Nevica. I fiocchi cadono dal cielo, soffici e silenziosi, e si adagiano sul terreno polveroso. La gente in strada si ferma un attimo ad osservare quel miracolo candido. Un bambino tira il braccio della sua mamma e grida felice, tuffandosi in mezzo alla neve. Sembra anche a me di essere tornata bambina.
Quando ero piccola, arrivato l’inverno, mio padre ritirava le reti dal mare e si prendeva una piccola vacanza, l’unica di tutto l’anno. La mia era sempre stata una famiglia povera: mio padre pescava crostacei che rivendeva ad una catena di ristoranti, mia madre lavorava per un imprenditore che produceva kimono. Il nostro unico lusso erano i dieci giorni di vacanza che miei genitori si prendevano all’inizio di dicembre, per portarci in visita da mia zia, a Sapporo sull’isola di Hokkaido. Hokkaido in giapponese significa “via per il mare settentrionale” ed è così che il resto della nazione la considera, una via di passaggio. È un’isola fredda e poco sviluppata, che d’inverno scompare sotto una spessa coltre di neve candida. Quella neve era la gioia più grande mia e di mia sorella.
Ci svegliavamo la mattina fresche come fiori di ciliegio e la zia ci lasciava bere un po’ di sakè, la bevanda tradizionale giapponese, utilissima quando si ha freddo perchè il sakè è ottenuto dalla fermentazione del riso e quindi è alcolico. Ci coprivamo come potevamo ed uscivamo fuori a rotolarci nella neve. Le nostre mattine passavano così: giocando con gli altri bambini del quartiere. A volte innalzavamo muri altissimi come barricate, ci dividevamo in due eserciti e giocavamo a colpire gli avversari difendendoci dietro i nostri muri. Sono passati tanti anni. Troppi.
- “Harumi, Harumi... Hai visto? Nevica... ”
Sento la voce squillante di mia zia, ancora prima di vedere il suo profilo fiero aprire la porta della mia camera. Sorride, proprio come una bambina, proprio come allora. Solo che adesso, quando sorride, ai lati dei suoi occhi ed intorno alle sue l
GIULIA 3 I libri
Con Doc non si può averla vinta, quindi l’indomani, mi trovai per la prima volta, faccia a faccia con Giulia; devo ammettere che è imbarazzante trovarsi a tu per tu con un cieco, ti sforzi di fare l’indifferente, ma poi finisce sempre che lo fissi là, nei suoi occhi spenti, che sembrano stiano guardando da qualche parte e tu ti domandi dove!
Comunque, l’imbarazzo durò non più di due minuti, il tempo che Giulia, sorridente come solo una bambina di 10 anni può essere, mi prese le mani e parlandomi, o meglio interrogandomi, le toccò, le misurò, poi mi chiese il permesso di “vedere” il mio volto, Doc ammiccò ed io tolti gli occhiali acconsentii. Eravamo seduti di fronte, su due seggiole con i braccioli, e Giulia cominciò a conoscermi, o meglio a seguire con le dita ogni millimetro del mio volto dalle tempie al collo e?"“ Sei più giovane di quanto ti avesse descritto Doc, lui, sai, essendo il nostro consulente psicologo, mi viene a trovare spesso, e mi ha parlato di te, però, forse per malignità ti ha descritto peggio di come ti vedo!”-Grazie, Giulia, in realtà Doc, è una vera carogna, ma ci conosciamo dalle elementari, quindi da circa mille anni, ed io gli voglio bene comunque, e adesso ancora di più perché mi ha portato in questo posto!
È iniziata così, la nostra amicizia; Giulia mi chiese quasi subito se fossi disponibile a partecipare ai pomeriggi di lettura per gli ospiti dell’Istituto, unendomi ad altri volontari, figurarsi, accettai immediatamente promettendo di organizzare un percorso di lettura ad hoc per lei e i suoi amici.
Cosicché ogni pomeriggio, passavo due, e talvolta tre ore, a leggere libri per Giulia e i suoi compagni; ricordo che ho loro proposto Il Gabbiano Jonathan di Bach, poi Seta di Baricco, poi mi chiesero a più voci qualcosa di più lungo ed impegnativo, così passammo alcuni mesi bellissimi a leggere I pilastri della terra di Follett; per abitudine, ogni giorno, prima che incom
Mi piace arrivare sempre un po' prima, fare una specie di sopralluogo, controllare che niente sia fuori posto, che niente possa darle fastidio.
Ancora oggi, dopo tutti questi anni, non riesco ad essere tranquillo mentre la aspetto, mi chiedo se è stato sempre così, o se tutto quello che è successo mi ha condizionato al punto da avere paura delle sue reazioni.
É marzo, e qui di sera fa ancora freddo, scendo per la stradina centrale, mi guardo attorno, arrivo alla piazza sul mare.
