Il monastero
Non saprei dire come né perché, ma improvvisamente sentii che ero pronta per andarla a trovare al convento.
Oggi si che ce l’avrei fatta. Nonostante il freddo. E quella pioggia battente.
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La prima volta che decisi di visitare il monastero delle Suore Agostiniane in Via dei Santi Quattro fu l’estate scorsa, poco dopo ferragosto. Ero sola in città. Non avevo ancora ripreso a lavorare e Piero era in viaggio in Asia. Non amavo quel genere di viaggi, vagamente avventurosi e da tempo ormai lui si organizzava per conto suo. Io invece trovavo esaltante trascorrere qualche giorno a Roma da sola, proprio nel momento in cui la città era più vuota.
Sentivo un senso nostalgico di abbandono e al tempo stesso un’ eccitante sensazione di libertà.
Scesi dalla metropolitana alla fermata Colosseo. Uscita dalla penombra della stazione, mi assalì una luce accecante e un’ondata di calore sul viso.
Intorno a Piazza del Colosseo i turisti attraversavano disordinatamente la strada e scendevano a gruppi dai pullman. Mi accorsi solo allora di quanti negozi di souvenir, ristoranti e bar più o meno caratteristici avessero preso il posto delle botteghe di una volta.
Mi nascondevo tra i visitatori di passaggio. I capelli biondi e gli occhi chiari accentuavano il mio aspetto forestriero. Mi mescolavo tra i turisti e con la loro stessa curiosità ?" e quanto timore! ?" mi avviavo verso Via dei Santi Quattro.
Presi un caffè in un languido bar all’angolo della piazza. Guardai le immagini del Papa nella vetrina del negozio accanto. Fui attirata dalle riproduzioni della lupa che allatta i gemelli e dal Colosseo in miniatura. Entrai, strinsi tra le mani quegli oggetti, li sfiorai con le dita, guardai al di sotto l’etichetta con il prezzo, rovesciai la palla di vetro con dentro il Colosseo e feci nevicare.
Oggi è il primo giugno del duemilaotto, sono con mia madre, al calduccio fra le sue braccia rovinate da trent' anni di lavoro nei campi di grano; oggi è il mio compleanno.
Dodici anni fa nacqui a Naypyidaw, la capitale di Myanmar, con il nome di Kirikù, avevo undici anni quando il due Maggio si è abbattuto su di noi il Ciclone Nargis che ha spazzato via la mia baracca, mio padre, i miei migliori amici e la mia sorellina ancora in fasce.
Da quel funesto giorno mia madre non è più in sé, delira, urla, piange e si scortica il viso con le sue lunghe unghia che un tempo erano sempre pulite e curate; ma oggi sembra che si sia calmata, mi stringe a se, mi molla un bacio umido sulla mia guancia sudata e poi mi sussurra, quasi cantilenando, che da domani sarei dovuto andare a lavorare nella casa di un ricco signorotto in periferia, come domestico, perché non abbiamo più soldi e se non paghiamo l'affitto del magazzino del pesce in cui viviamo, ci cacceranno via.
Cerco di opporre resistenza ma ho sempre saputo che non avrebbe mollato, allora non discuto oltre, perché prevedo che mi arriverà un ceffone.
Mi sveglio al sorgere del sole, mi siedo sul mio pagliericcio umido e mi lavo la faccia con dell'acqua che mia madre era andata a prelevare nel pozzo in centro; mi vesto e poi esco, trovo mia madre sull'uscio mentre saluta il proprietario del magazzino, un'omone basso e tozzo.
Io e lei ci incamminiamo per le viuzze desolate che portano direttamente in un villaggio al centro di una foresta pluviale; nel nostro cammino abbiamo incontrato un imponente albero del mango, con i frutti dolci e succosi e ne abbiamo prelevato qualcuno per il nostro piccolo viaggio.
Dopo un'ora piena di cammino finalmente siamo arrivati alla casa del mio futuro padrone, una piccola struttura di tre piani cementata e rozza, ma si può considerare una residenza per ricchi dalle nostre parti.
Non c'erano porte, solo una specie di tenda fatta di foglie di banano, mia madre si avvicina
Fu un attimo, un lampo attraversò i miei occhi.
