Ricordo ancora, avrò avuto 9 o 10 anni, era una domenica pomeriggio di quelle noiose da passare in oratorio, alla "Azzurro..." per capirci: lezione di catechismo, 2 tiri al pallone con gli amici, poi i film di Bud Spencer e Terence Hill da vedere con la bottiglia di gassosa e la stringa di liquirizia annegata.
Quel giorno però alla lezione c'era un missionario tornato per un periodo di riposo dal centro Africa, ci avrebbe parlato di quello che faceva laggiù: della sua missione, delle popolazioni e ovviamente del messaggio di evangelizzazione che portava. Per farlo cominciò mostrandoci delle diapositive meravigliose: savana, foreste, villaggi africani, animali selvatici, la gente del posto ripresa nei lavori domestici e agricoli. Il mio cuore si mise a battere a 1000 e quando alla fine ci chiese chi volesse fare il missionario, senza esitazione, la mia mano si alzò. La mia voglia d'Africa è nata in quell'istante.
Visto che la mia era una vocazione tardiva (a Bergamo preti si "nasce" a 5-6 anni) in famiglia si decise, su consiglio del missionario, di attendere la fine della scuola per verificare che fosse "sincera e profonda". Ovvio che nel giro di un paio di mesi svanì, sostituita non ricordo se dalla raccolta di figurine Panini o dalla collezione di Tex Willer.
La voglia di visitare quei luoghi, invece, ci mise molto più tempo ad andarsene. Spesso tornava nelle mie fantasie prepotente come un colpo di vento che sbatte la finestra, altre volte si insinuava attraverso un'immagine, un profumo, una musica che, subdolamente, mi riportavano in mente quel sogno. Piano piano, col passare degli anni sembrava svanita: il lavoro, altri interessi e passioni, la famiglia e i figli. Poi, quando sei anni fa mi ripresi la moto dopo un lungo periodo di "astinenza", il desiderio di andare in Africa e soprattutto di andarci su due ruote si fece di colpo più tangibile e palpitante. Cominciai a piccoli passi ad "imparare" a portare la moto e a visitare il Maghreb: Tunisia, L
Molti dicono che per vedere l’Africa in movimento è sufficiente mettersi in una qualunque strada di quel continente ed osservare: moltitudini di persone, uomini, donne e bambini sono in cammino lungo le strade durante il giorno, dall’alba al tramonto. Si muovono senza fretta, hanno sempre tempo per salutarsi. Percorrono chilometri e chilometri, tutti i giorni, per andare al lavoro, al mercato, a scuola o per salutare qualcuno. I veicoli che si incontrano sono sempre stracarichi di persone all’inverosimile. Finché c’è anche un minimo spazio all’interno di un’auto o di una corriera la gente sale. C’è sempre spazio per tutti.
È curioso, inoltre, osservare che nei veicoli il posto per i bimbi è fittizio, non esiste, perchè stanno sempre in braccio ai loro genitori. Ricordo a questo proposito che a Matany, una famiglia di nostri amici in partenza per la capitale aveva calcolato di aver ancora spazio nella loro auto per altre due persone. La mattina si sono, perciò, presentate, puntuali, le due infermiere che avevano prenotato quel posto; avevano l’aria tranquilla, salutavano gioiosamente la piccola folla di amici, illuse di portare con sé due figli piccoli, due grosse valige e alcune galline, il cibo necessario per i giorni successivi.
Noi europei non siamo così abituati, come gli Africani, a spartire il poco, o pochissimo a disposizione, sicuramente siamo più portati a dare precedenza alle regole, norme, assicurazioni, orari da rispettare ecc..
Tra i tantissimi ricordi di questi veicoli stracarichi ce n’è uno speciale, di un’esperienza di tanti anni fa, la mia prima esperienza africana, quando ventenne e con tanto spirito d’avventura, assieme ad altri ragazzi e ragazze, padovani e milanesi ho partecipato ad un campo di lavoro in Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, organizzato dai missionari Comboniani.
Ci trovavamo, gli ultimi giorni d’agosto del 1981 a Kisangani, città nel cuore del Congo, nella via di r
Scendo di fretta le scale, proprio un fulmine. Lo vedo già bello carburato, il vecchio compare Omar, mi sa tanto che oltre la sera si è già fatto anche il pomeriggio, lo stronzo. Salgo in macchina perchè il freddo non lo sopporto proprio, neanche per i due secondi del tragitto.
"Ohhh finalmente si rivede... ehh?".
"Te lo detto che non tiravo buca, sono di parola". Rispondo io secco.
" Ehi calmino, dai, allora pronto per spaccarti la testa?".
"Si dai, ma proprio con quelli della piazzetta... ".
