Mi chiamo Emilio e non sono una gran brava persona, almeno così la raccontano. Amo la natura, tutte le cose belle del Creato e, anche, i miei consimili. La Dea Bendata, deve avermi scambiato per qualcun'altro, visto che, ogni tanto, sbaglia bersaglio. La solita vita di lavoro, sacrifici e fregature, ma veniamo ai fatti. Nel settantanove, i miei risparmi finirono nelle mani di un Leguleio, che mi fece entrare in possesso di sessantadue ettari di pietraie. In cambio, mi spogliò di ogni mio altro avere, riducendomi sul lastrico. Cosa potevo mai fare con quella sterminata sassolaia? Nella migliore delle ipotesi... prendermela con la mia dabbenaggine. Nemmeno gli ovini sapevano trarre profitto dai radi arbusti e dall'erba macilenta. In compenso, reddito agrario e reddito dominicale andavano inseriti nella dichiarazione del 740. Negli anni che seguirono tirai la carretta, mentre gli eventi della vita seguivano il loro corso. Ci incrociammo nel 96, allorché il mio possedimento fu inserito nel Piano Regolatore Generale. Lo smottamento della Pedemontana aveva costretto gli Uffici Tecnici ad una scelta obbligata. Espropriarono alcuni ettari della Proprietà : Strada, Complesso scolastico, Edilizia agevolata, Verde pubblico, Caserma dei Carabinieri, Campo sportivo ed altro. Il resto attirò l'attenzione degli Speculatori e degli Imprenditori. Un fiume di danaro che si riversò anche nelle mie tasche. Trentasette miliardi delle vecchie lire, non erano una bazzecola.
Niente più code alla banca o alla posta, anzi inchini e tappeti srotolati. Nel duemila, mi ritrovai con una bella casa, giardino e ( dispiace questo termine) Servitù. Memore dei soprusi e angherie subite nella vita lavorativa, decisi di trattare i miei collaboratori, con i guanti bianchi. Una villetta, dotata di ogni comfort, tutta per loro, stipendi superiori alla media, orari di lavoro inferiori a quelli dei Docenti e piccole regalie. Un sistema di video-sorveglianza miniaturizzato e invisibile mi permetteva
il mondo in cui vivo mi f?? schifo, le solite vivide facce dei soliti stupidi uomini mi infondono il gorgogliante desiderio di vomitare, sopra questo ingannevole tempo scandito da persone che muoiono.
Io sono costretto a camminare tra intricati labirinti di responsabilit?? e colpe mentre il non mondo di chi non vive recluta adepti lobotomizzando cervelli con programmi televisivi agghiaccianti, teatrini di clown che per fottere una top model e tirare coca tutto il giorno si costringono a spettacoli scandalosamente ridicoli, e la gente seduta su sudici divani intenta ad ascoltare divora ogni singola goccia di sciocchezza riponendola nei ricordi ad interferire con i pensieri e la razionalit??
non è altro che un ininterrotto susseguirsi di disastri che sembrano sempre sul limite del culmine e vengono istantaneamente anestetizzati con tazzine di caffe e medaglie d'oro, modelli di cellulari, effetti speciali, vallette in bikini
per loro la vita f?? schifo, è troppa sofferenza, e per questo ci drogano ignettandoci litri di narcisismo che come eroina inibisce la nostra voglia di vivere
Camminava silenziosamente come un ombra sull'orlo del fiume attravarso un vialetto alberato buio in cui sferiche palle luminose segnavano il percorso, e il cinguettare continuo di uccellini notturni rendeva meno evidente il rumore della scure trascinata che con la punta strideva in modo metallico sulla ghiaia
si stava dirigendo verso il grande palco allestito per il concerto dell'anno, quasi tutta la citt?? sarebbe stata li sotto ad ascoltare l'ennesimo gruppo di jazzisti, era una citta non molto grande e la spiaggia sarebbe bastata a contenerne tutti gli abitanti, era una sera veramente perfetta ed il suo pubblico era pronto ad attenderlo in un fremito.
Anche se tra le mani teneva un enorme scure da combattimento il suo passo docile era sufficente a tenere fuori portata gli sguardi di tutta la gente che iniziava ad incontrare, forse pensavano fosse un gioco di plastica
L'avevo uccisa, con le mie mani; l'avevo assassinata, nel fiume annegandola
come una colomba, con decisione ineluttabile, gli occhi iniettati di sangue;
con premeditazione.
Ero un assassino! Un assassino... che idea orrenda!
