- Hai recuperato le munizioni?
- Sì Signore. Questa volta non ci fottono. Vero Signore?
Il Tenente non rispose immerso com'era nell'osservazione, con la speranza di individuare qualsiasi cosa che potesse ribaltare quella situazione di stallo che si protraeva ormai da ore. Tenere così tanto il binocolo sugli occhi gli aveva disegnato due piccoli cerchi color stanchezza sopra il naso, dandogli a tratti dei lineamenti quasi animaleschi.
- Quanti anni hai?
- Diciannove Signore.
Il Tenente fece una smorfia con la bocca e con la sigaretta a penzoloni dalle labbra sembrò pensare Mio Dio.
Quante ore? Quando finirà? Ce la faremo? Tornerò a casa? Rivedrò mia madre? La mia ragazza? Mi scappa la pipì. Cosa darei per una birra. Ho paura.
I pensieri serpeggiavano martellando le meningi della squadra. Una guerra. Una battaglia. La vita in cambio della vita, la morte in cambio della morte. Una "missione di pace". Così l'avevano chiamata. Una missione di pace con fucili, granate e carroarmati. Chiamateci eroi, chiamateci fanatici, chiamateci come volete. Il mio nome lo persi il giorno che sbarcai in questo territorio che mi avevano insegnato essermi nemico. Nemico per chi? Per cosa? Quanti ne sono morti? Quanti ne abbiamo uccisi? Quanti ne ho uccisi? Là fuori la giornata era calda e secca, qua dentro c'era il buio, il fango.
Ci avevano messo alle corde, ci avevano stretto all'angolo.
Prima di fuggire in questo appartamento ricordo un campo di margherite. Ettari di margherite, sospinte dolcemente dal vento. In quei pochi attimi avevo visto tutto al rallentatore. Una distesa di prato immacolata, senza buche, senza sangue, senza morti. I loro petali. Li avevo respirati. Ma stavamo scappando rincorsi dai proiettili, rincorsi dalla morte, senza mai poterci girare. Chi si girava era perduto. Qualcuno l'avevamo perduto.
Da quando ero lì i nostri cuori non smettevano mai di essere in iperpalpitazione. Neanche mentre dormivamo.
- Signore. Chiedo il permesso d
- Che gli venga un accidente! Giuro che se lo prendo gli faccio rimpiangere d'esser nato.
- Anche questa volta? - fu il commento unanime degli altri dell'osteria.
- Anche questa volta! Eh sì che sono rimasto di guardia fino a dopo la mezzanotte, ma questa mattina presto quando sono ritornato sul cimitero del bel mazzo di dieci gladioli ne erano rimasti cinque, tale e quale lo scorso anno, e l'altro ancora.
Il Guercio guardò Soldino che, dopo la sfuriata iniziale pareva ora più calmo, anche se visibilmente sconsolato, e gli disse - Ti giuro che il 7 agosto del prossimo anno saremo lì a darti una mano, organizzeremo dei turni di guardia e lo prenderemo questo lurido ladro di fiori.
La vicenda di Soldino, al secolo Carlo Gentilini, ma così chiamato da prima della guerra per la tirchieria che lo connotava, aveva dell'incredibile.
Il 26 aprile del 1945, mentre tutti festeggiavano la fine del conflitto con canti e balli, un aereo americano aveva sorvolato il paese e, invece di lanciare zollette di cioccolato, come facevano quel giorno altri piloti, aveva scodellato una bomba da un quintale che aveva sfracellato la casa del Gentilini, in quel momento al lavoro nei campi, seppellendo le poche suppellettili e, soprattutto, l'Adalgisa, consorte di Soldino.
È possibile immaginare il dolore di quest'uomo che, in un attimo, si era ritrovato senza casa e senza moglie, completamente solo, poiché dalla loro unione non erano nati figli.
Per l'Adalgisa, con cui aveva vissuto per quasi quarantanni, nutriva un affetto profondo, frutto di un legame sincero che si era cementato con il tempo.
Si era così ritrovato a quasi settantanni allo sbando sulla strada, con poco denaro per vivere e, soprattutto, senza il conforto della persona amata.
Il Guercio, segretario della locale sezione del Partito Comunista, gli aveva trovato un modestissimo alloggio e ogni tanto gli faceva arrivare qualche piccolo aiuto economico, per integrare l'insufficiente pensione con cui doveva fare i
Era primavera inoltrata e il profumo dell'aria nonostante l'inquinamento, tradiva la volontà della natura ad avere il sopravvento, ancora una volta. Passo dopo passo, senza fretta mi diressi nel piccolo parco davanti alla stazione degli autobus e mi accoccolai su una panchina soleggiata, raccolsi le gambe verso il torace abbracciandole, appoggiai il mento sulle ginocchia e osservai di quale mondo facevo parte.
Alle spalle della stazione due anziani signori, vestiti con l'abito buono, traslucido per le troppe stirature, sedevano su di una panchina all'ombra di un grande albero, pareva una splendida immagine, due anziani con gli abiti consunti come un'antica corteccia.
