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Racconti drammatici

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Foglie di poesia

Sento ancora fischiare quel maledetto treno e rivedo lo sfasciarsi della bella primavera.
Non sapevo il perché o il come, né cercai di farmene una ragione.
La bottiglia di mandarinetto non riuscì ad ottundere i miei pensieri.
Tre anni di coccole, di progetti e d'amore, volatilizzati dietro a quel suo:
"Non ti importa niente di me, altrimenti mi seguiresti all'inferno."
Non lo so se il tempo sia galantuomo, ma come terapeuta non è male, quando si è giovani.
 
" Pronto, non si sente bene, ripetete con calma per favore."
"Sono io, ti voglio vedere, sabato, solito posto e solita ora."
Un clic, il suono della sua voce.
Nel cuore, brividi alla ricerca di una risposta diversa.
Andare o non andare all'appuntamento?
 
È bellissima, è lei.
Mi viene incontro di corsa.
Un saltello e mi balza addosso... come la ragazza di tanti anni fa.
Vuole essere perdonata, pur sapendo che non l'ho mai condannata.
La stringo a me, quasi a toglierle il respiro, non ho alternative.
Mano nella mano, ci incamminiamo lungo il viale.
 
"Questi alberi maestosi erano fanciulli, quando mi volevi bene."
"Sei sempre bella, come ti senti?"
" Come quelle foglie che non vogliono staccarsi dai rami, ho freddo, accarezzami."
"Ami sempre le foglie cadute?"
"Si, in ognuna di esse è scritto un verso di poesia."
"Eccola la nostra panchina, che squallore! Il solito Barbone che si scola l'ennesima bottiglia."
" Ciò che per noi è squallido, per gli altri potrebbe essere stupendo."
"È vero, sai che non ci avevo pensato, adagiamoci sull'erba, sono stanca."
" Ti ritrovo più bella di prima."
 
"Dillo ancora che sono bella, sono vanitosa e amo sentirmelo dire."
"Lo sai che sono geloso, tu sei sempre bella e a me piace ripetertelo."
"Ancora, ancora, dimmelo e smettila con le mani, no, no, continua."
"Ho prenotato una camera al Victoria Hotel, letti separati, staremo più a nostro agio."
" Mi toccherà unire i due letti, siamo adulti e a noi è dovuto quel qualcosa in più

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   8 commenti     di: oissela


Era mio padre

Ero molto stanco. Avevo lavorato fino a tardi e arrivai a casa a mezzanotte passata.
Mi mossi nel buio della casa; vi abitavo da abbastanza tempo da orientarmi anche senza luce accesa.
Mi spogliai e andai a lavarmi. Poi m'infilai sotto le coperte.
In quel momento udii un tuono infrangere il silenzio di quella notte, e la donna con la quale convivevo da più di cinque anni, si girò sul fianco e mi salutò.
Ricambiai e mi distesi anche io.
Assonnata mi disse: "Oggi pomeriggio ti ha cercato una donna..."
"Chi era?"
"Ha detto di chiamarsi Linda."
Il mio sguardo si pietrificò, e ringraziai di essere al buio.
"Cosa voleva?"
"Ha detto se potevi fare ritorno giù in Campania. Ha detto che un certo signor Daniele sta per morire. Ha lasciato il recapito telefonico e mi ha detto di riferirti che l'indirizzo è sempre lo stesso."
Deglutii e subito mi mancò il respiro. Rimasi in silenzio finché lei mi domandò: "È qualcosa di grave, è qualcuno che conoscevi?"
Esitai.
"No, tranquilla", continuai ponendomi al lato opposto al suo. "Torna pure a dormire."
In quel momento un lampo m'illuminò il viso, e tutto mi ritornò in mente come un boomerang.