I miei pensieri furono sconvolti, istericamente, non riuscivo a ragionare. L'unica cosa che mi veniva in mente era lo slavo biondo al pianoforte che suonava, quella notte e la sua stupida canzone triste.
Non ero in grado di pensare, alcuna organizzazione mentale, alcuna possibilità psichica, l'unica immagine che mi sovveniva era quella del biondo al piano e la sua stupida canzone triste.
Dovevo fare qualcosa, salvarmi... Come sovente accade nei momenti drammatici dell'esistenza, improvvisamente, crollai addormentato.
Il mattino seguente, al mio risveglio, un miracolo si compì. Di nuovo.
Era risorta. Dopo morta era risorta, la mia coscienza ritornata, esattamente quella che avevo assassinato la notte prima, annegandola in un fiume di Solopaca.
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Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino? ». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete (la genesi 3, 1-7)
Avevo dodici anni quando incontrai per la prima volta Joseph. Era un vero bastardo. Era cresciuto in mezzo alla violenza della sua famiglia. Sua madre una troia che veniva pestata regolarmente da suo padre, che usciva ed entrava continuamente dalla galera. Il gabbio era la regolarità per il padre di Joseph. La galera era la sua casa, la sua casa era il suo albergo. Ci tornava per pestare e scopare sua moglie, e per insegnare l'arte della violenza al figlio. Fu così che Joseph divenne Joseph Il gramo. Si avevo solo dodici anni quando l'ho incontrato la prima volta, lui aveva solo un anno più di me, ma era già il doppio e nel suo sguardo c'era già quel luccichio da psicopatico. Un luccichio che aspettava solo il momento giusto per esplodere nella fiamma dell'odio. Ero uscito dal scuola e stavo tornando tranquillamente a casa mia. Ero quasi arrivato quando mi ha pestato la prima volta, voleva dei soldi. Sapeva che venivo da una famiglia normale, che non mi faceva mancare l'amore. Voleva i soldi che i miei mi davano per comprarmi le cose che mi servivano. Insomma la classica storia del bullo che vuole fregare i soldi al più piccolo. Soldi che in quel momento io non avevo, li avevo già spesi per comprarmi le prime sigarette e le corde nuove della chitarra che stavo imparando a suonare
Ma lui non voleva solo i miei soldi, voleva la mia paura. Mi spinse a terra e mi prese a calci. Calci nello stomaco, mi sputava e insultava. Lui odiava la normalità della mia famiglia, il mio crescere in una situazione tranquilla. Mi odiav
- Ecco, vede, veniva ogni mattina a guardar sorgere il sole. Si accovacciava sulla sabbia, con le spalle rivolte a est, verso l’Alberese, e s’incantava a osservare il promontorio dell’Argentario che prendeva forma poco a poco mentre la luce si diffondeva.
- Diceva qualche cosa, parlava?
- No, stava muto e solo una volta, mentre aggiustavo le reti, l’ho sentito mormorare qualche parola, ma a voce molto bassa, tanto che non ho capito.
Fausto guardava il lontano promontorio dell’Argentario che sembrava emergere dalle acque del Tirreno, una specie di vascello fantasma diafano nella luce del tramonto.
Il vecchio pescatore gli si accostò e gli rivolse nuovamente la parola.
- Uno spettacolo che vedo da anni, ma che non finisce di stupirmi. Non c’è niente di più magico di un tramonto in questo posto.
- Veniva anche a quest’ora?
- No, mai che io mi ricordi. Gli interessava solo l’alba.
- Grazie, per quanto mi ha detto.
Risalì l’arenile nel silenzio ovattato dell’ora, interrotto solo dallo stridio di qualche gabbiano,
e dal rumore della corrente dell’Alberese che lì in mare se ne andava a morire.
Sì, come il fiume che nasce e che poi muore, anche il suo amico Alfredo, lo stimato professore di latino del liceo classico di Mantova, un giorno se n’era andato da casa, senza dire nulla alla moglie. Si erano avviate le ricerche in tutta Italia e poco a poco, sulla base delle segnalazioni, si era ricostruito il percorso che aveva intrapreso.
Una prima tappa di poche ore a Firenze, ove qualcuno si ricordava di quell’uomo non più giovane, magro e quasi scheletrico che era rimasto per più di un’ora estatico di fronte a Palazzo Pitti.
Il suo peregrinare l’aveva portato poi a Bolgheri,
dove aveva passeggiato a lungo su e giù per la stradina che portava alla chiesa di San Guido, sostando più volte a guardare i filari di cipressi.
