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Racconti su avvenimenti e festività

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Era ancora notte

Mi svegliai di soprassalto, era ancora notte fuori dalla finestra. Nella stanza l'aria era pesante e tetra, buia e piena di insidie. Amavo il disordine, il mio disordine, d'altra parte ero e sono tuttora un ragazzo come tanti, uno di quei fuori sede che non ha voglia di sistemare due magliette e qualche libro. Era ancora notte fuori dalla finestra, ed era notte anche dentro la mia stanza. Il mio coinquilino ancora dormiva, ed io non avevo il coraggio di alzarmi dal letto e di guardare l'orologio. Non potevo guardare l'orario sull'orologio che avevo appeso al muro, come ho detto la stanza era buia, ma soprattutto detestavo il ticchettio delle lancette mentre studiavo, da cui la decisione di comprare un orologio per il solo fine estetico. Trovai allora la forza e la determinazione di arrivare fino alla scrivania per prendere il cellulare. Tanto vicina al letto, la scrivania, eppure tanto lontana da non essere raggiungibile stendendo la mano. Dovevo proprio alzarmi. Sul display l'orario dava l'impressione di essere insolito. Il mio sguardo non era abituato a metabolizzare quei numeri in quelle condizioni: erano le cinque meno un quarto. Ed era primavera, non avevo lezione, era un sabato di primavera, un caldo sabato di primavera, soleggiato e molto sereno. Eppure ero già sveglio. Sbrigate le prime faccende personali post-sveglia decisi di non perdermi d'animo e di iniziare la giornata con il sorriso e con belle intenzioni per il futuro. Un esame alla porte equivale ad una grande mole di studio; per cui mi rimboccai le maniche e mi misi a leggere qualche pagina del fantastico manuale di biologia che avevo in dotazione, sperando che il cervello fosse abbastanza risposato e pieno di buoni propositi per ricordare qualcosa di quello che stavo leggendo. È inutile dire che la mia iniziativa ebbe insuccesso. I pensieri continuavano a distogliere la mia attenzione dal fantastico mondo della cellula. Le paresti piene di poster, il silenzio, il disordine, tutto troppo perfetto

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   0 commenti     di: Emanuele


Elemosina

Se ci si siede nei tavoli del caffè Campari a Pavia si ha l'occasione di vedere un individuo singolare che fa la spola tra le macchine ferme davanti al semaforo
nei pressi dell'incrocio.
Indossa sempre un giubbotto impermeabile ed un cappellino di lana, si avvicina
ad ogni macchina fa un inchino ed apre le sue mani vuote nell'attesa che su di esse venga poggiata qualche monetina.
Nove volte su dieci viene ignorato mentre i conducenti approfittano della sosta per
smanettare con il telefonino.
Una fanciulla seduta in un tavolo accanto ha appena mandato a quel paese il suo moroso dicendogli a telefonino; "Vaffa..." questo è il nuovo linguaggio comunicativo esplicito e lapidario ghigliottinato negli sms ma efficace.
Una vita virtuale condotta da molti mentre quella vera scorre inesorabilmente
senza interruzioni ed alla quale, mi duole dirlo, tanti, tantissimi non partecipano.
Quel povero illuso seguita ad umiliarsi tra una macchina e l'altra, mentre agli
altri la sua figura è totalmente invisibile.
Mi chiedo che senso abbia, oggi, parlare di solidarietà e di condivisione e dei
valori della vita che vengono sempre più disattesi a favore di una virtualità
che ci sta divorando come il "nulla" della Storia infinita.
La vita quella vera latita e Diogene invano circolerebbe con la sua lanterna alla
ricerca dell'uomo "vero", un uomo capace di comprendere la sua natura di essere
finito e di condividerla con il suo prossimo.
Siamo in un momento in cui l'infinito è inteso come finito e viceversa.
Osservo ancora quell'omino dalla faccia contristata che, ogni tanto, guarda, traendoli dalla tasca i pochi spiccioli raccolti contandoli mentre dal suo volto
scende una lacrima.
Tra poco sarà Natale e mi chiedo come potranno celebrarlo coloro che vivono
nel virtuale che oggi, purtroppo, rappresentano la maggioranza.
Avranno il Babbo Natale o l'albero sullo sfondo del telefonino o dell'hi-phone o
del notebook, pochissimi si ricorderanno del Presepe.
Si

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Supermonteradio 100. 2 Mz (prima parte)

