannove anni
e sono una donna distrutta da un...
barattolo di nutella.

(Epitaffio sulla mia tomba).


Nel cuore della notte, una notte nera e profonda, che più nera e profonda non si può, mi sto avvicinando furtivamente alla cucina.
Questa casa non è grande, ma il corridoio è veramente lungo ed estremamente tortuoso e poi è anche buio: si vede solo il nero ed è tutto veramente nero e ombra, sembra non possa esistere altro in questo momento. Ma nell'oscurità riesco a camminare... e sbatto i piedi contro qualsiasi cosa: contro l'appendiabiti, il portaombrelli, il porta cd, uno spigolo...
A volte neanche capisco contro cosa vadano a sbattere le mie povere membra; ora è la testa contro l'ennesimo spigolo, ora è il piede sinistro contro un fottutissimo chiodino del cavolo che non ha niente di meglio da fare che uscire dal battiscopa...
Stavolta mi sono fatta veramente male.
Maledetta me ed il mio pessimo vizio di camminare a piedi scalzi.

Il fatto è che stanotte non riuscivo proprio a prendere sonno, cioè, all'inizio ho dormito un po', ma sono stata tormentata da incubi assurdi ed allucinanti, del peggior tipo possibile. Sognavo, infatti, di essere a letto e dormire ed in questi casi è la cosa peggiore che può capitare, perché l'incubo diventa verosimile ed il confine tra sogno e realtà diventa sempre più sottile ed insulso.
Stavo sognando di dormire, quando ad un certo punto sento bussare alla finestra.
Poi ad un certo punto vedo la finestra aprirsi e da lì sbuca un omino stralunato, munito di camice bianco e occhialoni spessi spessi stile fondo di bottiglia. È davvero un esserino molto brutto, sgradevole e sgraziato ed io sono veramente turbata dalla sua presenza. Non basta ad alleggerire la tensione il fatto che il mostriciattolo in questione sia veramente ridicolo, oltre che viscido e decisamente brutto, ridicolaggine enfatizzata, inoltre, da certi suoi modi ostentatamente distinti.

L'omino

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E io dormo con la coscienza tranquilla?

Non a tutti è concesso di dormire con la coscienza tranquilla e forse meno che mai a me.
Eh! si perché contrariamente a quanti credono, a dormire è proprio lei: la coscienza!
Ed ecco espormi alla gogna, raccontando pubblicamente i miei misfatti.
Durante un pubblico concorso ho contattato un'autrice chiedendole un sostegno.
E lei per amicizia lo ha dato.
Poi, ho provato a darmi un voto, assegnandomi il massimo del punteggio.
E pufh! Magicamente è comparso!
Poi ho letto e commentato tutte le schede in concorso.
Casualmente, incontro un conoscente che non sentivo da circa un anno (appena!) il quale ascoltando le mie perplessità sul primo punto, mi guarda con un sorriso tra il paterno ed il commiserevole e mi dice: "Figliolo, contattare un'amica per chiedergli una cortesia, non è peccato, purché tu ricambi il favore ricevuto. Non devi imporre il favore, lo devi solo chiedere. Poi sarà la tua amica, nel pieno della sua liberà a scegliere se fartelo, o non fartelo."
Guardai ammirato Mastro Ciliegia che come nella favola di Pinocchio aveva il naso rosso come una ciliegia, ma era talmente saggio che talvolta si nutriva delle sue parole.
Poi aggiunse: "Segui me. Io ho eseguito all'infinito l'invito che tu hai fatto verso amici e non amici (ma questo è un dettaglio!) ottenendo 27 premi, oltre al premio dello scorso anno. Vedi a me non interessa vincere, a me interessa ottenere la visibilità che altrimenti non otterrei."
Incuriosito dal suo punto di vista, chiesi a Mastro Ciliegia cosa pensasse del fatto che avessi commentato tutte le schede in concorso.
Mastro Ciliegia allargò le braccia, respirò profondamente poi emise la sentenza: "Vedi secondo me hai perso il tuo tempo. Ma ciascuno del proprio tempo fa ciò che vuole. Secondo me quelli della Santa Inquisizione stavolta ci sono andati sul pesante. Ma chi si credono di essere? Loro e le loro sante regole! Vogliono cambiare il mondo? Qui ci vuole la gente come me che sa quello che vuole e non ha ri

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   20 commenti     di: Fabio Mancini



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