Dicono che l'hanno lasciata morire di fame e di sete,
che assurdità,
lei era morta diciassette anni fa.
Hanno cercato in ogni modo con prepotenza e con falsa pietà
di non lasciarla andare,
non farla più soffrire,
ne lei ne il genitore,
solo nostro Signore ha avuto un po' di pietà.
Hanno detto può ancora procreare,
come lo si può solo pensare,
che perfida fantasia,
è il colmo dell'ironia,
povera figlia mia.
In grande fretta hanno cercato di legiferare
pur di trattenere
quel corpo che ormai stava solo a vegetare,
ed a marcire,
lo hanno fatto per far vedere
che possono comandare,
ma questo non vuole dire un popolo saper governare,
questa è sopraffazione ed al potere solo pensare.
Non mi vengano poi a dire
che tutti i cattolici erano a favore,
statistiche alla mano, eccole qua,
era già molto se come loro la pensavano una metà.
In queste cose ci sono passato col genitore
che mi ha pregato, manda via quel dottore,
in pace voglio morire
è troppo forte il mio dolore.
Così ho fatto, anche se con la morte nel cuore.
Parlano e parlano in tanti per sentito dire
ma queste cose solo chi le ha provate le può capire
e che strazio quello scempio doloroso
giorno dopo giorno dover vedere.
Un conto è dire siamo sempre pronti ad aiutare
ed accudire
senza capire
che non possono loro provare
la stessa sofferenza di un figlio o di un genitore.
Vi prego quando è così meglio lasciarli andare
e non costringerli ad ingurgitare
cibo e medicine per farlo assimilare.
Che sia nostro Signore a giudicare.
Lui che ha pietà
e non come tante persone in questo caso
che tanto hanno fatto solo per apparire
non rispettando il vero dolore.
L'enorme quercia secolare dominava la campagna. L'erba profumata ondeggiava alla leggera brezza, che scompigliava le foglie del grande albero, riccioli verdi e ribelli. Il cielo era terso, di un azzurro intenso, meraviglioso, da guardare per ore senza stancarsi, da guardare per sentirsi fortunati di far parte di questo universo. Emily era seduta sul manto erboso, la schiena poggiata al tronco rugoso della vecchia quercia. Stava leggendo un libro. I capelli, neri come le ali di un corvo, erano raccolti in una morbida treccia che le riposava dolcemente sul lato destro del petto. Ciocche più corte sfuggivano alla semplice acconciatura e le ricadevano sulla fronte e sulle guancie. Si muovevano dolcemente, imitando i fili d'erba al ritmo del melodico vento. Gli occhi azzurri, magnifici coriandoli di cielo, divoravano il libro, nutrendo il suo spirito. La leggera camicetta bianca che indossava, si gonfiava sull'addome, facendola sembrare una giovane donna in dolce attesa. Respirava lentamente, il seno che si abbassava e si alzava quasi impercettibilmente.
- Sapevo che ti avrei trovata qui. -
Emily alzò la testa di scatto, schermandosi gli occhi con una mano affusolata e candida. Sorrise.
- Perdonami.-
- Per cosa?-
- Non ti ho sentito arrivare.-
Il nuovo arrivato le si sedette accanto, sorridendo a sua volta.
- Non mi senti mai arrivare. O sono io che mi muovo silenziosamente, o sei talmente concentrata che non sentiresti neanche una bomba.-
- Quando leggo, entro in un altro mondo.-
- Cosa leggevi?-
Emily chiuse il libro, tenendo il segno con un dito tra le pagine. " Gente di Dublino", scritto in piccole ed eleganti lettere d'oro, ornava la copertina rosso scuro.
- Non male. -
La ragazza lo guardò per un istante. Anche lui aveva i capelli neri, ma i suoi occhi erano scuri e terribilmente profondi. Nascondevano un mondo al loro interno.
- Perché hai scelto questo libro?-
Emily non rispose subito. Era evidente perché avesse scelto proprio quel libro, anch
Non capisco come possa essere successo. Guardavo sempre avanti e la meta, il mio traguardo, non sembrava distante ma ciò che avevo costruito improvvisamente è crollato su sé stesso.
Si lamentava sempre allo stesso modo Matteo e noi eravamo obbligati ad ascoltarlo. E oltre a essere frequenti, i suoi singhiozzi erano anche lunghi.
