Maria Medea non aveva dormito per tutta la notte e, quando le prime luci del giorno fecero capolino sui vetri della finestra, pensò che sarebbe stato necessario raggiungere suo marito in montagna, per verificare che niente gli fosse accaduto. Antonio, infatti, era solito rientrare al paese una volta al mese per approvvigionarsi di viveri e salutare i suoi cari. Quel mese Maria Medea lo aveva atteso invano, perciò pensò di sellare il cavallo e di salire allo stazzo. I figli, ancora piccoli, avrebbero dormito dai vicini. Il giorno seguente s'alzò all'alba, come era sua consuetudine, perché era suo il compito di accudire alle galline, all'orto, alla capra, al cavallo. Attraversò il cortile con il secchio delle cibarie per le bestie e, guardando il cielo, s'accorse che l'inverno indugiava ancora sulle foglie cariche di brina, mentre strati di nebbia sovrastavano il paese. Doveva sapere cosa era successo a suo marito, l'unico uomo della sua vita, l'unico che avesse amato. Era bello il suo Antonio! Un quarantenne alto e forte, ma noto a tutti per la sua prepotenza. Lei ormai lo conosceva bene, bastava che dicesse sempre si con rispetto e devozione e lui era capace anche di tenerezza.
Lo aveva conosciuto alla festa di paese, era bastato uno sguardo e se ne era subito innamorata... Con il secchio tra le mani non riuscì ad evitare un cespuglio di rovi, appesantito dalla brina, un cespuglio che si era infilato tra un grosso gelsomino rampicante e un albero di limone, tanto vicini tra loro da sembrare che s'abbracciassero. Si punse. Guardò il sangue sul dito e pensò subito ad un presagio nefasto, fu solo un attimo, una frazione di secondo, perché il pensiero tornò ad Antonio.. le sembrava di sentirlo mentre prometteva di tagliare il limone che, secondo lui, era diventato troppo invadente. Se lo avesse fatto, lei ne avrebbe sofferto, perché le faceva compagnia nei giorni di malinconia, quando guardando fuori dalla finestra della cucina vedeva splender
La dottoressa Palmer, biochimica di fama internazionale, non stava in sé per la gioia.
"Le molecole della longevità" non erano più astratta teoria, ma una splendida certezza.
Un balzo gigantesco per l'Umanità. Almeno trenta anni in più di longevità e buona salute, anche, oltre i cento anni. Un sogno che diventava realtà. Per raggiungere lo scopo, nel laboratorio, non aveva esitato a far vivisezionare centinaia di bambini, colpevoli solo di essere innocenti. Che strano paese l'Africa, basta un niente e s'infiamma. Nell'ultima fiammata, purtroppo, il Centro di Ricerche Biologiche di Laukasa, cadde nelle mani sbagliate dei Rivoltosi. Comunicazioni interrotte e nessun dato sulla dottoressa Palmer e i suoi assistenti. Si sapeva solo, dalle foto del satellite, che la struttura della sede era ancora in piedi. Mister Mulligan, l'uomo incaricato di trovare una soluzione, squadrò i quattro mercenari che componevano il "Commando." "... E questo è tutto, sapete cosa fare e sapete anche che per 36 ore etica di guerra." " Mister, il mancato arrivo del Cobra Mustang, alle ore nove, annulla il nostro patto." " Mi sembra ragionevole, d'accordo." I quattro componenti del "Commando" erano delle autentiche belve feroci: Franz, aveva una ventina di cadaveri all'attivo e voglia di arricchire il bilancio. Julien era il Mozart del tritolo e dove operava lui, niente restava in piedi. Andrew era un chirurgo raffinato, i suoi occhi sembravano perle di ghiaccio. Giulio era detto l'Africano, per la profonda conoscenza del continente nero. Una visitina al mercato e subito fu individuato il furgone di un paio di Ribelli. Accopparli e far scomparire le loro carcasse fu un gioco da ragazzi. La pista degli elefanti era in buone condizioni e a bordo del vecchio bedford, macinarono chilometri su chilometri, avvicinandosi alla meta. Dei feroci guerriglieri africani nessuna traccia. Ogni tanto qualche mandria di mucc
Una stanza tappezzata di fotografie: rappresentano una donna in pose sensuali, in biancheria intima o abiti molto succinti; in altre è in compagnia di uomini, in ogni fotografia c’è un uomo diverso. La donna delle foto è seduta su una grande poltrona rossa, al centro della stanza. È molto bella, ha i capelli lunghi, scuri. Indossa un elegante tailleur scuro e gli occhiali da vista. Alla sua destra c’è una scrivania, è ricoperta di fogli di carta scribacchiati e pacchetti di sigarette. In un angolo c’è anche un posacenere ricolmo di cicche. Alla sinistra della donna c’è un piccolo frigorifero e un enorme armadio scuro. Lei fissa il vuoto, non muove un muscolo. Dopo pochi minuti si volta a destra, guarda la scrivania. Sorride con un’amara ironia, il suo sorriso esplode in una risata. Si alza e va verso la scrivania. Prende dei fogli a casaccio, li scorre, li lascia cadere a terra. Poggia le mani sulla scrivania e reclina il capo:
- “Versi sparsi, illusioni perdute…cosa ne rimane? Sono una poetessa che non scrive perché non sono ancora abbastanza in alto o…sono già sprofondata?”
