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Racconti d'avventura

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La mucca in dono

Quando arrivai nella corsia del reparto maschile, quella mattina, Sampson, il capo sala, m’invitò ad entrare nella seconda stanza a destra, perché un paziente voleva ringraziarmi.
Il paziente, seduto nel letto, appariva notevolmente migliorato e pensavo di dimetterlo quello stesso giorno. Era entrato in Ospedale, pochi giorni prima, con febbre alta, dolore toracico e tosse. Con l'esame clinico era stata diagnosticata una polmonite. Dopo averlo ricoverato nel reparto maschile, avevamo iniziato subito la terapia antibiotica endovenosa. Come la maggior parte dei pazienti con polmonite, il quadro clinico era solitamente così eclatante che non veniva richiesta la radiografia del torace, per una conferma, e anche per non causare ingolfamento in radiologia dove lavorava soltanto un tecnico.
Il paziente era sorridente, contento di sentirsi bene; non parlava inglese e perciò Sampson, infermiere karimojong, anche lui allegro e sorridente, perché sapeva già tutto, traducendomi disse che quel signore voleva ringraziarmi tanto perché, quando era stato ricoverato, pensava di morire, tanto male respirava, ed ora invece si sentiva guarito.
Disse che mi donava una mucca, e mi sembrò proprio molto soddisfatto e orgoglioso di quel suo gesto.
Io mi sentivo così imbarazzato che dissi solo "grazie", cercando nella mente di ricostruire il caso clinico che non mi era mai parso così drammatico. Non sapevo che altro dire, perché era la prima volta, in assoluto, che ricevevo un dono da un paziente particolarmente riconoscente.
Le mucche, sapevo bene, rappresentano per i karimojong lo scopo della loro vita e inoltre questi pastori sono convinti che tutte le mucche del mondo siano per loro; i karimojong sono pastori da secoli, e le mucche non sono utilizzate per la produzione di latte o formaggio, un cibo che non conoscono, e nemmeno per la vendita della carne o del pellame, ma principalmente come simbolo di ricchezza. Più mucche possiedi, più sei ricco,

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   1 commenti     di: Antonio Sattin


Poco tempo

Al mio risveglio la testa ancora mi faceva male. Per quanto tempo ero rimasto privo di sensi? Dove mi trovavo? Avevo ancora tempo a sufficienza per trovarla? Sotterrato da una valanga di interrogativi ai quali non avrei mai avuto risposta, ho fatto appello alle forze che mi rimanevano per cercare di sollevarmi da terra e mettermi in piedi. Solo alzandomi mi sono reso conto che ero a piedi nudi. Una volta assunta la posizione eretta, sempre in preda ad uno stato confusionale totale, ho cercato di capire dove mi trovavo e che cosa ci fosse intorno a me. Non subito sono riuscito in questo secondo intento. I miei occhi, nonostante fossero già in parte abituati all'oscurità, non riuscivano a riconoscere altro che pareti rocciose e alcune sorgenti luminose sparse qua e là, in vesti di fiaccole. Ho impiegato poco a capire che, in effetti, oltre ad un misto di polvere, ragnatele e sporadici cumuli di macerie, non c'era altro intorno a me.
Avevo freddo, come adesso. Il mio corpo debole tremava per la bassa temperatura. Mi sono avvicinato ad una parete, composta da enormi blocchi di pietra umida e gelata. Ne ho toccato uno ma ho subito ritirato la mano perché quel gesto mi aveva provocato un ulteriore brivido in tutto il corpo. Prolungando la panoramica visiva, ho realizzato immediatamente che nessuna finestra era alla portata del mio sguardo. Né chiusa, né tantomeno aperta. Solo oscurità. In mesta conclusione mi sono risvegliato stordito e congelato in un buio e stretto cunicolo dal soffitto alto a dir tanto due metri e mezzo, a piedi nudi e vestito di soli stracci.
Ero in preda al panico. E lo stato d'animo era ancor più giustificato dalla drammatica consapevolezza del fatto che lei aveva bisogno di me. Mi sono sforzato di smorzare la disperazione, riuscendo a stento nel proposito. Soltanto dopo diversi secondi, mentre ancora stavo cercando di mettere a fuoco più elementi possibili all'interno del mio campo visivo, ho deciso di voltarmi. Con mio stupore, una

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   1 commenti     di: Gabriele Lunghi


Sveglia, dottore: c’è un taglio cesareo da fare!