Appoggiavano le mani deformate sui loro bastoni, cercando un punto d'equilibrio, si scambiavano battute rapide che non potevo sentire, erano troppo lontani, uno dei due, forse quello che parlava meno, sembrava più intorpidito dell'altro, una specie di comparsa che pareva destarsi ogni tanto.
Nonostante la distanza capii che qualche cosa cominciava a turbarli, guardavano alla loro sinistra quasi all'entrata del parco, in preda ad una certa eccitazione.
Dovetti ruotare il capo alla mia destra per osservare quella ragazza.
Giovane, vestita con un abitino celeste, troppo corto e sudicio, avanzava come uno Zombi, incespicando nei suoi stessi passi, gli occhi persi chissà dove, si muoveva come un'automa nella direzione dei due vecchi.
A pochi metri da loro, uno dei due, il più arzillo, facendo un certo sforzo e aiutandosi con il bastone, riuscì a mettersi in piedi, l'altro nonostante l'esortazione dell'amico rimase al suo posto ad osservare la scena.
La ragazza ad un passo da lui si fermò, come fosse giunta a destinazione, sembrava un burattino senza fili appoggiato ad un muro.
Li conosceva bene quegli scellerati, tese una mano nella direzione del vecchio, una mano stanca, come fosse appoggiata su di un supporto invisibile e lui le rispose sussurrandole qualche cosa all'orecchio.
Poi, goffamen
[prequel di Angelo e L'anglo e il redento]
Nel periodo in cui tutto iniziò, per Michael, l'autunno era appena arrivato col suo vento fresco a staccare le foglie dai rami degli alberi. Tutte foglie rinsecchite che ormai non avevano più linfa per rimanere vive attaccate laddove avevano avuto vita.
Guardando quel turbinio della natura volare nel vento che andava dal forte al leggero, Michael, suo fratello e sua sorella si sentivano proprio così.
Come foglie nel vento che staccate dalla propria 'casa' erano destinati senza scelta a viaggiare nell'aria che non rivelava nulla sulla loro destinazione.
Sapevano solo che un giorno sarebbero riuscite a posarsi di nuovo sulla terra e a trovare il meritato riposo per poi tornare a vivere.
La loro situazione era analoga e pensando che la stagione rispecchiasse i loro animi, realizzarono che dopo l'autunno ci sarebbe statao l'inverno, qualcosa di peggiore rispetto alla stagione che stavano vivendo.
Quando i loro genitori morirono in un tragico incidente e furono affidati ai nonni in un altro quartiere, uno povero e poco raccomandabile, a loro parve di cadere in un sonno pesante e di vivere costantemente in un incubo. La sensazione di non riuscire a svegliarsi era sempre più crescente e sembrava non avessero scelta che lasciarsi vivere così, subendo la crudeltà che la vita aveva riservato per loro.
Ognuno reagì a modo proprio. La sorella più piccola, Hannah, non faceva che piangere dalla mattina alla sera nella sua fragilità innocente e pura. Non avrebbe mai compreso come mai mamma e papà avevano dovuto andarsene così presto, lasciandoli soli. Tutto quel che riusciva a fare era versare lacrime e sperare che fosse tutto davvero un sogno. Aveva iniziato a mangiare sempre meno e la notte riusciva a dormire unicamente abbracciata stretta al fratello maggiore.
Edward era il fratello minore e lui reagì chiudendosi completamente in sé stesso, diventando aggressivo e facendo spesso la cosa più stupida di tut
Conobbi la morte quando avevo otto anni. A quel tempo per spiegarmi cosa mi stava succedendo usarono parole strane, discorsi illogici basati sulla magia e sulla religione. È strano come gli adulti parlino dell'argomento con i bambini; hanno la strana convinzione che non siano in grado di capire e quindi inventano strani modi che gli confondono soltanto le idee. Io, da parte mia, sapevo già tutto.
Il mio gatto Muffin era morto qualche mese prima cadendo dalla finestra del nostro appartamento. I miei genitori non avevano voluto dirmi la verità. Era giugno, uno degli ultimi giorni di scuola, e, come sempre, mia madre era venuta a prendermi a scuola. Quando ero salita in macchina mi aveva accolta con un forte abbraccio, più lungo del normale.
"Vedi Giulia è successa una cosa brutta." aveva esordito "Muffin è scappato di casa" .
"No, mamma." le avevo detto io, quasi per calmarla "Muffin non farebbe mai una cosa del genere. È troppo vecchio" avevo concluso fiera del mio ragionamento.
"Mi dispiace tesoro." Mia madre aveva scosso la testa e schioccato un bacio sulla mia guancia. "Ti va un gelato?" aveva poi proposto.
"Prima di pranzo?"