Me ne stavo seduto sulle scale a studiare una poesia quando udii delle grida provenire da casa. Mi precipitai dentro: nell'ingresso papà aveva preso mia sorella per il collo e aveva cominciato a schiaffeggiarla, mia madre gridava di lasciarla andare. Corsi contro mio padre e lo presi per le braccia, ma i suoi muscoli erano più formati di quelli di un bambino di dieci anni quale ero io. Così mi afferrò e mi scaraventò contro il muro.
Quando caddi a terra dolorante, era come se tutto si fosse placato. Cessò tutto, tranne il pianto di mia madre e mia sorella che una abbracciata all'altra, singhiozzavano.
Io avevo i lacrimoni anche se non volevo darlo a vedere.
Mio padre mi fissò spaventato. Poi mi venne in contro e mi tese una mano. Non volevo restituirgli il gesto, ma avevo paura. Così allungai la

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   9 commenti     di: Roberta P.


Io ero l'altra

I fatti e i personaggi narrati in quest'opera sono frutto di fantasia e non hanno nessuna relazione con persone o fatti realmente accaduti.


Chi lo avrebbe mai detto che nella mia vita mi sarei ritrovata ad esser l'altra. Proprio io che avevo sempre disprezzato tutti coloro che si intrufolavano nelle coppie altrui rovinando matrimoni stabili, mi ritrovavo a ricoprire quel ruolo?
Un ruolo che accettavo di cattivo grado, fingendo di dover far finta di nulla quando lo vedevo assieme a sua moglie, far quasi finta di non conoscerlo per non far capire a nessuno, ma la sola sua presenza mi faceva scoppiare il cuore in petto. Lottavo contro la mia passione e il senso di colpa verso quella donna che lo amava allo stesso modo in cui lo amavo io e lo desideravo. Ogni volta che li incontravo mi sentivo sempre più schiacciata nel vedere il viso di lei raggiante e felice per essere accanto all'uomo che ha giurato di amare, per tutto il resto della sua vita. Che ingenua sia io che lei
All'epoca in cui lo conobbi non sapevo che fosse sposato o quanto meno avesse una doppia vita. Ricordo che quando mi chiese di andare a prendere un caffè, il primo caffè, dopo il lavoro, ero al settimo cielo perché questo invito arrivava dopo settimane di sguardi maliziosi e battute dai doppi sensi che mi facevano vibrare tutta.
Non perse tempo a palesarmi le sue intenzioni mentre sorseggiavamo la bevanda seduti comodamente al tavolino del locale. Non mi sembrava possibile essere così sfacciati e diretti in queste cose, ma lui mi mostrò che tutto era possibile e sempre in quell'occasione passammo la notte assieme. Da lì in poi il rapporto si consolidò, e giorno dopo giorno, mese dopo mesi, ci ritrovammo a festeggiare il primo anno di relazione. Questo evento però mi regalò un dono amaro. Era un sabato e non lavoravamo e fissammo di vederci la sera. Per festeggiare e per l'occasione decisi di preparare una cenata con i fiocchi e andai al supermercato che si trovava nel centro com

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   3 commenti     di: Giulia Gabbia


