Il sole era ormai giunto al tramonto quando Bonariu, di ritorno a casa, scorse un oscuro uomo, armato di fucile, intento a scrutare un enorme roccia granitica. Riconoscerlo non fu difficile: trattavasi di Anania Colbu, noto bandito e sicario, errante per le campagne da circa due anni. Sulla sua testa pendeva una taglia vertiginosa; non furono pochi i delatori che tentarono, senza però riuscirvi, di farlo cadere nelle mani della benemerita. Reso alquanto inquieto da quella presenza, il pastore avvicinò il bandito con far cerimonioso:- ditemi un po', questo luogo è per caso di vostro gradimento? Sappiate che, se nutrite interesse a rifugiarvi qui per qualche tempo, le mie terre sono a vostra completa disposizione! Potrete tornare tutte le volte che vi occorre-. Affatto stupito da tanta ospitalità, il bandito si mostrò comunque compiaciuto:- apprezzo il vostro invito e vi ringrazio di cuore, state pur certo di rivedermi presto-.
Quella notte Bonariu aveva poco dormito e molto pensato: per quale motivo quel sanguinario gironzolava dalle sue parti? Era forse a corto di nascondigli?
O qualcuno, date le sue inimicizie, lo aveva assoldato per eliminarlo?
Fortemente tormentato da tali interrogativi ma anche desideroso di metter le mani su quell'enorme taglia, il pastore pervenì ad una rischiosa decisione: non appena Anania si fosse ripresentato chiedendo asilo, egli avrebbe finto di accoglierlo con grande ospitalità, per poi tradirlo conducendo le forze dell'ordine sul luogo del rifugio. Il giorno seguente si recò in tutta fretta al paese, in caserma, ad informare il brigadiere dell'incontro e del vile piano...
Trascorsero alcune settimane...
Mentre il sole cominciava a mostrare timidamente il suo volto da dietro le vette, una piacevole e leggera brezza avvolgeva l'intera campagna, qua e là diversi uccellini salutavano allegramente il nuovo giorno intonando un orecchiabile melodia. Destreggiandosi abilmente tra una moltitudine di massi e arboscelli,
Il vento soffiava, impetuoso, indomabile. Ma il Signor Carol aveva deciso, e non avrebbe cambiato idea. In realtà la sua non fu una vera e propria decisione. Un'avventatezza, tutto qui. Un giorno aveva deciso che le cose intorno a lui non andavano: il suo letto troppo scomodo, la luce del sole abbagliante, il buio insopportabile. Insomma, non tollerava più nulla. Più nessuno. Ma quella mattina, nonostante il vento, il gelido vento di un novembre inoltrato, il Signor Carol decise di recarsi da Mario, il siciliano. Quello che aveva salutato una vita intera. Che gli aveva venduto frutta per anni, tanti, troppi anni. Quella mattina, entrando con la solita garbatezza che lo connotava, il Signor Carol uccise il suo fruttivendolo di fiducia. Lo uccise sparandogli un colpo. Al cuore. Chiuse le saracinesche e uscì, timoroso ma fiero. Aveva fatto un buon lavoro, neanche una goccia di sangue sul suo vestito. Il Signor Carol quella mattina si era vestito di tutto punto, ben rasato e aveva indossato il suo cappotto nuovo. Salutò la signora che vendeva le rose e odiò il sole che si intravvedeva fra le nuvole. Decise di concedersi un caffè. Dopotutto credeva di meritarlo. Avrebbe atteso fino a che l'ultimo cliente fosse andato via, incurante degli occhi indiscreti che lo fissavano mentre rimirava la sua tazzina vuota da ore. Quella mattina il Signor Carol uccise Andrè, il giovane cameriere che studiava economia. Lo uccise senza staccargli gli occhi di dosso. Un colpo, al cuore. Era tardi, forse ora di pranzo e il vento soffiava senza tregua, poche persone per strada. Si sentiva al sicuro. Gli sembrò strano, anche stavolta nessuna goccia di sangue sul suo vestito nuovo. Era speranzoso, il volto disteso. Voleva eliminarli tutti, uno ad uno. E si esercitava con i piccoli bersagli quotidiani. Aveva deciso così, e così avrebbe continuato. Era il 1954 e il Signor Carol aveva appena compiuto cinquantotto anni. L'aria tagliava la pelle. Una lama affilata e spietata. Decise di
[continua a leggere...]Era uno sguardo allenato alle atrocità del mondo, quello che scorreva l'orizzonte sfuggente di uno spazio recintato da spine, analizzandone con scrupolo la struttura anomala, differenziata da curve inspiegabilmente non lineari.
La necessità di sopravvivenza lo imponeva sadica e la sua serva, la fame di conoscenza, offuscava occhi che non provavano più pietà per un universo che si era sempre mostrato con ostilità, nei confronti dei suoi bisogni più elementari.