Il suo braccio teso si schiantò sul mio petto come un sasso lanciato da lontano.
Caddi a terra in uno schianto, il respiro stroncato dall'urto.
Sollevai la teste lentamente fino ad incontrare i suoi occhi fissi su di me. Paura, odio, stanchezza difficile dire cosa raccontavano.
Il suo respiro spezzato dalla rabbia ed il suo braccio ancora teso nell'aria indicavano la fine di una relazione mai iniziata.
Cercai di rialzarmi, ma il dolore era troppo forte; ad ogni respiro fitte intense e penetranti pungevano i miei polmoni come mille spilli. Scariche elettriche troppo intense per essere sopportare.
Tutto sì coloro di nero, l'odio come un motore lanciato al massimo s'impossessò del mio corpo.
Quell'uomo doveva essere punito, era lui con la sua indifferenza, il solo colpevole di tutto ciò che il mondo aveva gettato su di me.
Scattati in avanti il dolere ormai lontano, il sasso ben stretto nella mia mano.
Colpii alla cieca, senza controllo, il sangue imbrattò di rosso Il muro alle sue spalle, schizzi impazziti d'artista maledetto.
Il colore intenso e l'odor ruggine del suo sangue mi eccitavano, come una iena mi accanii sulla preda ferita.
Ad ogni colpo che infliggevo il peso che da troppo tempo portavo dentro diminuiva la sua intensità, la corda che stritolava le mie viscere s'allentava e quando il sasso scivolò via dalla mia mano insanguinata ero finalmente libero.
Ciò che rimaneva delle mie paure, delle mie insicurezze, era un cranio spappolato ed il volto ormai irriconoscibile della mia vita passata.
Erano le sei e quarantacinque di un tiepido venerdì di dicembre.
I bagliori del primo mattino promettevano una giornata serena, il cielo era terso e il sole sfolgorava all'orizzonte.
Giulia aveva promesso ai suoi piccoli una gita in montagna col papà per tutto il Week-end.
Il venticello che si era levato durante la notte, aveva spazzato il cielo dagli scarichi mefitici delle auto che erano partite per il fine settimana.
"Andiamo in montagna mamma?" Domandò Luca sbadigliando.
"Sì Luca, andiamo in montagna a raccogliere i funghi e se li troviamo facilmente, coglieremo anche mirtilli e more".
La strada era vuota a quell'ora ed il viaggio ad alta velocità era stato breve e tranquillo.
Scendendo da un vicolo stretto, tra case di pietra, erano arrivati alla piazzetta del paese per bere un cappuccino. La chiesetta romanica con la facciata grigia e chiusa dal portale antico ornato da ricchi fregi era chiusa, ma un variopinto rosone che rifrangeva il primo raggio di sole, dava alla piazza una calda e nitida luminosità.
Trovarono aperto un unico bar anch'esso ancora vuoto. Soltanto la titolare li accolse con un "buon giorno" sorridente: L'aria profumava di brioche e di caffè ed in attesa dell'inizio del giorno, si prepararono seduti ad un tavolino per l'abbondante colazione che la donna aveva servito in un grande vassoio: Latte caldo, caffè, calde brioches e succo d'arancia. Con calma ed ancora un po' assonnati si rifocillarono e con altrettanta calma iniziarono a cambiarsi per indossare pantaloni e scarponi adatti alla passeggiata. Giulia aiutò i ragazzi a calzare gli scarponcini per salire agevolmente sull'erta ripida e sassosa verso la quale si sarebbero subito incamminati Fece affibbiare sui fianchi la giubba impermeabile e contemporaneamente spalmò le loro guance di crema filtrante per il sole che di lì a poco avrebbe bruciato sulla pelle.
Si avviarono a piedi e si addentrarono nella boscaglia scostando le grandi fronde che piegavano rigogliose sul percorso.
Procedettero a fatica ma con le fresche energie de
— Non c'è nulla che possa accadere, nella vita di un uomo, senza che questi possa riuscire a trasformarla in un guadagno— l'ebreo che gli stava dietro ascoltò in silenzio quelle che sarebbero state le ultime parole pronunciate da un condannato a vivere la morte da vivo, e non poté che convenire con lui, perché quell'estrema consapevolezza, per essere raggiunta, aveva avuto bisogno di troppe vittime. Per lui, quel guadagno, stava nell'aver capito che persino la morte era poco importante, per un Dio che donava la vita a tutti, persino ai morti...