Cinqant'anni

Columbia (SC), 07/01/1999
Mi chiamo Robert Life, nato nei pressi di Fulton St., Columbia nel South Carolina, l'8 Gennaio 1949. Mio padre morì quando avevo sei anni, fu colpito involontariamente da un proiettile vagante durante una sparatoria. Faceva il macellaio. Mia madre non faceva un cazzo oltre a ciò che fanno tutte le madri. Da bambino mi piaceva...
Oh, al diavolo. Sono Robert Life e scrivo questa lettera come ultimo atto di un qualche cosa di meraviglioso. A dir poco. Sono passati cinquant'anni e guardandomi alle spalle, oggi, noto qualcosa che è sempre sfuggito alla mia mente, al mio cuore. Qualcosa che solo gli uomini i quali si trovano attualmente nella mia stessa situazione, possono notare. Proprio ora che dinanzi a me scorgo il buio, la luce entra di prepotenza nella mia testa. E ricordo tutto. Ricordo il mio primo regalo di Natale, uno dei primi, una chitarra. Non potrò mai dimenticare la mia felicità e le mie lacrime ed il sorriso di mio padre. Ricordo il primo giorno di scuola, tra pianti e urla, mi mancava il mio papà, quasi come se già sapessi che dopo quel giorno non l'avrei più rivisto. Ho vissuto nella merda e con astuzia sono sopravvissuto fino ad oggi. Ho sempre guardato le mie tasche, ragguagliato mia madre, difeso il mio fratellino e mangiato quello che c'era. E ricordo quando attraversavo quei bui e stretti vicoli, osservato anche dal cane randagio. E piansi, piansi per la scomparsa di colui che per sei anni mi ha amato, difeso, addestrato. Ma nel South Carolina non c'è tempo per piangere. Nella mia vita non c'era tempo per piangere.
Non scordo il mio primo lavoro. Ero un fottuto lustrascarpe come quei negri figli di puttana. Ero il miglior lustrascarpe del Sud. Lustravo signori, ricchi, mafiosi. Era un lavoro di merda, ma mia madre era lì, povera ed indifesa, con due figli da sfamare anche con un dollaro a settimana. Li ricordo tutti quegli stronzi: Vincent Langella, Sonny Cady, Johnny "la roccia" Corrado, Michael Winnfi

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   1 commenti     di: Claudio Morgese


Vent'anni di matrimonio

Pietro torna a casa dal lavoro stanco e annoiato e rivolge un ciao svogliato alla moglie Elena, indaffarata in cucina. Il figlio diciassettenne è chiuso in camera sua a combinare chissà cosa e non si fa vivo. Pietro si cambia, accende la televisione del salotto e si spaparanza in poltrona in attesa della cena. Alto, asciutto e appena brizzolato, a quarantacinque anni è ancora un bell'uomo.
Appena è pronto in tavola si trasferisce in cucina e accende pure lì la tv, giusto in tempo per il telegiornale. Suo figlio arriva, un cenno di saluto al padre e prende posto, dalle cuffie proviene il brusio di una qualche cantante di musica pop. La consorte mette i piatti in tavola in silenzio e altrettanto in silenzio i tre mangiano.
Sono ormai al termine quando squilla il telefono. Elena va a rispondere. È un'amica con cui attacca a chiacchierare. Frattanto il figlio torna in camera, in attesa d'incontrarsi con gli amici e Pietro si rimette davanti allo schermo: la fine del tg, le previsioni del tempo, poi Affari tuoi.
Terminata la telefonata Elena dà una rapida passata ai piatti prima di infilarli nella lavastoviglie, dove è già in attesa il vasellame del pranzo. Pietro sfoglia la guida tv senza trovare nulla d'interessante. Su Rete 4 andrà però in onda Lo chiamavano Trinità. È il film più trasmesso della storia televisiva italiana, un quarto di secolo in programmazione continua, ma in fondo, perché no? Le peripezie di Terence Hill Trinità e Bud Spencer Bambino non lo stancano mai. Nel frattempo la moglie segue la telenovela preferita sull'altro apparecchio e poi si trasferisce nello studiolo, dove va on line, su facebook. Non ci si schioderà fin oltre la mezzanotte. Pietro scuote la testa, incomprensivo: come si può passare metà della propria esistenza in modo così vuoto? Quindi torna a dedicarsi all'intensa occupazione di guardare la tv.
Più tardi il ragazzo sbuca dal suo privè, pronto a uscire. Saluta distrattamente i genitori e ne riceve saluti

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   18 commenti     di: Massimo Bianco


Perdono

Kevin arrivò al cimitero di buon ora (non erano ancora suonate le nove) e si diresse alla tomba di Dana Matthews.
Era appena cominciato l'inverno e faceva un freddo glaciale, ma le aveva promesso di andare a trovarla e mai avrebbe rinunciato a quell'impegno.