"Non ti preoccupare, ho già pensato a tutto io, loro sono diciamo i nostri babbi natale... hanno un bel po' di cose da regalarci". E quando dice regalarci, Omar diventa sempre un po' strano. Gli viene una faccia, una faccia da volpe. Ma è sempre stato così quando poteva guadagnare qualcosa sulla pelle degli altri. Sin da bambino. Sempre. Anche quando c'erano di mezzo quattro cazzate, tipo due figurine, una bottiglietta di cola. In tutto. Poi per un' attimo riprende il discorso:
"Comunque si va al Vortice, ci si fa un po' di birre li, i piazzettari ci offrono quello che ci devono offrire e poi teliamo, e poi su dai, vediamo come va la serata... e in qualsiasi caso ho sentito anche lo Smilzo e Crossi..."
Ottimo. Il ritrovo degli stronzi. No, diciamo, non proprio. Lo Smilzo e Crossi erano vecchie amicizie, diciamo, amici da campetto. Uscivamo assieme a loro quando eravamo proprio piccoli piccoli, quando ancora non si erano intromesse determinate questioni. Più o meno fino ai sedici anni. Ognuno aveva poi preso la sua strada e per una decina di anni c' eravamo persi di vista. Con loro. Omar, è sempre stato in mezzo ai coglioni... I due suddetti elementi li avevamo ripescati una sera che eravamo andati a ballare in un posto e da li avevamo riniziato a frequentarci ancora tutti, come i vecchi tempi quando eravamo pischelli. Smilzo era chiamato così non perchè era magro, ma perchè prima era un ciccione-obeso, ed era un modo "di classe " per prenderlo per il cul
Mi piace fare i tuffi dagli scogli.
È una scemenza, lo so, ho più di cinquant'anni e una discreta trippa, maniglioni dell'amore soprattutto, fatti crescere con costanza e applicazione mediante assunzione di innumerevoli biscottini inzuppati nel caffelatte alle ore più strane, quindi non c'è nessun ideale estetico o sbruffonesco in ciò. Non è nemmeno che io sia un tuffatore, ho cominciato troppo tardi, perchè andavo quasi sempre dove c'era la sabbia, quindi...
Il fatto è che, quando mi costringono ad andare al mare, allora, dopo che mi sono rotto per bene le balle di "snorklinare" in giro per il fondo, rompendo a mia volta le balle a pescetti, conchiglie e ricci marini vari, qualcosa devo pur fare. Non è che possa stare in eterno sotto l'ombrellone a riempire schemi di parole crociate sempre più complicate o a leggere libri di cui mi frega anche relativamente poco. Io, i libri, li leggo volentieri quando non ho il tempo di farlo, ma se mi metti sotto l'ombrellone e mi dici adesso leggi, è dura!
Allora prendo, cammino un po' e finisco sempre negli stessi posti, in prossimità di scogli che, guarda un po', sembrano guardarmi a loro volta e dirmi:- guarda che acqua splendida che c'è qui sotto, si vede il fondo che neanche alla tv... ma tanto tu non ce la farai mai a scalarci e a tuffarti in questo paradiso-. E mi guardano la pancia, effettivamente con la tartaruga un po' al contrario, e mi guardano le gambe, effettivamente un po' troppo striminzite per ciò che ci sta sopra, e scuotono la testa...
E allora mi fanno incazzare! Allora diventa un fatto personale. Faccio finta di niente ma comincio a ronzargli attorno in cerca di una via per salire. All'inizio la cerco facile, perché mica mi voglio far male, soprattutto senza neanche essermi tuffato, ma se non ce ne sono, allora studio bene anche quelle più impervie, facendole prima mentalmente, e poi provandole un po' alla volta, centimetro per centimetro, perché una cosa è immaginarle e un'altr
Siamo arrivati all’angolo con la Cloaca. Prima traversa. L’ambiente è tosto ma la vera Cloaca e più in giù, a sinistra verso il fiume.
Un paio di puttane da strada sorvegliano l’angolo discutendo con il travestito dall’altra parte della strada. A ognuno il suo angolo e che non si faccia confusione. La questione è facilitare i clienti. Che non capiti che uno in cerca di una bella figa si ritrovi con un pistillo fra le mani o viceversa. Quattro sgherri di chissà chi sorvegliano l’entrata del bar del Marione.
Entriamo.
Al bar del Marione si gioca a carte, e si gioca forte. Scope sui mille, briscole sui cinquecento, il poker si gioca dietro, saletta fatta a posta, li le poste diventano da PIL di una piccola nazione.
Gli avventori del Marione quando viene notte o sono abitanti della casba, oppure è gente che viene dal centro o dalla collina, comunque conosciuta e che può passeggiare tranquilla fra questi vicoli sudici perché protetta. Se vengono toccati da qualcuno e meglio che questo qualcuno cambi aria. Portano soldi nella Casba e chi porta soldi non deve essere infastidito.
Ora che è sera c’è la gente che sta tornando a casa, se un tugurio nella casba si può chiamare casa, si fermano a bere, a parlare, o a informarsi sul programma della sera.
Andiamo al banco.
Tutto il bar ci guarda.
