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Racconti drammatici

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E tu lo chiami amore

Lei tirò su col naso.
Muco e sangue: ne sentiva il sapore dolciastro, denso e viscoso.
Spostò una ciocca di capelli dagli occhi e guardò nell'oscurità della stanza. Il suo respiro rauco che fendeva il silenzio.
Dolore.
Dolore.
Doveva avere un paio di costole rotte. Un occhio gonfio: lo sentiva pulsare. Le labbra spaccate. Lividi e segni sul seno. E si sentiva sporca. Appiccicaticcia in mezzo alle gambe: forse era sangue o forse no. Che differenza poteva mai fare adesso? Lo aveva sentito pesare su di lei, dentro di lei. Accanirsi sulle labbra e i capelli e coprirla di insulti e di botte. L'aveva sentito venire. Fece uno sforzo immane per cancellare da sé quell'immagine e contemporaneamente per rintracciare anche solo un briciolo di piacere in quello scempio. Era il tentativo che la sua mente faceva per renderlo meno intollerabile.
La cosa più lacerante è che lui l'aveva chiamata amore.
Amore.
Amore.
Non era il dolore, come una ragnatela sul viso, o i lividi sul seno o il seme che le colava dal ventre. Fu quella parola che la squarciò veramente. Che la passò da parte a parte.
Le aveva urlato contro. Puttana. E l'aveva colpita, e ancora e ancora e ancora, e poi era entrato dentro di lei e dentro di lei aveva grugnito e deposto il suo sperma mentre lei implorava.
Per favore. Per favore. Almeno questo. Dentro no. Ti prego.
Ma niente di tutto questo l'aveva ferita come l'essere chiamata amore.
Era stata la dolcezza agghiacciante nelle parole, e quell'accenno di carezza sul volto segnato, a farla riavere dallo stato di semi-incoscienza nel quale era scivolata, alla fine, per salvarsi. A volte la migliore difesa contro il dolore è l'assenza. Essere corpo morto per non morire.
Aveva urlato scrollandosi quell'uomo di dosso ed era corsa verso il bagno chiudendosi la porta alle spalle.
E finalmente aveva pianto. Scossa da singhiozzi che partivano da una qualche parte dilaniata al suo interno, si era accasciata in ginocchio con la faccia schiacciata fr

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La città è un mostro dai mille tentacoli

<Ho le mani piene di sangue cazzo. E poi dove sono, che cazzo di vicolo è questo?>
Mi sono ritrovato qui con le mani sporche di sangue. Qui a terra in questo vicolo.
È notte.
Prostitute
Tossici
<Hei amico, dove scappi, non vuoi divertirti un po' questa sera>

La città è un mostro dai mille tentacoli.
Scappa, lontano scappa.
Di chi è questo sangue, di chi è!!
Non sono ferito, ho i pantaloni che indossavo oggi al lavoro.
Sono nella via principale della città.
Vetrine di vestiti alla moda, in cui specchiarsi.
Faccia da spettro, occhi di morte
Una coppia di adolescenti mi guarda spaventata, hanno interrotto le loro effusioni e si sono spostati.
Emano angoscia.
Luce blu.
Manette

Il parco giochi, mio figlio sull'altalena, ride felice, lo guardo dondolarsi. Il mio ragazzo sta crescendo.
-Forza Peter, spingi quell' altalena, vola lontano


Francesca amore mio, come sei bella oggi, la tua pancia che cresce. Nostro figlio che nasce, i tuoi capelli decorazioni lunari. Sorridi.
I tuoi seni, che sono miei
Andiamo Francesca ti porto al mare, non stiamo qui oggi.

E tu chi sei?
Lasciatemi cristo. Lasciatemi.
<Signor Jackson stia calmo>
<Chi siete? Chi cazzo siete voi?!>
<Lasciatemi andare, la mia famiglia mi sta aspettando Oggi è il compleanno di mio figlio. Per favore!>
Il dottor Philips, dentro il suo camice blu, barba incolta, figlia di notti insonni, non riesce a capire.
<Signor Jackson, lei non si ricorda nulla vero>
<Cosa dovrei ricordare, maledetto bastardo fammi uscire>

Una gabbia di pareti bianche mi rinchiude, sono due anni che sono qui, da quel maledetto giorno.
Queste pareti che si stringono attorno alla mia testa.
Spremono i miei ricordi.

Casa
<Francesca, amore sono tornato.>
Un silenzio si estende per la casa come muffa sulle pareti
Il cuore mi pompa dentro al petto, fino ad esplodere
Sangue
Corpi sventrati
Peter e Francesca sono stati uccisi.