Dana era conosciuta da tutti come una criminale facente parte di una banda che mesi prima aveva sequestrato un treno con la minaccia di farlo deragliare se non ci fosse stato un grosso riscatto. Il piano fallì e i passeggeri si salvarono quasi tutti grazie all'impresa di un piccolo gruppo di essi; o almeno così dissero tutti i giornali e i notiziari, ma non era l'esatta verità.
Kevin era uno dei pochi a sapere realmente come si erano svolti i fatti; egli infatti faceva parte dei passeggeri assieme a sua moglie e alle due figlie. Fu uno degli artefici della disfatta dei criminali, ma sapeva bene che tutto ciò riuscì solo grazie all'aiuto di una sola persona.
Il suo nome era proprio Dana Matthews, la quale si era rivoltata contro i suoi stessi compagni per salvare quegli innocenti. Ci aveva rimesso la vita per farlo, ma nessuno lo sapeva. Quasi nessuno.
Kevin invece sì e sapeva anche che in un agguato dei criminali aveva portato in salvo sua moglie e le sue bambine poco prima che venissero uccise.
Alla fine era morta proprio fra le sue braccia dicendogli qualche parola tra le lacrime.
"Spero solo che... che almeno tu possa perdonarmi."

Si stupì di vedere un uomo davanti alla sua lapide e lo stesso accadde quando quest'ultimo lo vide avvicinarsi.
"Non mi dica che è qui per visitare questa tomba?" gli domandò lo straniero.
"Perché mi fa questa domanda?" replicò lui guardandolo attentamente e notando una vaga somiglianza con Dana.
"Perché finora nessuno l'ha mai visitata a parte me; è la lapide di una criminale, chi potrebbe volerla piangere.
"Allora lei è suo parente giusto?"
"Sono suo fratello," rispose questo. "Anche se dopo aver saputo del suo stile di vita non l'ho più vista ne

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Un incontro a sorpresa

Un incontro a sorpresa

Per parlare col mio amico uso la chat. Lui vive a Parigi io qui a Roma. Ci conviene, col telefono costerebbe troppo, rimaniamo ore intere collegati. Microfono e cuffie ed è meglio del telefono. Certo non stiamo sempre a parlare. In poche parole è come vivere nella stessa casa ogni tanto uno dice qualcosa, l'altro risponde poi si torna alle proprie attività.
Le chat, quella con tutta quella gente non le reggo, scrivi qualcosa e nessuno ti caga sembra che si conoscono tutti da sempre ed i nuovi arrivati nessuno se li fila.
L'unico sistema è quello di cliccare sul nome nella lista e chiamare in privato magari con una frase simpatica che incuriosisce. Le ragazze ci cascano sempre.
Per uno come me, con tutti gli interessi che ho, non è difficile. Basta una poesia, il verso di una canzone e loro si chiedono chi sei.
La prima cosa che cercano di scoprire è l'età e qui si fregano da sole, fai il vago, ironizzi su un ipotetica quanto improbabile età e loro s'incuriosiscono di più. Per non farsi vedere troppo interessate stanno allo scherzo proponendosi di scoprire il tutto più avanti.
Ne avevo conosciute parecchie con questo sistema ma tutte troppo superficiali, settimane d'intense chiacchiere e poi niente di veramente interessante.
Lei era diversa. Lo avevo capito subito. Di sicuro doveva essere più grande di me perché parlando di musica faceva riferimento a gruppi del passato "progressive anni 70". Quei gruppi piacevano anche a me, li conoscevo anche io quindi forse non era così.
Avevo l'impressione che stesse studiando ogni mia parola per arrivare a capire chi ero realmente. Così divenne un gioco di frasi sibilline, metafore e doppi sensi.
Il tutto diveniva sempre più curioso ed eccitante. Si cominciava a creare una sintonia strana un legame insolito. Ci sentivamo tutti i giorni. La febbre saliva. Non potevo neanche immaginare di tornare a casa e non trovarla in rete.
Era amore? Non credo. Io non m'innamoravo. Il mio cuor

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   1 commenti     di: Riko Zodiako



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