Siamo bestie strane, nessuno ci conosce, non siamo protetti e siamo decisamente fuori luogo, per abbigliamento, e modi.
Abbiamo l’aria pero: l’aria di chi si muove bene di chi sa quello che sta facendo. La gente non capisce che specie strana di bipedi siamo e ci guarda curiosa.
Dietro il banco il Marione è enorme.
Ha una barba che sembra un maglione, sta versando vino.
- signori?- ci fa ironico.
- Due caffé - gli risponde Sandro?" corretto stravecchio. Grazie-
Anche il Marione è curioso e ci guarda riflessi nello specchio mentre armeggia con la vaporiera del caffè.
Puzziamo proprio di strano, me ne rendo conto.
Arriva il caffè.
Era da poco iniziata la partita Barcellona–Arsenal, finale di Champions League 2005-06, e, seduto sul bordo di una comoda poltrona del soggiorno, guardavo appassionatamente con gli altri ospiti della casa quel match, augurandomi che, già nei primi minuti di gara, Ronaldinho o Henry sbloccassero il risultato segnando un bel gol. Sapevo, infatti, che per me lo spettacolo sarebbe durato ben poco e che appena dieci minuti dopo, Kikoti, il taxista di fiducia di padre Alojsious, sarebbe venuto a prendermi.
Kikoti molto puntuale, come ho imparato subito al mio arrivo in Tanzania, suonò dopo poco alla porta. Con grande disappunto, fui costretto ad alzarmi. Un’ultima occhiata allo 0-0 sullo schermo, un breve saluto agli altri volontari rapiti dalla partita, e via in taxi, direzione aeroporto.
Da poche ore ero arrivato a Dar es Salaam ed era già sera inoltrata. Le strade di Dar, poco illuminate, si erano svuotate e davano un’immagine veramente irreale di questa grande città, capitale caotica della Tanzania. Il traffico dopo le ventuno si spegne in fretta come le luci delle sue case. Nessuno è più in giro a quell’ora e raggiungere l’aeroporto diventa uno scherzo, neanche trenta minuti.
Scambiavo con Kikoti qualche battuta sull’aspetto della città di notte, ma i miei pensieri erano concentrati su come organizzarmi il resto della serata e l’indomani……quante cose dovevo e volevo fare nelle mie ultime 24 ore in Tanzania!
In aeroporto andavo a prendere Mario, Capo Sala della Sterilizzazione dell’Ospedale di Schio, alla sua prima missione in Africa. Non lo conoscevo e così, nell’attesa, davanti all’uscita, preso un foglio bianco all’ufficio informazioni, avevo scritto in stampatello il suo nome, MARIO, per richiamare l’attenzione di quelli che uscivano con le valigie del volo KLM, l’ultimo della serata. Poco dopo, Kikoti era al mio fianco, sorridente, serafico, stupito dal mio gesticolare continuo con quel foglio. “Tanto gli It
Mi piace la moquette solitamente. Di solito mi piace si. Quando è bella morbida, alta due dita, elegante e raffinata mi piace, si. Non la preferirei mai ad un buon pavimento in ceramica o parquet ma solitamente mi piace, si.
Questa non mi piace invece, sembra un enorme tappeto persiano neo futurista, dove tutti i ricami e i motivi floreali sono diventati dei quadrati blu con dentro dei quadrati gialli, con lo sfondo color porpora e orrende scritte "Admiral" giallo-verdi-pisciodicammello. Salutiamo la simpatica e sorridente receptionista (ma che bella parola che ho scritto), gli rubiamo una trentina di penne rosse e gli dimostriamo utilizzando validi documenti d'identità che abbiamo tutto il diritto di stare lì.
L'ingresso è pieno di slottomacchine, la gente meccanicamente inserisce monete e spera che gli vengano cordialmente restituite altre monete, di solito in quantità maggiore di quella inserita. Ma non è una roba naturale, perchè in natura se pianto qualcosa ci vogliono mesi perchè il terreno mi restituisca dei frutti, non può succedere tutto in pochi secondi. Innaturale. Ed infatti perdono.
Questi ometti e donnette, con i loro bicchieroni di monete non lo capiscono, hanno l'aria "insoddisfattannoiata". Bicchieroni che assomigliano terribilmente ai cestini dei popcorn solo che sono senza linee rosse e grafiche accattivanti. Delle slottomacchine a popcorn che ti restituiscono pizzette, altri popcorn ma caldi e con il burro fuso e crostini con patè d'olive sarebbero fighe, magari in un parco giochi per bambini, per addestrarli a spendere nelle slottomacchine a soldi quando riceveranno il loro primo misero stipendio.
Lasciamo il tappeto futuristico del primo piano per scendere nell'arena, ora il colore è solo porpora-vinaccia. Forse un tempo era rosso-sangue ma non mi importa. Il colpo d'occhio è simile a quello di un Luna Park al chiuso, mille luci, calcinculo (se non hai più soldi), autoscontri (se sei ubriaco). Solita gente annoiata, don
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