Il reparto al mondo che da più soddisfazioni ad un medico è sicuramente il reparto di ostetricia. Questo si vede, sempre, dal sorriso delle puerpere che cullano i loro bambini appoggiandoli ai loro seni gonfi di latte, dal loro viso rilassato e felice per l'esperienza più bella della vita che, seppur molto dolorosa, generalmente finisce con una soddisfazione immensa. Si vede chiaramente anche in Europa dai mazzi di fiori e dai nastri colorati all'ingresso delle stanze delle pazienti, o posti davanti alla madonnina in fondo al corridoio.
Anche in Africa, sebbene il numero di figli per donna sia elevato, da 4 a 5 secondo le statistiche dell’Unicef, ogni nascita ha le stesse caratteristiche di gran dolore e poi d’immensa gioia. Questa gioia e soddisfazione, notevolmente importanti nella vita della donna africana, vanno a colmare molte altre gravi sofferenze; una di queste è l’aspettativa di vita di questo bambino che ha mediamente il 70% di possibilità di arrivare a cinque anni di vita.
Tante gravidanze, tanti figli, ma anche tanti lutti. Quest'ultimo è uno dei pesanti drammi che la donna africana spesso vive sola perché o senza marito o perché lui è lontano. Al momento del parto però è sempre una gran festa: il padre è presente e con lui tutta la famiglia d’origine.
In Karamoja come del resto in gran parte dell'Africa, il numero dei parti in Ospedale è basso, tra il 10 e il 20%, perché la donna africana è convinta che il parto sia un fatto naturale, che deve avvenire tra le mura domestiche, in una capanna del villaggio, aiutata dalle donne anziane della tribù, come è sempre stato.
Se il parto si svolge nei villaggi, il controllo della gravidanza non è seguito dalle anziane del villaggio, perciò le donne karimojong colgono l'opportunità del servizio pubblico, aperto alle gravide, per visite ambulatoriali e vaccinazioni.
Nell’Ospedale di Matany ho lavorato in ostetricia sia negli ultimi anni '80 sia tra il

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   5 commenti     di: Antonio Sattin


Brigandine

Italia, Roma 2003. Un gruppo di scienziati è riuscito a compiere uno dei loro desideri: mettere in giro un nuovo farmaco, capace questa volta di curare persone con cuore o polmoni gravi. Ciò che doveva essere un successo è diventato invece, un incubo perchè nella creazione del virus è stato scambiato per sbaglio gli organismi di un cuore e polmone buono con uno malato, entrambi presi con la donazione degli organi dei morti. Un dottore spia i loro esperimenti e la notte rompe il vetro della stanza e ruba le capsule con il virus all'interno e fugge. Il caso viene affidato visto la sua importanza, alle O. M. S. (operazioni missioni segrete) e affidate all'agente segreto Flavio Noviello che è la sua prima missione da capitano. Flavio deve scoprire chi ha rubato il virus, come e dove trovarlo e infine riportare il virus nel laboratorio, questi sono gli ordini di missione dal capo delle O. M. S. Claudio Longhi. Flavio si trovò due assistenti molto bravi cioè Marco Pecci esperto in informatica e Alessandro Dominici migliore spia e automobilista. Pecci facendo alcune ricerche su internet scopre che da quando il virus è stato rubato, anche un dottore che lavorava nella stanza accanto mancava, si trattava di Raoul Bosè un ex O. M. S. abbandonando tutto da solo per lontananza. Dal computer, Pecci legge l'indirizzo della casa di Raoul, anche se i tre amici pensano che Raoul se ne sia scappato con il virus, tentano e vanno a casa sua proprio nel centro di Roma. Flavio decide di andare lui a bussare e rischiare, ma non ha scelta perchè è l'unico indizio che ha, ma mette i due amici sotto copertura. Il gioco è quello di vedere se è davvero l'ex agente, vedere il suo carattere e soprattutto riuscire a trovare almeno qualche traccia del virus. Flavio bussa, la porta si spalanca fino a quando non esce una donna che Flavio fissandola molto profondamente negli occhi, togliendosi gli occhiali da sole, chiede alla donna di Raoul dicendogli di essere un suo vecchio amico di l

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Si sa come comincia, ma non come finisce °

Mesi dopo, discoteca Verona 2000, Tex Willer, che di notte diventa, appunto, Aquila della notte, sta ballando con amici e amiche al ritmo di discomusic, mambi e lenti vari.
Con lui un ragazzo di qualche anno più vecchio, che egli, pur essendo già Tex Willer di suo, ammira fino all'adorazione.
Capelli scuri, occhi scuri, barba scura e rada, da duro, cintura nera di karate. Uno sguardo a dir poco assassino che incute timore a tutti, anche se non è un gigante. Ma ha un fisico alla Bruce Lee. E fa veramente paura. Anche a Tex.
Non aveva soprannomi ma per comodità, e per l'incognito, così lo chiameremo: Bruce Lee.
Gli altri, e le altre, non contano. Loro due sono una cosa a sé, anche se limitatamente al combattimento: maestro e allievo, mentore e seguace, messia e discepolo. Con Bruce Lee accanto, Tex non ha paura neanche di Mephisto. O almeno così crede.
Fine dei mambi, iniziano i lenti, guancia a guancia con una squaw che aveva più barba di lui, poi sosta al banco del bar, quindi tappa nei cessi. Uomini a destra, donne a sinistra. Corridoio, lavabi e porte dei cessi vere e proprie.
Neanche a farlo apposta il primo che si libera è l'ultimo in fondo a sinistra e chi vi esce, proprio in quel momento?
Bruce Lee, con la sua solita aria di gatto che ha appena sbranato un topo ma non è ancora sazio. Cenno d'intesa fra i due e via ai lavabi, mentre Tex, pardon Aquila della notte, entra nel bagno.
Quasi subito rumori, tonfi, berci e concitamento. Cazzo succede di fuori?
Fine pisciata, rapida scrollata e poi apnea, per ritirar su la cerniera (le voci nel frattempo salgono di volume e di tono). Esce e di colpo lo vede.
Incredulo, bocca aperta, braccia inerti. Quello che vede non crede.
Un gigante!
Alto, grosso, grande, largo, scuro, incazzato e bevuto fin sopra i capelli!
Strepita, ruggisce, spintona, se la prende con tutti. Non si capisce cosa sia successo, ma l'ha sul col mondo. E col primo che ha davanti. Lo alza, lo scuote, lo molla e gli appioppa un c