Rewind
<Francesca amore sono tornato>
il cigolio di un

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La memoria dell'acqua

Acqua.
Ne sento il rumore, anche adesso che sono sveglio.
La luce del sole è un lampo negli occhi. Bianco, splendente, che acceca e riempie di puntini luminosi il buio delle palpebre abbassate. Cerco di spostare con la scapola quel cazzo di remo destro infilato nella schiena da questa notte. La barca dondola al ritmo lento delle onde. E dentro, il mio corpo o, almeno, quel che ne rimane.
Ho sforzato a lungo la mente, alla ricerca di un testo adatto per inseguire quella che la redazione ha intitolato "la memoria dell'acqua", una traccia per un chissà quale concorso letterario.
Ho pensato veramente di tutto per trovare l'idea giusta, per scrivere parole, punti, virgole e parentesi che potessero lasciare un segno. Una lettura che ti faccia premere la schiena contro il sedile del treno e ti faccia sentire il cuore battere all'impazzata nel petto, un fiume di parole che ti scorrono a fianco, in un viaggio destinato a finire, ma immobile in un tempo che pare ancorato nelle sabbie letterarie.
Acqua.
Bere.
Dio solo sa quanta sete ho. Sento la bocca impastata, i denti che si fondono l'un l'altro. La lingua bolle, mentre il palato cola come lava giù per l'esofago. È come se ogni cattiveria sputata contro qualcuno mi stesse tornando indietro. Una caramella amara offerta dall'orgoglio.
Ogni qual volta una nuvola copre per un attimo il sole, sollevo lo sguardo e osservo il mare. Sono circondato da litri d'acqua e non posso berne neppure una goccia, neanche la più piccola. Così lascio che la testa torni ad appoggiarsi alla punta della barca, incapace di ricordare con esattezza da quanto tempo sono qui.
All'inizio, cercare l'idea giusta, con la mente sgombra da ogni pensiero, mi consentiva di variare dalle ipotesi più semplici a quelle più assurde.
Ho cominciato osservando l'acqua attraverso le bottiglie, scuotendole e rovesciandole nella speranza che qualche goccia contenesse la storia che aspettavo. Oppure riempiendo secchi, pentole e bicchie

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   0 commenti     di: Andrew Abel


L'autore resta ignoto

Quando morì mia suocera, la sua casa restò vuota e allora decidemmo di venderla.
Era una vecchia abitazione, che risaliva probabilmente ai primi del XIX secolo, disposta su due piani, più la soffitta.
I compratori ovviamente la vollero libera e così si provvide allo sgombero dei mobili e di tutte le suppellettili.
In soffitta trovammo un marasma di cose vecchie: fotografie di gente a noi ormai sconosciuta, oggetti di nessun valore, ma che per qualcuno avevano significato molto, e fra questi un quadernetto dalla copertina nera.
Lo volli tenere, perché a suo modo rappresentava un’epoca, con i fogli a righe e una calligrafia minuta, con non infrequenti sbavature, segno che l’autore aveva utilizzato penna e calamaio, tranne che per le pagine dalla metà in poi dove il tratto di una matita appariva in più punti sbiadito.
Di quello che ho letto, di ciò che c’è scritto, a volte anche con errori d’italiano che, per rispetto, non intendo correggere, voglio rendervi partecipi.

14 agosto 1914.
Oggi fa caldo, il sole picchia come un ossesso, ma sono felice. L’ho conosciuta quasi per caso, ma era da giorni che l’avevo notata. L’ho salutata e lei mi ha risposto. Ho sentito il cuore battermi forte e l’ho guardata allontanarsi: è la donna più bella del mondo.

15 agosto 1914.
C’è la festa del paese, c’è la musica. Potrò invitarla per un ballo? Ecco, ora temo che tutto quel bel sogno vada male e che lei mi dica di no.


16 agosto 1914
Sono felice, come non lo sono mai stato.
Oggi mi sono messo il vestito della festa, che è anche l’unico che ho.
Quando si è poveri si è costretti a mettersi gli abiti vecchi che altri magari hanno avuto già usati. Le braghe sono un po' larghe, ma con le bretelle stanno su.
Il peggio è la giacca: stretta, che se la chiudo non respiro, e se la tengo aperta fra un lato e l’altro ci sta una spanna. Meglio di niente, comunque. L’ho invitata e lei ha abbassato gli occhi, ma ha detto sì. Abbia

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Uomini dalla barba lunga

Un passo dopo l'altro.
Un piede si sussegue al precedente in un ticchettio ovattato e regolare provocato dalle scarpe sgualcite che picchiano sul marmo. Nessuno si gira, nessuno incontra il suo sguardo, nessuno ode il ritmo regolare delle solette: consapevole indifferenza che la gente nutre verso chi, a differenza loro, non può permettersi una camicia sempre pulita.
Svolta un angolo e si ritrova in un'altra strada priva di significato: non c'è un abitazione che lo riguarda, né un ufficio, né tanto meno un luogo ove entrare e trovare il caloroso affetto di un amico che lo invita a sedersi e a prendere un alcolico per raccontargli le ultime vicissitudini con la propria ragazza. Nulla di tutto questo è riservato a coloro che indossano gli abiti immancabilmente forgiati dal tempo passato in strada e portano la barba lunga per proteggere il viso dal freddo imperterrito che aleggia quando ci si trova senza un tetto a dividere il proprio capo dalle stelle. Ogni tramonto è uguale al precedente, a ogni notte segue sempre un giorno che si differenzia da quello passato come i passi nel marmo si differenziano l'uno dall'altro. È questa la vita che conduce un uomo dalla barba lunga e dagli abiti sgualciti; a volte uno scalino, altre volte una panchina sotto un albero possono offrirgli riposo e accoglienza al pari di un letto; mezzo panino abbandonato da un turista può placargli parte del vuoto provocato dall'arrogante fame al pari di un pasto caldo, una scatola di cartone rapita al supermercato del quartiere gli offre caldo e protezione come un piumone o un plaid. Agadit passa così la sua vita, trascinandosi da un luogo all'altro dalla città senza alcuna meta apparente, in cerca di qualcosa che possa aiutarlo a placare e mai soddisfare i suoi fabbisogni primari; però lui conserva un segreto, una speranza, un obiettivo che non ha mai confessato a nessuno dei suoi amici migliori per paura di essere tradito: nei bagni della metropolitana abbandonata conserva u