Vedo uomini oltre i vetri di un ristorante che si inventano cose da fare per ingannare il tempo, spostano sedie, raddrizzano tovaglie, si osservano sospettosi e complici. Pregano affinché questo tempo trascorra il più in fretta possibile, perché in questo momento sembra non passare mai, e l'idea è insopportabile, anche se fra un po', quando si muoveranno tra i tavoli, esausti, rimpiangeranno questa noia.
Non c'è nessuno per strada, io non esisto, sono solo uno sguardo che osserva.
Provo a fissare qualcosa, tutto scorre via, come il suo sangue. Provo a fermare un punto, un profilo, un movimento, un colore, una luce che possa fare la differenza, che nel tempo mi aiuti a distinguere questo anno dagli altri.
Il mare, è scuro, si adagia sullo scivolo su cui sono alcune barche di legno umido, inclinate di lato sulla chiglia, osservo le luci riflesse, l'odore dell'aria salata.
C'è la solita Chiesa illuminata dal basso, Lei sì, lei può, ci guarda dall'alto, sulla destra, ed io sono solo un puntino. Mi volto, le case sono vuote, senza persone, senza tempo, senza idee, le finestre sono chiuse, scorgo solo un lume acceso, oltre le tende chiare di una finestra al secondo piano. Provo ad immaginare cosa ci sia oltre, e vorrei che ci fosse calma, tranquillità, il giusto ritmo del tempo, lento, quello che io non ricordo più.
Famiglie unite e felici.
Immaginare cosa ci sia oltre, cosa c'è oltre quello che si vede, la verità non esiste, qualsiasi cosa può essere nascosta perché ni
Credo che un po' tutti ci facciamo un'idea di come potrebbe essere la nostra vita futura, e magari viviamo nell'angoscia il presente temendo quello che sarà di noi, senza tenere in debito conto ciò che potrebbe riservarci il destino, capace di stravolgere progetti e aspettative.
Anche quando la nostra vita sembra scorrere sui binari della monotonia, verso una meta per noi verosimile, basta un evento imprevisto a farla deragliare e a sconvolgerla, facendola deviare verso scenari fino a quel momento inimmaginabili.
Questo a me accadde un giorno di otto anni fa, e la mia vita improvvisamente cambiò direzione.
Da quasi quarant'anni ogni mattina mi alzavo prima delle cinque, uscivo di casa per andare al deposito e mi mettevo alla guida di un autobus di linea per raggiungere dei paesini della provincia, dove caricavo un bel po'di studenti per portarli in città.
Era un lavoro pesante, ma non me ne ero mai lamentato, del resto mi aveva dato la possibilità di sposarmi e di metter su famiglia.
Mia moglie mi aveva lasciato dopo ventiquattro anni di matrimonio, sopraffatta da un male incurabile, dopo avermi donato due figli: Laura, la grande, che si era sposata e viveva al Nord, e Antonio, ormai ventitreenne, che era riuscito a diplomarsi a fatica, perdendo qualche anno per strada, e non aveva voluto più studiare. Nell'attesa di un lavoro stabile, lo avevo convinto a prendere la patente per guidare i pullman, nella speranza che potesse essere assunto nella stessa ditta dove lavoravo io.
Intanto viveva da scavezzacollo, alzandosi tardi la mattina e trascorrendo le sue giornate con gli amici, giornate che per lui finivano a notte fonda.
Il suo modo di vivere non mi piaceva, e spesso avevamo delle accese discussioni nelle quali l'accusavo di essere immaturo e fannullone, e di non darmi nessun aiuto a casa. Il nostro era un rapporto molto conflittuale, e questo mi faceva star male.
Quella mattina uscii di casa che pioveva, sembrava una giornata come mille altre,
Nei giardini dell’Ospedale, all'ombra delle numerose piante che lo abbellivano e lo rendevano veramente un’oasi rigogliosa nel mezzo della savana, sostavano parenti e pazienti tutto il giorno.
I pazienti rientravano in reparto per il giro medici e per la terapia e alla sera per dormire.
Al tramonto era davvero uno spettacolo vedere i numerosi fuochi sparsi e la gente affaccendata a cucinare la polenta.
Passando per i corridoi aperti dell'Ospedale, vedevo ogni sera questo suggestivo spettacolo e potevo cogliere quegli aspetti di vita famigliare attorno al fuoco, altrimenti, per me, quasi impossibili da osservare.
In Karamoja, il piatto principale è rappresentato dalla polenta di sorgo, spesso l'unico alimento consumato nella giornata.
Al mattino, solitamente, la polenta è preparata aggiungendo un po' di latte di mucca, denso, cremoso che lo arricchisce in sapore.
La quantità di latte prodotta dalle mucche, che nell'intera regione sono proprio magrissime, come i loro pastori, è veramente minima, data la scarsità di foraggio ed acqua, molto meno di un litro al giorno.
Il pasto è spesso consumato insieme alla birra che è di bassa gradazione alcolica e sempre di sorgo. La birra è bevuta calda ed io la trovavo nauseante e ripugnante perchè densa e pastosa per il sorgo fermentato, che è, anch’esso, in mancanza della polenta, talvolta, l'unico pasto.