Autunno, quasi inverno, 1977
Da quando la nebbia ha cominciato ad avvolgere le parte alta della montagna su cui si arrocca, come un muschio variopinto, l'abitato di Montepiano, la sera, puntualmente, la colonnina del mercurio scende di circa cinque gradi per cui l'orologio-termometro-datario piazzato sulla parete sovrastante la vetrina della cartoleria-edicola-tabaccheria di piazza Monumento segna costantemente circa dieci gradi al calar del sole riducendosi a poco meno di cinque all'approssimarsi della mezzanotte, e non si è che ai primi di novembre ma a settecentocinquanta metri di altitudine.
Come tutte le sere, in ogni periodo, tempo e stagione dell'anno, dalle ventuno in poi tutto il perimetro di piazza Monumento è una linea continua e ininterrotta di auto parcheggiate, e quando raramente qualcuna se ne va, sgommando, viene istantaneamente rimpiazzata.
La piazza è abbastanza grande da contenere così allineate una trentina di macchine aventi come unico comune denominatore l'autoradio ad alto volume, spesso intervallato da grida e lazzi degli occupanti intenti a sfottersi tra loro.
Il resto del paese appare come l'anticamera dell'obitorio ma piazza Monumento, con i suoi tre bar quasi equidistanti fra loro e l'altra piazza del paese, piazza Cavour, lontana circa duecento metri, con l'unica strada che la collega alla prima, pomposamente denominata corso Garibaldi, ma larga da sei a otto metri appena, pullula di vita sebbene tende a scemare con l'avanzare incalzante della notte.
Nella vechia Ford Escort del sessantatré color amaranto sbiadito Franco Dicaro, sbadigliando e ruttando contemporaneamente, lacera un provvisorio silenzio e sbuffando di noia, dopo essersi puntellato con braccia e mani contro il volante, prorompe:
"puttana miseria, porca e maledetta, ogni sera è sempre la stessa solfa, se non si fanno le dieci quel morto di sonno non arriva. Mi sono rotto di aspettarlo".
"perché hai di meglio da fare?" lo apostrofa sghignazzando G

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   3 commenti     di: Michele Rotunno


L'infanzia di dell'appuntato Catarella

A Caterella il commissario Montalbano ha sempre fatto pensare ad uno sceriffo del Far West. Le gambe un po' arcuate, la camminata dondolante di chi sembra appena sceso da cavallo, i modi ruvidi, il cuore buono e la pistola nella fondina. Eh si, non può fare a meno di immaginarselo con il cappellone e la stella luccicante al sole, come gli sceriffi che vedeva da bambino al cinema del paese. Catarella abitava in campagna da bambino. Quella campagna aspra ed un poco avara che si estendeva nei dintorni di Agrigento, macchiata dal verde degli agrumeti e polverosa come il paesaggio della sfida all'Ok Corral.
Catarella viveva con gli zii, il papà era emigrato in America con il sogno di una terra d'oro, ben diversa dalla terra di fatica e pianto dove era nato e cresciuto. E quella terra fantastica doveva averla trovata e doveva esserne restato ammaliato, tanto che, dopo qualche anno, aveva smesso di mandare i soldi a casa e si era pure dimenticato di avere moglie e 5 figli. La mamma era morta giovane, sfinita dalla fatica che gli anni del dopoguerra imponevano a chi aveva pochi soldi e tante bocche da sfamare, spenta dalla vergogna di essere una vedova pur avendo marito.
Non c'erano state carte, documenti e bolli, non era così che funzionava dalle sue parti. Lo zio Calogero, fratello della mamma, lo aveva preso con sé, e la zia Adelina aveva avuto un figlio in più da crescere a pane, panelle e legnate. Le sue quattro sorelle erano andate in un istituto di suore, erano femmine troppo delicate per poter lavorare nei campi, ed allo zio servivano braccia forti, anche se infantili. La domenica si stava tutti insieme, intorno al grande tavolo della cucina, perché gli zii erano dei buoni cristiani, e volevano comunque tenere la famiglia unita. Intorno a quella tavola erano 13 persone, e tra di esse 11 erano ragazzini. Erano belle quelle domeniche! Le sorelle arrivavano dall'istituto con i loro vestitini a righine, e portavano dentro canovacci annodati le uova, il caci

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   0 commenti     di: Simona Durante


Profeti di speranza: Aldo Capitini

Aldo Capitini (1899-1968) fu ed è un profeta di speranza laico. Fu un profeta ai suoi tempi quando, avendo vissuto la Prima Guerra Mondiale da adolescente, sentì "un interesse e una solidarietà intima col problema di chi soffre, di chi non può agire, di chi è sopraffatto..." e quindi maturò il rifiuto della guerra. Lo fu quando, con l'avvento del fascismo, previde, per l'Italia, un futuro buio e denso di sciagure.