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   8 commenti     di: mauri huis


LA FUGA : i brani più toccanti

Propongo alcuni brani del mio primo romanzo LA FUGA che ora è giunto alla seconda edizione:
Quell’appartamento era proprio il mio nido. Mi muovevo a piedi nudi sul parquet tra vecchi mobili presi al mercatino dell'usato, ricordi di viaggi, cuscini cangianti, candele e foto in bianco e nero sulle pareti coloratissime. Dalla cucina arrivava un buon odore di biscotti alla cannella appena sfornati e una sinfonia di Beethoven si diffondeva ovunque, era una musica piena, limpida, a tratti intensa, quasi violenta e, subito dopo, lieve, delicata come un soffio.
Mi sdraiai tra i cuscini sul grande divano rosso, mangiavo biscotti e leggevo la biografia di Evita Perón, che tanto mi coinvolgeva. Era un momento perfetto, pur nella sua semplicità.
Avevo dato forma, colore e odore a quelle stanze; erano il mio rifugio quando cercavo riparo e intimità dalle urla della città che si agitava fuori.
Durante la mia convivenza con Alex non ero mai riuscita a crearmi un posto che mi aderisse perfettamente, nel nostro appartamento scolorito regnava il disordine, la musica era sempre troppo alta, i libri sparpagliati ovunque e le valige pronte per le previste fughe del mio uomo.
Di ritorno da quei viaggi solitari portava sempre con sé qualche novità, nuova energia, una rinnovata sensibilità, e allora, mi scaldava, mi nutriva e mi amava disperatamente, fino poi ad avere ancora bisogno di quel caos interno e cercare nuove strade tra i fili taglienti della sua inquietudine.
Dal computer arrivò l'avviso che stavo ricevendo della posta elettronica, pigramente mi alzai, certa che si trattasse di lavoro, aspettavo giusto delle comunicazioni dall'ufficio.
Lessi chi era il mittente e tutto si fermò, una feroce nostalgia mi graffiò dentro.

«Elena,
come si spiegano a parole le emozioni?
Come si traduce lo sguardo rassegnato e dignitoso di questa gente? E i colori di un tramonto? L' odore della terra dopo un temporale? L'emozione che dà

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Sotto assedio

"Ottimismo pragmatico...
"Cosa intende Capitano...
"Resistere a prescindere, con ottimismo ponderato, ragionato, pratico, giocare le proprie carte fino in
fondo e crederci...
Il Maresciallo Dizzi pensò a quel punto che il suo superiore fosse completamente impazzito.
Nella piccola caserma dei carabinieri di V. , posta in una collina un po' fuori mano rispetto al paese, dal pomeriggio si era scatenata come una guerra. Il clan di V., boss che il Capitano Della Corte aveva incriminato come mandante di una serie di delitti, usura, compartecipazioni ad appalti "truccati", collusioni per potere sul territorio; dal carcere in cui risiedeva aveva lanciato l'ordine a tutti i suoi affiliati, i piu feroci ed addestrato nelle azioni armate, di uccidere il Della Corte e radere al suolo la caserma.
Così, dopo l'uccisione del Carabiniere Pizzuto, da pochi mesi, di guardia, colpito da un fucile di precisione, e quella del Tenente Carli uscito dalla caserma e ucciso allo stesso modo crudele, l'edificio era ora frontalmente assediato dal gruppo mafioso, composto da una decina di persone. Forniti addirittura di bazooka per eseguire l'ordine di sgretolare il presidio, ora pronti all'attacco finale.
Il primo colpo dell'arma, il cui contraccolpo fece quasi cadere in terra l'uomo che sparava, come per avvertimento di far uscire i due ufficiali e ucciderli a sangue freddo seza pietà, colpì il tetto solo sulla parte che non dava sopra l'ufficio del Capitano, leggermente a destra del casottino. L'effetto fu devastane.
Portò via non solo tegole e contro soffitto ma anche parte di mattoni che aprirono una voragine sul muro portante che era nella stanza del Capitano, riparatosi con il maresciallo.


Sia Della Corte che Dizzi si erano subito protetti sotto la scrivania in noce, e Dizzi, sopraffatto dalla paura e il nervosismo prese a piangiere "Mannaggia, è la fine! Ma quanto ci mettono i rinforzi ad arrivare!".
Un gruppo di malviventi cominciò a correre in direzione de

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   0 commenti     di: Raffaele Arena



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