Un lampo diverso, scoccato dal fango della vita, attirò la sua attenzione famelica, e l'insieme di ossa, tenute assieme da scarni legamenti attaccati a muscoli e nodi di grasso sanguigno, scattò teso e deciso verso la fonte della nuova luce, la quale prometteva di essere la chiave che avrebbe aperto la porta per fuggire da un dolore senza fine, confinato con lui nell'antro dell'aspettativa di morte, certa solo della propria atrocità. L'energia della spinta fece scivolare il corpo, sofferente dietro a quel cercare furioso, fino a fargli sfondare col muso l'ultimo ostacolo di feci, impastate di argilla e piscio, che celava il prezioso brillio e quegli occhi, dall'avamposto della disperazione che ansimava, misero a fuoco, con un'occhiata rapida, il nuovo bagliore affascinante e misterioso.
La delusione gli sorrise sprezzante, in un tremito che percorse tutto il suo piagato corpo, dal naso fino alla coda, aggiungendo un'altra ferita alla sua affievolita speranza: aveva trovato un'altra perla inutile, e la sua fame lasciata sola si vendicò, con un lancinante crampo di solitudine, spingendo i suoi occhi a cercare di nuovo, tra il liquame spento di quell'angusto e lurido porcile.
"Saper comunicare" era il solenne imperativo. Tra speranze e attese il nuovo si affacciava con la pretesa di sovvertire il vecchio fatto di debiti, clientelismo e inefficienze.
E quale data si prestava al meglio per l'inaugurazione del nuovo? Qualche capoccione pensò che far coincidere il nuovo corso con l'entrante secolo e millennio potesse rimanere maggiormente impresso. Così fu deciso per il Gennaio del 2000.
Quell'anno la Chiesa celebrava il Giubileo, ma un'alba raggiante si alzava all'orizzonte pronta a sorridere agli audaci. Un artista isolato e sconosciuto inventò il motto aziendale delle tre E: Etica, Efficienza, Ecologia aziendale; da tale spunto alcuni dirigenti intuirono l'enorme pro attività del tizio e subito gli proposero un contratto di svariati milioni.
A Capo dell'agile e flessibile struttura venne scelta una persona che usava una comunicazione essenziale, senza infiorettature ma capace di compiere, al momento opportuno, delle sguaiate memorabili che nel non detto volevano dire: "fatti da parte, nullità. Qui, comando io!".
Quando un debole non possiede il carisma del ruolo che ricopre e non ha sicurezza dei propri mezzi, né è fiduciosa verso i suoi simili, l'aggressività diventa l'unico mezzo per rimediare ai propri limiti. L'intelligenza, la prudenza e l'obbiettività non sono qualità molto apprezzate dai Baroni che, invece, preferiscono i metodi sanguigni che però offrono vantaggi solo immediati.
La "Signora sto qui, perché qualcuno mi ci ha messo" aveva un'interpretazione accentratrice del proprio ruolo, al punto tale che spesso si sostituiva ai suoi diretti subalterni; scrutava con preclusione e sospetto le attività dei sottoposti, né nascondeva a questi ultimi i suoi sentimenti negativi e non da ultimo, spesso si sottraeva all'obbligo del saluto.
Sin dall'inizio della sua gestione, la filosofia di "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" fu quella di sorvegliare il personale e di presidiare il territorio assegnat
Non sapevo cosa c'era che non andava, ma la mia sofferenza non aveva fine, passavo da momenti allegri a momenti cupi, beh i momenti cupi erano più lunghi, mi tormentavano, mi tenevano sveglia la notte, prigioniera durante il giorno e io non ne venivo a capo. Per fortuna una mia cara amica capì che ero cambiata, capì che qualcosa mi tormentava, e da persona più esperta della vita mi osservò per un po' di tempo, e mi consigliò di scrivere le mie sensazioni, belle e brutte e poi di rileggerle. Così feci e, dopo qualche tempo le rilessi; finalmente capì : Avevo un grande dolore nel cuore e non sapevo come elaborarlo, tenere tutto dentro non aiuta e così l'ho voluto raccontare a tutti, ora il dolore è sempre lo stesso ma mi sento più leggera, dormo la notte e le giornate non sono più la mia prigione e spero che questa mia esperienza possa servire ad altri. Il dolore non va chiuso in uno scrigno perché ci divora l'anima, diventa nostro padrone e non allenta facilmente la presa; bisogna avere il coraggio di parlarne, di sminuzzare gli angoli più dolorosi, e soprattutto di accettarlo come conseguenza inevitabile della vita stessa e così si permette all'animo nostro di aprirsi a nuove gioie.