Partendo da questa previsione decise di iscriversi, nel 1933, alla facoltà di filosofia, per costruire la giustificazione dell'opposizione al fascismo. Questa scelta fu dettata dalla sua convinzione dell'intima unione di teoria e prassi, convinzione che è uno dei punti focali del suo complesso pensiero espresso con un linguaggio appassionato, a volte poetico, coinvolgente. Marco Revelli individua al centro del pensiero di Aldo Capitini la Nonviolenza che necessariamente scaturisce dall'unità sostanziale di tutto il genere umano. Ammiratore di S. Francesco e di Gandhi (ma più di Gandhi perché Francesco appartiene al Medioevo e il Mahatma, invece, alla modernità) Capitini si definisce laico religioso e viene definito da Lanfranco Mencaroni apostolo laico. C'è infatti in Capitini una religiosità profonda, antistituzionale e antidogmatica, definita "aperta" e cioè senza discriminazioni, né religiose, né etniche, né razziali. Quando ho letto nella sua autobiografia questa affermazione: " Il Dio per me sarà il Dio della liberazione di tutti" ho potuto misurare tutta la grandezza profetica di questo grande e umile perugino che, negli anni Trenta anticipa la Teologia della liberazione. La religione, per Capitini, come nota Vigilante in un saggio, è farsi infinitamente vicini ai drammi delle persone. Nel 1944 Capitini organizza i C. O. S., centri di orientamento sociale che non dovevano sostituirsi ai Partiti ma precedere la loro struttura e dovevano avere la funzione di sollecitare la gente ad interessarsi alla gestione pubblica. La sostanza

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Sposa di primavera

Era tutto pronto, era quasi l’ora.
La sposa ormai aveva indossato il vestito; preda delle sue stesse emozioni torturava l’orlo del pizzo, primo strato dell’enorme gonna che l’avvolgeva tutta come un vaporoso fiore di primavera.
I suoi capelli raccolti, adornati di rose bianche avevano il compito di attribuirle un aspetto da regina, ma i suoi occhi emanavano l’innocenza, lo stupore che si prova nel credere di essere destata in un sogno.
Eppure la stanza era tutta intrisa del profumo dei gigli che le erano stati portati in dono dai protagonisti della vita di sempre, eppure il sole aveva il calore dorato di ogni mattino, come mai si sentiva leggera, talmente leggera che le pareva di poter spiccare il volo come un gabbiano da un’altura?
La madre, che la conosceva da sempre, intuiva i suoi sentimenti e nascondeva il suo stato d’animo nella frenetica attività di sistemarle il vestito per le ultime foto da ragazza, in quel soggiorno che l’aveva vista crescere.
Pochi attimi ancora, pochi minuti e poi quella sua figlia sarebbe stata tolta dal calore delle sue ali per sempre, perché avrebbe preso a volare da sola insieme allo sposo che tanto amava.
Non tanti anni prima si reggeva a malapena sulle sue gambe ed aveva bisogno di mille cure e della sua presenza costante, perché presa dall’euforia del poter camminare, raggiungeva i posti più impensati destando in lei mille preoccupazioni.
Dove era la bambina che chiedeva i viaggi fantastici delle favole per poter dormire meglio, e dove, l’eco delle sue prime canzoni che imparava grazie alle suore e dove il balbettio delle sue prime letture, là, sul tavolo della cucina mentre lei era intenta a compiere i suoi doveri domestici?
Il tempo troppo breve della sua infanzia era ormai scaduto, ma le si era cristallizzato negli occhi che emanavano una dolcezza tutta nuova: la dolcezza di chi sta per diventare donna ed il distacco che la madre sarebbe andata ad affrontare di lì a poco ne era la prova.
La m

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Una prima volta... differente!

Avevo da poco compiuto diciassette anni, capelli lunghi sino alle spalle, jeans attillati e scoloriti camicetta nera, scarpe da ginnastica, che sembravano sgranocchiate dai topi da quanto erano state usate, birra in mano e cannone di maria in bocca, si si crescevo proprio bene praticamente un chierichetto. Vivevo già solo da un anno a Torino e da qualche settimana mi ero trasferito in Liguria per lavorare come barista durante la stagione estiva.
Di notte per tornare dal paese dove lavoravo all'altro, in cui mi ospitavano amici, facevo l'auto stop, un po' perché non avevo nessun mezzo di trasporto e l'autobus passava sino a mezza notte, mentre io smettevo di lavorare all'una e un po' perché mi divertiva quell'incognita di non sapere mai chi mi caricava.
A volte, erano lavoratori auto muniti che come me tornavano stanchi e scazzati a casa e visto che ero l'unico a far il dito in quelle notti, ormai mi conoscievano...
essere accompagnato da loro era abbastanza noioso, non avevano nulla da dire e la musica che ascoltavano solitamente era terribile. In altre occasioni a darmi uno strappo erano giovani in vacanza, così carichi d'allegria che c'è la contavamo per tutto il tragitto ridendo e a volte fumandoci un cannone insieme. Ma c'erano anche incontri meno divertenti:ubriachi che pregavi solo non andassero dritti nella prima curva, vecchi ricchioni, (così chiamavo all'epoca gli omosessuali anziani) che strisciavano la loro mano sul mio ginocchio con l'alibi di cambiare marcia, poi per vedere se ci stavo, lasciavano un paio di dita, così:come dimenticate sul mio ginocchio.
Ma nelle notti più fortunate a fermarsi erano donne! Solitamente dell'età di mia madre, io andavo pazzo per le donne con l'istinto materno e lo spacco che mostrava le coscie, mentre loro guidando e mi facevano la predica (di quanto era pericoloso fare l'autostop di notte), io arrapato gli spiavo ogni centimetro del corpo! Insomma era il massimo che un diciassettenne, come me

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