Ho forse corso troppo provando a vivere i miei sogni oppure la colpa è da attribuire alla cecità verso gli eventi presenti? Aiutatemi!
Continuava così da diversi giorni. Il motivo? Francesca. L'aveva conosciuta due settimane prima alla festa della Libertà e trascorse tutta la serata in sua compagnia. Poi erano usciti un paio di volte insieme. Al cinema, in discoteca, al pub, sembrava ci fossero i presupposti per iniziare una relazione seria. E poi, niente. Prima le solite scuse, "Esco già con un'amica", "Stasera sono stanca", "Ho mal di pancia", poi piano piano smise proprio di rispondere al telefono. E Matteo? Sembrava una fontana, versava lacrime in continuazione e ripeteva le sue lamentele.
Ci tenevi tanto a lei - gli chiesi.
Sì, per me è stata come una salvezza, un angelo. Era una situazione di merda, senza lavoro, litigi continui con i miei e molti dei miei amici che mi avevano voltato le spalle. Mi sentivo morto finche non conobbi Francesca, mi ha dato come una boccata d'aria e così ho ripreso a respirare. È diventata un sogno per me, per questo ero deciso di inseguirlo.
Chiaro. È un'azione nobile inseguirli, nessuno potrà mai venirti a dire che non sia giusto, e se lo faranno saà solo perché saranno diventati invidiosi di te. Non hai sbagliato niente, hai solo confuso l'approccio: invece che rincorrere i sogni, prendili per mano rendendoli reali. Vedrete, andrete lontano insieme.
Avevo solo dodici anni. Un giorno di primavera sull'auto di mia madre che ci portava a quella terribile scuola di danza. Pioveva... poco prima, in casa, avevamo avuto una discussione, io non volevo andare in quel posto pieno di ragazzini tutti uguali con i piedi storti, non volevo anch'io somigliare a una papera, ma era il suo sogno. Non aveva potuto farlo lei da ragazzina e lo desiderava per me, solita storia, sentita e risentita della madre dai sogni incompiuti da fare compiere ai figli. Danza... l'avevo tre volte a settimana, i restanti giorni canto e pianoforte, avevano assunto un maestro privato che veniva tre sere a settimana in casa mia. Tranquillità zero. Forse per questo quel giorno di primavera fu in qualche modo, tragicamente, la mia liberazione. All'improvviso le ruote sbandano, lei perde il controllo della macchina che slitta sull'asfalto reso dalla pioggia scivoloso come sapone. La macchina si ribalta e va a finire contro un palo della luce che cade e finisce su di noi. Su di me. Sulla parte passeggero, proprio sulle mie gambe. Lei sbatte la testa, sviene ed è inerme accanto a me. Il dolore delle gambe mi fa urlare fortissimo, ma lei non sente, urlo e la chiamo ma niente... non mi sente. Finisce in coma per tanti giorni, che mi sembrano interminabili, poi muore in silenzio così com'era stata per un anno. Per quell'anno io non parlo, non cammino, non camminerò mai più, non posso hanno amputato tutte e due le mie gambe. Seduta sulla mia sedia a rotelle compongo melodie al pianoforte, piccolo Chopin così come lei desiderava, piccolo Chopin senza gambe. Odiavo danzare e questa è stata la punizione divina per avere fatto arrabbiare mia madre proprio su quella macchina, l'ho uccisa è stata colpa mia, questo è il mio prezzo da pagare. Se non vuoi danzare, non avrai più le tue gambe, non sarai altro che un candido cigno storto. Questo deve aver detto Dio puntando il suo divino dito sulla mia testa. Mio padre non mi guarda più in faccia, forse mi
[continua a leggere...]Dopo l'ennesima buca non mi trattengo più e do libero sfogo ad una sequela di imprecazioni maledicendo il momento in cui mi sono deciso a prendere la vecchia provinciale malridotta da fare schifo. L'ho fatto per accorciare il tragitto verso il paese di una decina di chilometri pur sapendo che la vecchia strada è ormai in disuso, solo non immaginavo lo stato in cui si trova. Dopo un duro giorno di lavoro caracollando da una fattoria e l'altra per l'intero contado di Montepiano, il mio paese, a controllare il bestiame di tutti gli allevatori sotto la mia giurisdizione non vedevo l'ora di tornare a casa. Non ho con me alcuna bottiglia di Montenegro, quello lo danno solo ai veterinari nella TV non ai miseri come me. Ormai non manca molto, solo una mezza dozzina di chilometri e solo due per l'ultima borgata che si trova lungo il percorso. Qui, però, non devo fermarmi, mi risulta sia del tutto abbandonata. A darne una parvenza di civiltà solo tre lampioni stradali che miracolosamente al tramonto si accendono di una luce rossastra.