Tutto cominciò la sera di quel terribile 18 febbraio di 6 anni fa, come al solito mi scocciavo alla grande di fare gli auguri di onomastico a mia cognata ma i rapporti di buona parentela me lo imponevano , non avevo nulla contro mia cognata, ma quella sera ero particolarmente stanca, cercavo un momento di pausa, un attimo tutto per me per raccogliere i miei pensieri e le mie speranze e mentre decidevo arrivò la terribile telefonata. Era Maria (mia sorella)
Maria : Laura... mamma ha avuto un incidente, ma non ti preoccupare la TAC pare buona ora sta a Bosco
Laura : ma come, che dici, spiegati meglio.
Maria : un camion l'ha investita, ha una ferita alla testa. Era scesa a comprare lo zucchero, (ma a casa ce ne era) forse le sigarette, lei non ricorda perch?
Non riuscì a spiegarsene il motivo ma fin da subito si sentì inspiegabilmente attratta dal ragazzo che le sedeva di fronte, era incuriosita, stranamente eccitata e proprio non riusciva a capire il perchè di tanto interessamento. Apparentemente era un ragazzo come tanti altri se non fosse per quel... come definire quell'alone magnetico quasi tangibile che irradiava e che, pertanto, lo rendeva così irresistibilmente attraente ai suoi occhi? Quasi non riusciva a vederlo in viso intento com'era a scrivere o disegnare tranquillamente qualcosa su di un grande blocco per appunti; i capelli neri, lisci e lucidissimi gli coprivano la fronte, le sue mani erano lunghe, affusolate, mani che non avevano conosciuto la fatica, e ogni tanto lentamente le staccava dal blocco per passarle delicatamente tra i capelli, quasi una carezza, inutile tentativo di scostarli dalla fronte. Scuro di carnagione, doveva essere giovane, "molto più giovane di me" si sorprese a pensare Erica mentre lo osservava. Snello e muscoloso, le spalle ben delineate, sul braccio destro dalla t-shirt bianca spuntava un tatuaggio dal soggetto indefinibile, coperto quasi completamente dalla manica della maglietta.
"Chissà come si chiama" pensò meravigliandosi del suo interesse per quello sconosciuto, "Simòn" rispose il giovane in un sussurro e senza alzare lo sguardo. Lo pronunciò con un lievissimo accento straniero forse sudamericano: "mi chiamo Simòn, e ho da poco compiuto 30 anni. Era questo che ti stavi chiedendo vero?" continuò lui alzando finalmente il capo. Stupefatta oltre l'inverosimile Erica non riusciva a capire, era come ipnotizzata, come poteva aver letto nella sua mente, capire ciò che stava pensando, senza aver mai alzato lo sguardo su di lei nemmeno una volta? Solo quando finalmente riuscì a guardarlo negli occhi, solo allora capì, ebbe un sussulto, una scossa di adrenalina che sfrecciando veloce partì dal cervello ed esplose nel cuore... in quegli occhi, grandi scuri e profondi,
E ogni volta che avrei voglia di vederti di abbracciarti forte e stritolarti fra le mie braccia fino a non farti respirare?
E ogni volta che avrei voglia di raccoglierti con due dita i capelli dietro le orecchie e baciarti il lobo morbido?
E ogni volta che mi svegliero' da solo e tu non sarai con me!?
Piano, si rischia di finire come in certe canzoni del Blasco o di Jovanotti. O peggio. Una bella croce sopra. Un cadavere nell'armadio, un fantasma. E se i fantasmi nell'armadio imparano la combinazione della serratura ed iniziano ad uscire quando piu gli aggrada? Tutto fatto di caffeina, andare al lavoro. Si dimentica l'ombrello, si dimentica i documenti, scappa il gatto dall'uscio, andare a prenderlo in cantina. Prima che la vecchia "hater" del quarto piano glielo faccia ritrovare secco stecchito avvelenato. No non fare cosi. Riprenditi!! Andare al lavoro. Certo, è una parola! Andare al lavoro con tutto il cuore che sanguina sotto la camicia, minimo bisogna indossare una camicia rosso fuoco e sperare che non si noti la macchia che si allarga sul petto. Andare al lavoro con tutti gli intestini che escono dalla ferita trasversale aperta.. bisogna continuamente rimetterseli dentro, per fortuna che non deve prendere un aereo, ad esempio, perchè gli sbirri della sicurezza aereoportuale antiterrorismo sarebbero un minimo insospettiti dal continuo armeggiare sotto il cappotto, penserebbero che nasconde un kalashnikov sotto il giubbotto e lo seccherebbero all'istante. Invece è solo una fuoriuscita intestinale, una ferita slabbrata per il lungo. Son problemi. E non immaginate la puzza poi.
E la bolletta da pagare? Ogni due mesi novanta euro di gas. Gas russo, e per fortuna che il nostro premier è un beneamato amico del dittatoriale leader ex-KGB, senò, manco avremmo il gas. Si ritornerebbe alla stufa a legna. Ma che poi non odiava i comunisti, lui!? Mah. Comunque si aprono ferite dappertutto, chiudendosi il giubbotto si accorse che pure il dito gli sanguinava. Se lo
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