Alza il capo, si guarda attorno allarmata:
- “No, sono ancora in piedi, ancora incatenata alla mia luccicante esistenza”.
Sfiora una delle fotografie attaccate alla parete, sorride, poi si dirige verso il frigorifero, si versa da bere, accende una sigaretta e torna a sedersi.
- “Sono soddisfatta della mia esistenza, della mia maschera ancora intatta. Io sono viva. Bevo vino, fumo e mi diverto giocando con i loro cuori. Bella la mia vita. Sono una donna di successo, ammirata e rispettata, corteggiata e desiderata. Vinco su tutti. Sono viva, sono ancora viva, nonostante tutto esisto ancora…no, lei esiste ancora. È lei che vive per me, è lei che mi ha portata fin qui e mi ha fatto avere questo successo. Mi ha educata, mi ha salvata. Lei è l’Altra. Ma se lei è l’Altra, io chi sono? Sono lei, si…che sciocca a fare simili pensieri! Io sono ci?
Andrea era in pantofole di panno, guardava dalla finestra il parco ed era felice perché non doveva studiare in una giornata così calda. Un leggero vento faceva ondeggiare le foglie degli alberi, attraverso le quali fissava il cielo. Le sue mani odoravano del tabacco con cui tentava di riempire a dovere il fornello della pipa. L'accese e stiratosi come un gatto cominciò a fumare, facendo nuotare il suo sguardo sulle onde di fumo che salivano verso le cime degli alberi.
Antonio sedeva in poltrona sfogliando un libro. La storia di un principe che rapito dagli uccelli inviati da un maligno fratellastro, era stato precipitato in mare e trascinato in un'isola, tirato per i capelli da sirene. Anche lui guardava fuori dalla finestra disperdendosi tra donne e demoni che uscivano dalla sua barba e, seguendo una vena calda dell'aria, raggiungevano i rami degli alberi cercando il serpente cui congiungersi. Mise sul moleskine le sue fantasie creatrici che alimentavano la sua ambizione di disegnatore di fumetti.
Alberto, una voce eretta in un cruccio del giorno. Ma più spesso una voce crucciata per non avere mai abbastanza tempo per inseguire il filo dei suoi sensi. Un tipo fatto di scorza per nascondere il suo profumo. Una forma d'acqua capace di scivolare fuori dalla rete, ma a volte suonava ardito, spontaneo e lacerato nel canto. Ogni sera si girava a guardare il suo giorno: una storia sodomita.
Adamo cercava l'uomo che lo aveva dipinto in quella striscia di terra ed in quell'angolo di cielo, dove la notte non era ancora passata, dove nessuna delle trecento notti passate tra spremiture di papavero gli aveva permesso di dormire, senza sapere che farsene del suo disperato amore per una donna che gli chiedeva solo una monta. C'era il ronzio delle zanzare nelle sue orecchie, le risate che si perdevano per strada in un'estate immobile come il suo corpo sul divano, fissato nella sua indistruttibile tristezza
L'ultimo ospite, che era seduto in poltrona a leggere L'U
Era bella Erica, affascinante, 45 anni portati splendidamente, una donna affermata nel lavoro, intelligente e sicura di sé; la vita le aveva dato molto ma altrettanto le aveva sottratto. Laureata in giurisprudenza esercitava con passione e perizia la professione di avvocato, estremamente competente lavorava come associato in uno studio legale di Milano dove si era trasferita ormai da quasi 20 anni.
Nata e cresciuta in un paesino dell'alto Lazio aveva avuto un'infanzia serena, i suoi genitori erano persone per bene, lavoratori, dediti alla famiglia, amorevoli con Erica e Giorgia, le loro due figlie, erano però scomparsi prematuramente, entrambi colpiti da un male incurabile per questo Erica e la sua sorellina Giorgia di tre anni più piccola, erano cresciute troppo in fretta.
Con l'adolescenza Erica ebbe grossi problemi di identità a cominciare dal nome che non le piaceva affatto, non sentiva di somigliare a quell'arbusto insulso e spinosetto e avrebbe voluto cambiare il suo "Erica" con nomi tipo Alessandra, Veronica, Tiziana più belli e musicali.
Come tutte le ragazze a quell'età era instabile, irascibile a volte lunatica per questo spesso era di malumore, cupa a volte triste, sovente si chiudeva in se stessa rintanata nella insormontabile torre del suo medievale inaccessibile castello.