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Non ritorno

Mi sono chiesto spesso quale sia il punto di rottura di una persona normale. Quando, arrivati ad un certo limite di sopportazione, senti come un “crack”, qualcosa che ti si rompe dentro e, come succede quando si rompe una diga, fuoriescono le tue emozioni tutte insieme, senza che tu riesca a controllarle. Rabbia, dolore, angoscia, frustrazione, disperazione ed ecco che poi anche l’individuo più tranquillo di questo mondo diventa un pericolo pubblico. Anzi. Sono proprio le persone più sensibili a diventare le più pericolose. La sensibilità è un’arma a doppio taglio: finché sei piccolo non fanno altro che lodarti e prenderti come esempio. Ma, mano a mano che cresci, ecco che la tua sensibilità diventa un peso, una zavorra per chi ti circonda. Nella vita non sopravvivono i coniglietti dal pelo morbido, ma le faine che si avventano su di essi. Per andare avanti bisogna avere il pelo sullo stomaco e, ironia della sorte, non sono i più intelligenti ad avere la meglio, ma quelli che sanno ingoiare il letame che viene propinato loro ogni giorno senza farsi venire un’ulcera. Non vi sembra divertente? Anzi, spassoso! Passi una vita intera cercando di comportarti onestamente, facendo il tuo dovere, per alzarti la mattina e poterti guardare allo specchio e poi arriva quel momento. Ed è allora che senti il crack; avverti il rumore, sordo e improvviso ed è come se la tua anima fosse una scultura di vetro colpita con una spranga di ferro che cade in mille pezzi. A quel punto ci sono due alternative: annegare o reagire. Ed io ho reagito.

Ho 58 anni e ho passato gran parte della mia esistenza a soddisfare le aspettative degli altri; quelle di mia madre che mi voleva ingegnere; quelle di mia moglie, ossessiva e bisognosa di attenzioni in maniera morbosa; e quelle di mia figlia, troppo presa dai suoi problemi esistenziali per accorgersi che stavo cadendo a pezzi. Ogni mattina mi alzo e vado al lavoro. Sono insegnante in un istituto tecnico, al cui confronto cert

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Il regista

L’asfalto si squarciò mentre l’orologio della piazza segnava le sette e trentasei minuti. Colonne di acqua e vapore, fumo denso e nero, schizzi di liquido nerastro, che fino a qual momento se ne era stato quieto nella sua tranquilla fogna, macchiarono il candore delle lenzuola esposte al sole ad asciugare.
In tanti guardarono il cielo, in tanti non compresero che avevano ancora pochi attimi di vita.

“Forse hai capito male, questo è il mondo vero, non è un film”.
“Ho piena consapevolezza di questo, papà”.
“Allora perché ti butti via come fossi uno straccio da piedi?”.
“Non mi butto via, sto solo cercando di mangiare questa vita a morsi fintanto che dura”.
“Tu non stai mangiando la tua vita, stai dissolvendo la tua esistenza nell’acido della futilità”.
“Acido della futilità? Ma che cavolo dici, non essere patetico”.
“Credi di vivere la tua vita e invece ti lasci strappare l’anima e la carne dall’imperativo della libertà o quello che ti fanno credere che sia tale”.
Intanto i vetri delle finestre avevano iniziato a tremare. Il lampadario oscillava paurosamente, si udivano sinistri scricchiolii provenire dalle altre stanze e pezzi di intonaco caddero ai loro piedi.
“Guardati, sembri un albero di natale addobbato da un paraplegico, hai buchi e orecchini che pendono dappertutto, il tuo viso assomiglia ad un puntaspilli”.
“Mi hai insegnato tu che l’aspetto fisico non è importante quanto ciò in cui crediamo”.
“Si ma questo non è un film dove la bottiglia che ti spaccano in testa non è di vetro e l’amore termina insieme ai titoli di coda”.
Una crepa spaccò in due la parete sull’esterno della strada e mille frammenti di vetro si persero nel caos che si stava generando.
“In questo mondo non esistono effetti speciali, gli attori non risuscitano dopo aver girato una scena”.
“Vorresti mandarmi via di casa? Faccio le valigie, non ci metto molto, non ho bisogno del tuo aiuto, in fondo non s

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   1 commenti     di: Alfonso Mormile



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