Appena uscito da un'ampia curva che imbocca un rettilineo lungo circa mezzo chilometro la macchina ha un brusco sobbalzo, quasi un singhiozzo. Istintivamente do un rapido sguardo alla strumentazione di bordo, non ci sono spie accese e anche il livello del carburante non raggiunge la riserva. Probabilmente nell'ultima buca qualcosa ha fatto contatto e per qualche istante la macchina ne ha risentito. Mi trattengo a malapena di accelerare, il rettifilo mi invoglia a farlo, il buon senso me lo sconsiglia. Improvvisamente un vivido bagliore proveniente dall'alto per pochi attimi mi abbaglia, poi tutto rientra nella normalità, o almeno così credo. Strano il cielo è sereno e non si prevede cattivo tempo e questo non mi è sembrato affatto un fulmine. Questa volta mi lascio tentare e accelero ma, fatti pochi metri mi accorgo che la macchina non risponde al mio piede anzi, prende a decelerare. Improvvisamente le luci interne si spengono del tutto
Solo certe realtà ti aprono gli occhi e ridimensionano il tuo credo
le tue certezze... le tue sicurezze... anche se sei solo spettatore
e non le vivi sulla pelle. Disarmano la tua presunzione di sapere
che volto ha la vita... e sgretolano la tua convinzione di avere il passo
giusto. Credo che a volte calarsi in tempi non tuoi, sia bagno d'umiltà
che mostra ancora una volta quanto è ridicola la materialità schiaffeggiata
da una sofferenza che aleggia inesorabile come un cielo scuro, prendendoti
a calci in culo. Smuovendo così la tua superficialità, verso la verità... che si mostra
nell'arcobaleno che sfugge e non puoi toccare... ma accende la tua ammirazione...
ed è lì che si può celare la conoscenza... nel cammino del presente, dove non devi
mai voltarti, ne dimenticare le tue impronte per sapere dove vai... e volere
ciò che sei... anche se qualcosa ti sfugge sempre e ride beffardo ad ogni tuo
grido di conquista.
Dodici anni prima
Era un tiepido pomeriggio di fine estate. Il sole s'apprestava a nascondersi dietro i tetti spioventi delle case mentre l'afa irrespirabile, che durante il giorno aveva soffocato l'intera città, allentava la sua morsa, lasciando filtrare qualche lieve folata di aria più fresca attraverso la sua cappa opprimente.
Mancavano pochi minuti alle sette di sera e la cena non sarebbe stata pronta prima di un ora.
Alba spense la televisione, dove fino a poco prima aveva assistito ad una puntata dei suoi cartoni preferiti, e raggiunse la mamma in cucina.
Stava mondando le foglie dell'insalata che avrebbero consumato per cena assieme ad una fettina di carne.
“Mamma, posso scendere giù in cortile a giocare a palla assieme a Martina? ”, le domandò rivolgendole uno sguardo furbetto, infilandosi ai piedi le sue scarpe da ginnastica, certa che lei non le avrebbe negato il permesso di raggiungere la sua amichetta.
“Va bene, ma non fare più tardi delle otto... e mi raccomando, cerca di non sudare troppo, altrimenti rischi d'ammalarti”, si raccomandò come tutte le volte in cui scendeva giù nel cortile del palazzo per trascorrere un oretta di gioco assieme a Martina, la bambina che abitava nell'appartamento accanto al loro e che frequentava la sua stessa classe di seconda media.
“Non preoccuparti, mamma. Non tarderò nemmeno un secondo e ti prometto che non prenderò freddo”, la rassicurò anche se fuori c'erano più di ventisette gradi e si sudava anche solo stando fermi, mentre si chiudeva la porta dell'appartamento alle spalle e correva giù per le scale dell'androne andando incontro a Martina.
“Allora, Alba, ti decidi o no a passarmi quella palla? ”. Alba sbirciò l'orologio che indossava al polso destro, rendendosi conto che mancavano meno di cinque minuti all'ora che aveva concordato con la madre per il rientro.
“Va bene, però facciamo solo un altro paio di tiri. Tra poco devo salire a casa”, rispose a Martina
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