La birra viene bevuta in compagnia, insieme alla famiglia, agli amici o invitati, da un unico recipiente, scaldato sul focolare, chiuso da un coperchio perché si mantenga caldo. Si beve a turno succhiando da una cannuccia. Un po’ per uno, a rotazione, non di rado fino ad ubriacarsi.
Quasi tutti i medici, che hanno vissuto a Matany, hanno prima o poi dovuto bere, come me, questa loro bevanda e moltissimi hanno contratto un’epatite.
Il sorgo è l'unica pianta che cresce abbastanza bene in quella terra arida, se la stagione delle piogge è ovviamente regolar
Un urlo atroce straziò la notte, rimbombando come un'eco tra i muti grattacieli che si ergevano cupi e minacciosi sulla città. La pioggia cadeva fitta, il cielo nuvoloso era a tratti rischiarato da qualche lampo, ma il rumore del tuono si udiva a stento. I lampioni funzionavano ad intermittenza, come se proprio quella sera dovesse saltare la corrente.
Se il vicolo non fosse stato al buio, se lei non fosse stata così paranoica, probabilmente tutto ciò non sarebbe mai accaduto.
Là, inginocchiata sul selciato e seminascosta da dei bidoni della spazzatura, una ragazza teneva in grembo il capo di un giovane uomo - chi poteva dire se si trattava del fidanzato o il fratello? - ma dal modo in cui gli accarezzava i capelli era chiaro che doveva volergli bene. Il suo corpo era scosso dai singhiozzi, e il trucco le colava sulle guance trasfigurandole il volto, abbruttendolo: i lunghi capelli rossi, appesantiti dall'acqua e da essi resi più brillanti, le cadevano sulla faccia nascondendole il viso ad altri che non fossero il ragazzo che teneva stretto a sé.
Quest'ultimo inspirava a stento, il volto una maschera di sangue. Il petto gli si sollevava e alzava a fatica, come se ogni respiro gli provocasse un estremo dolore: doveva avere qualche costola incrinata, e forse anche una grave lesione interna, a giudicare dal sangue che gli scorreva in rivoletti dalle labbra socchiuse. Molto probabilmente non avrebbe visto la prossima alba, e questo lo sapeva.
Malgrado la sofferenza riuscì però a sollevare un braccio, stringendo gli occhi e mordendosi il labbro inferiore per non lasciarsi sfuggire un gemito. Avvicinò la mano pallida al volto della ragazza, riuscendo ad accarezzarla e macchiandosi le dita del suo trucco ormai completamente sciolto. Fece per parlare, voleva disperatamente dire qualcosa, ma la voce sembrava essere intrappolata nella sua gola: niente sarebbe riuscito a fargli muovere le labbra e vibrare le corde vocali, e ormai era troppo tardi. L'ambulanza
Dannazione.
Ma perchè deve sempre succedere a me?
"Pensaci tu, Froster".
Il bastardo non è capace di dire altro.
Bella roba essere commissario. Mi sa che un giorno o l'altro mi prendo anch'io una laurea, così da poter finalmente smettere di dipendere da Mulliver.
Anche il cielo di New York ha pena per me, a quanto pare. Un pianto fitto, senza tregua; lacrime calde provienti da neri occhi di nubi. La fabbrica abbandonata che ho davanti non potrebbe apparire meglio che con un tempo come questo. Il sole non dovrebbe toccare certi incubi partoriti dalla mano dell'uomo. Una massa grigia, rovinata, decrepita.
Morta.
E nelle viscere abominevoli di questo cadavere della rivoluzione industriale un piccolo verme sopravvive, nascondendosi dai predatori del mondo esterno. Come me. Un tossico tanto giovane quanto imbecille, che ha rovinato la propria vita e quella altrui con il suo vizio maledetto. La sua ultima bravata è stata aggredire un povero fallito che gestiva un negozietto per prendergli i quattro soldi della cassa. Ma io mi dico, se non sei miliardario come anche solo pensi di poterti drogare? Comunque, un imbecille con una pistola non diventa Lupin; alla prima, goffa, reazione del commerciante è partito il colpo, che per fortuna di entrambi si è infranto nella laida gamba. Jimmy poi si è rintanato come il ratto che è in questo bel rudere davanti a me.
Prenderlo e sbatterlo in cella sarebbe il lavoro per una squadra, ma a New York ne abbiamo troppi di problemi per sprecare poliziotti così. E come Mulliver ben sa, per certe faccende io solo sono più che sufficiente.
Pochi metri mi separano dall'entrata dell'edificio. La porta non c'è più da chissà quanto, il varco rettangolare è grande abbastanza da sembrare una dantesca porta di questo inferno urbano. Chissà se Jimmy avrà lasciato ogni speranza, dopo essere entrato.
Varco la soglia con passo lento a calcolato, accompagnato dal cigolio della suola di gomma dei miei stivali. Il mio impermeabi
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