"Un piccolo strappo alla regola"
Avevo annuito entusiasta. Non ero preoccupata per Muffin. Non era scappato di casa, era troppo vecchio. Probabilmente era in qualche angoletto della casa che solo io e lui conoscevamo. Mamma e papà non lo avevano cercato bene. Ma tornata a casa neanche io lo trovai. Mi arrampicai sui mobili, spostai i divani, cercai ovunque. Solo pochi giorni più tardi sentii mio padre parlare al telefono con un suo amico che gestiva un piccolo negozio di animali di quanto fosse normale che, alla sua età, il nostro gatto avesse perso l 'equilibrio e fosse caduto.
Piansi. Piansi a lungo e piansi di vero dolore.
Una cosa mi rimase impressa nella memoria: Muffin, paradossalmente, valeva un gelato.
La morte la capivo, si. Quello che non capivo era da cosa dipendesse la mia eventuale morte. Per i miei ge
“Eccola lì, la mia Ford, l’ ho presa a vent’ anni e non l’ ho lasciata più” Si lasciò andare in un malinconico sorriso, di fronte a lui quell’auto vecchia e dissipata dalle numerose fatiche che aveva affrontato. In origine era nera ma oramai per il pulviscolo di Perrikton, era diventata grigia, il telaio era completamente distrutto, i vetri erano limati dalla rena, e l’interno poteva far trasparire una negligenza di più di trent’ anni nei suoi confronti.
L’odore era nauseante, dentro quella macchina vi era di tutto, si poteva trovare del cibo sotto i sedili e delle sigarette o degli insetti decomposti.
Diceva sempre ai suo figlio che non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo, ma in cuor suo mentiva spudoratamente, difatti avrebbe abbandonato volentieri quel rottame se solo avesse avuto un migliaio di dollari per comprarsene una migliore.
Banchi di nebbia si espandevano su tutto l’isolato, un esercito di fantasmi che marciavano senza sosta, luci rimbalzavano sull’asfalto, foglie secche si scorgevano come serpenti nascosti tra i sassi.
Paul, ormai cinquantenne entrò nell’auto, comincio a piangere come un uomo sul braccio della morte.
Probabilmente pensava a ciò che gli era accaduto poco prima.
Nella fabbrica semivuota, le macchine lavoravano incessantemente sotto il carente controllo di una decina di operai.
“Paul a te quanto manca? ”Disse uno degli operai mentre spostava rapidamente scarpe da una macchina all’altra.
“cinque minuti e finisco”Rispose Paul.
“Domani io non vengo”disse l’operaio
“Perché? ”Domandò Paul
“Vado a vedere la partita dei Bokker”Esclamo l’operaio con in mano due biglietti.
“E per chi è l’altro biglietto? ”
“Per Mat”
“Ok”Disse Paul con una trasparente delusione in viso mentre continuava ad arrancare sulla macchina.
Erano ormai le 18, si stavano spegnendo le luci.
“lunedì non vengo a lavoro”Disse l’operaio
“Perché? ”Domandò Paul
“Vado
Nei giorni successivi, per fortuna di Nino, non vi sono altri omaggi. Egli, comunque, continua il suo lavoro di lettura che lo impegna ormai ogni pomeriggio. Dopo i documenti datati passa agli altri. Sempre più spesso s'imbatte in quella "M" puntata e nelle citazioni di quella strana località "la Scannatora". L'unica cosa chiara è che in quel posto vengono prese, dai tre personaggi noti più il fantomatico M. le vere decisioni circa gli atti amministrativi comunali. Riunioni di partito, Giunte e Consigli comunali sono semplici messinscene per dare una parvenza di legalità al loro operato. Sempre più frequentemente Nino si chiede chi sia quell'M. tanto importante, quasi quanto Mazzacane stesso. Una mattina, in biblioteca, Gibbì gli chiede come va il lavoro ed egli risponde laconico "procede" al che lo attacca risentito.
"Ehi, non ti ho fatto niente, ti ho solo chie.."
"So già dove vuoi andare a parare"
"Santa pazienza come sei intrattabile! Avevi detto che appena organizzato.."
"Gibbì, non ho voglia di discutere. Il lavoro procede come deve. Tutto qua"
"Mi sembri attaccato con gli spilli"
"Ma no, niente di personale, stavo solo sovrappensiero. Tutto qua"
"È lecito chiederti cosa t'impensierisce... amico?"
"Ma sì, in fin dei conti potresti anche essermi d'aiuto. Sai cos'è la Scannatora?"
"Perché? Dove l'hai trovata scritta?" chiede guardingo Gibbì.
"Ecco vedi? Per questo che sto sulle mie. Ti offri di aiutarmi, ti faccio una richiesta e tu? Tu mi fai delle domande. Bell'aiuto che mi dai!"
"Non lo so, potrebbe voler dire tante cose.."
"Credo sia una località"
"Non ho mai sentito che ci sia una contrada con questo nome, almeno nel nostro paese"
"E sennò dove, in America, forse?"
Il dialogo tra i due viene interrotto dall'ingresso di un giovane, rimasto a loro insaputa a origliare dietro la porta socchiusa. È Alfredo Volpicella, coetaneo di Nino e figlio di don Ferdinando. Appena entrato si rivolge a Nino in tono ironico.
"Buongiorno a d
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