La signora Alina aveva circa cinquant'anni, bionda, di carnagione chiara, portava i capelli raccolti sulla nuca tenuti da una fascia di lana che le incorniciava il viso. Parlava con un timbro di voce pacato, parlava e sgranava gli occhi, così languidi che pareva volessero nascondere cose molto tristi e dolorose. Avevo capito che era vedova. Con lei abitavano due figli, il maggiore, Corneliu, insegnava in una scuola elementare, il più piccolo Roman frequentava ancora una scuola professionale. La signora Alina mi permise di tenere, durante le ore di lavoro, il piccolo Samuel; d'altronde come avrei potuto fare? era troppo piccolo per essere lasciato da solo, in casa. Dopo circa due mesi, mi invitò a trasferirmi nella sua casa: "Vieni, trasferisciti da noi, c'è una stanza anche per te e Samuel, i miei figli sono contenti!" . Lasciai nella mia dimora, con grande gioia del padrone di casa, tutti i mobili e anche il letto in ferro battuto, per ripagarlo dei mesi d'affitto che non avevo potuto saldare. Vivere nella nuova casa, tutti insieme, significò far crescere mio figlio in una vera famiglia. S' instaurò con la signora Alina una certa complicità, perché aveva capito che ero una ragazza onesta e affidabile. Con Samuel si comportava come una vera nonna, affettuosa e paziente. Percepivo che mi voleva bene; nutrivo una profonda gratitudine nei suoi confronti, adoravo sentirla parlare, ascoltarla. I suoi discorsi non erano mai banali, era saggia, colta e poi, detto tra noi, mi aiutò, come si suole dire, ad aprire gli occhi. In quel periodo la società stava cambiando ed io, vissuta sempre in solitudine, non conoscevo nulla di ciò che stava capitando alla nostra nazione. Mi stupiva che non parlasse mai di suo marito, neppure con i figli. Pensai che avesse trovato il modo di superare il dolore, che avesse trovato il modo per amarli da sola. Avevo incominciato a capire che c'era fermento nell'aria quando mi mandò, alle tre del mattino, a fare la fila al mercat
[continua a leggere...]Nonostante i tentativi della Magistratura, di preservare le famiglie dei due giovani, dalla curiosità a volte anche morbosa, dei media di ogni genere, a circa due settimane dalla loro morte, si è saputo in giro chi fossero i due ragazzi vittime di questa assurda tragedia; i loro veri nomi sono girati velocemente con effetto tam-tam e le due famiglie si sono ritrovate, nonostante il legittimo e incommensurabile dolore, a dover affrontare il fastidio della stampa impietosa.
Il nostro giornale, si distingue per il rispetto del dolore, ed offre alle famiglie coinvolte, il proprio sentito cordoglio.
Resta comunque aperta la legittima domanda dei nostri lettori:
perché un ragazzo di 17 anni e una ragazza di 15, provenienti da tranquille famiglie della media borghesia cittadina; ragazzi che, a detta dei conoscenti e dei compagni di scuola non mostravano apparenti segni di disagio o squilibrio, perché dunque, ragazzi così sono ricorsi ad una soluzione talmente drastica come appunto il suicidio?
Dato che è questa l’ipotesi più accreditata dalle risultanze delle indagini.
Il nostro giornale è disposto ad accettare la collaborazione di chiunque, conoscendo i giovani in questione, possa aiutarci a rispondere a questa dolorosa domanda
(E. M.-M. A.)
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Abbiamo ricevuto in redazione, giusto ieri, una lettera manoscritta, l’abbiamo fotocopiata e immediatamente dopo, passata alla Magistratura, poiché, se le analisi e gli accertamenti di autenticità ci daranno ragione, si tratterebbe di un documento autografo, vergato proprio dai due giovani così tragicamente scomparsi.
Solo dopo che il Magistrato ci avrà dato la necessaria autorizzazione, provvederemo, nel rispetto della dignità delle famiglie delle vittime, a renderla pubblica.
(E. M.-M. A.)
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