Se il suo carattere crescendo era peggiorato il suo corpo al contempo era a dir poco fiorito e sbocciando si era trasformata da informe e goffa crisalide a stupefacente e delicata farfalla.
La bimba cicciottella e impacciata di un tempo era diventata una bellissima ragazza, alta formosa grandi e dolci occhi scuri, bocca carnosa e sensuale e una morbida e fluente chioma ramata le incorniciava il viso dall'ovale perfetto.
Era la più carina del liceo Erica e molti dei suoi compagni avrebbero fatto carte false per uscire con lei.
Ma il giovane cuore di Erica batteva solo per Davide... timido con due splendidi occhi neri, un ciuffo biondo sbarazzino che gli accarezzava la
La prigione. Non aveva negato niente. L’aveva ucciso con le proprie mani. L’aveva accoltellato nel sonno. Sentiva ancora il suo sangue che le riscaldava le mani e cercava di scaldare il gelido cuore. Era lui che gliel’aveva resa gelida, e quindi era lui che doveva scaldarglielo, non c’era via d’uscita. Solo il sangue poteva lavare tutta l’umiliazione subita, e lei l’aveva fatto. Non si aspettava che gli altri ascoltassero la sua storia, dopo che l’aveva ucciso si aspettava una grande punizione, aveva preso in considerazione anche la morte. Però , stranamente loro l’avevano capita. Un avocato l’aveva difesa. Era uscita da lì con un’altra identità e l’avevano fatta trasferire qua, in questa piccola tranquilla cittadina. Le avevano purè trovato un lavoro. A lei era incominciata a piacere questa nuova vita, solo che il pensiero di non poter mai più rivedere il suo paese la seguiva come una minacciosa nube nera. Non sapeva come, però tutti avevano capito che lavoro aveva fatto in passato. Era meglio morire che tornare di nuova là…
Sto parlando con te, o mio sconosciuto, perché anche qua sono tutti sconosciuti per me, però meglio così, meglio sconosciuti che quelli che ho conosciuto io. Tu adesso sei la mia icona (santo) . Non per pregare, per me non ci può più essere perdono. Sono stata obbligata a compiere i miei peccati, ma ormai, non possono più essere assolti. Io non ho saputo perdonare, non ho neanche saputo amare. Ho amato il ricordo dei miei genitori prima di arrivare qua, adesso ho timore anche di ricordarli, addirittura chiederli perdono perfino nei sogni. Li ho umiliati, e se Dio vuole, che mi mandi negli inferi, così non sarò obbligata a rivederli nell’altro mondo. Ero piccola quando li ho persi, non mi ricordo neanche i loro sguardi, senza dubbio pieni di amore, però non basta… Forse non voglio provarlo, la delusione può essere troppo grande. Pensav
Immerso nel silenzio della sua cameretta in affitto, Iperbaldo era seduto allo scrittoio: con gli occhi chiusi, e le dita già allungate sui tasti della sua fedelissima, si trovava proprio in quel momento magico in cui l'idea in testa era già bell'e formata, e di lì a qualche istante si sarebbe trasferita, fluida, alle mani, perché la fissassero per sempre sul candore di un foglio nuovo.
Se ti è mai capitato di trovarti in una situazione simile, sai bene quanto quell'equilibrio sia fragile, delicato e fugace: comprenderai bene, dunque, l'intero sgomento che rapì Iperbaldo, nell'attimo esatto in cui venne meno la corrente, e la sua cameretta in affitto piombò d'un tratto nell'oscurità più completa. Imprecò tra i denti, ma non ci mise tutta la fantasia, né la voce, di cui era senz'altro capace: temeva che la sua preziosissima idea potesse sfuggirgli, mimetizzata nel traffico delle male parole.
Fuori imperversava il temporale: fino a pochi istanti prima pareva così lontano da Iperbaldo, quasi fosse in un'altra dimensione, e non semplicemente di là dal vetro doppio della sua finestra che guardava il fiume. Non avrebbe davvero mai creduto che qualche lampo potesse nuocergli, mentre si considerava al sicuro, nella sua tana accogliente. Ma, ora, scaricava sulla bufera tutta quanta la colpa delle sue attuali sventure: ogni tuono lo faceva trasalire, e gli alimentava la digià ben nutrita voglia di esplodere in improperi.
Ma si trattenne, ben conscio del rischio che non aveva alcuna intenzione di correre. Per un bel po', quanto in effetti non avrebbe saputo dirlo lui neppure, se ne rimase semplicemente seduto lì, con gli occhi chiusi e le dita già allungate sui tasti della sua fedelissima: a cullare la sua brillante idea, perché non gli fuggisse di tra le dita proprio ora.
Solo dopo qualche tempo si decise ad alzarsi, con estrema cautela ed attenzione, per andare a cercare un lume. Lentamente, aprì la porta, e scese a bussare all'uscio
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