Sì, lo ricordo bene?" aveva detto il sagrestano.
E quando gli si chiese il perché, questi rispose in
Tutto ebbe inizio nella maniera più semplice.
Quella mattina d'inverno, una delle tante, mattine d'inverno.
Appoggiato al mio solito palo; le sei del mattino di un freddo venerdì di dicembre.
"Brrr.. che freddo".
Il giovane uomo mi passo accanto correndo: pantaloncini, felpa e scarpette.
Disse quelle semplici parole in un modo cosi naturale.
Che peccato..
Avrebbe dovuto essere più veloce nel sollevare il suo braccio, anche se un treno in corso non si può fermare facilmente, nemmeno con un braccio ben teso.
Quelle tre parole buttate li a caso, sussurrate nel vento; sciolsero qualcosa congelato nell'io più profondo.
"Ciaaoo!" urlai ormai incapace di modulare le frequenze sonore dalla mia voce. Erano anni che non ne facevo uso.
Il giovane rallento la sua corsa girò la testa verso di me e lentamente si fermo.
"Buongiorno..", ancor prima che potesse aggiungere altro dissi "dammi del tuu; siam' amici no?".
Il giovane inclinò la testa di lato tirandola leggermente indietro, come fanno i piccioni quando ti osservano da sopra un davanzale, con quegli occhi tondi e insignificanti..
Stupore, ecco cosa apparve sul suo volto, semplice stupore quello che ti coglie quando non sei assolutamente preparato a ciò che ti accade.
Coprii la breve distanza che ci separava con quattro passi decisi, afferrai la sua mano ed il contatto con quell'appendice calda e morbida mi commosse.
Con le lacrime che già bagnavano le mie guance mi presentai: "Tanto piaacere mi chiam Rodolfo, quest' è il mio paalo, e sono s-solo quant te".
La sua mano scivolo via veloce dalle mie dita ed il freddo di dicembre si rimpossessò di loro in un lampo.
"Ehy amico... lascia perdere; fa freddo, sono stanco ed ho voglia di qualcosa di caldo. Buona giornata".
Sollevò la mani in segno di resa si girò e ricominciò a correre.
"Veroo fa freddo andiam a beere qualcosa di caldo.. buoona ideea".
Asciugai quel che rimaneva delle mie lacrime ormai vetrificate e gli anda
Si avvicinò al portone con passo lento e stanco. La luce del lampione era fioca, o forse erano i suoi occhi a non vederci più bene come un tempo, fatto sta che ci mise qualche secondo di troppo prima di riuscire ad infilare la chiave nella toppa. Come al solito l'ascensore era fuori servizio, e così si avviò a malincuore verso la rampa delle scale. Al primo piano la investì il solito odore di cavolo bollito e represse a stento un conato di vomito. Quell'odore le ricordava i corridoi freddi ed inospitali del collegio, quello doveva aveva passato la sua infanzia e l'adolescenza, prima che sua madre si ricordasse di avere una figlia, e che notasse che questa figlia era bella abbastanza da poter esercitare il suo stesso mestiere, magari con migliore fortuna della sua.
Continuò a salire le scale, l'odore del cavolo ora era mischiato a quello dell'urina degli innumerevoli gatti della signora Angela, ed il suo stomaco era stretto in una morsa di acciaio che le toglieva il fiato. Ma non era solo disgusto, questa volta era qualcosa di più. Era attesa, era tensione, era odio.
Arrivò al pianerottolo, prese la chiave da dentro il vaso delle felci di plastica, ingaggiò la solita lotta con la serratura, poi, finalmente, entrò.
Era esausta, svuotata, ma con passo insolitamente energico si diresse in cucina e tirò fuori da sotto l'acquaio una vecchia scatola di latta dei biscotti Gentilini. Gliel'aveva regalata l'Osvaldo, il rappresentante di tessuti. L'andava a trovare tutte le settimane quando stava nella "casa " della signora Armida. Era gentile l'Osvaldo, delicato, con il faccione rubizzo e le mani morbide da bambino. Voleva sposarla, portarla via da lì, farle fare la vita da signora. Era stato un bel sogno quello di sposarlo, avere una vita onesta e pulita, ma come tutti i sogni era durato poco. Il povero Osvaldo era morto tentando di prendere al volo il treno diretto verso una delle tante città dove commerciava in tessuti. L'unica cosa che le era rimasta
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