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Racconti drammatici

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La traversata notturna

Chiusa la porta alle mie spalle indossai frettolosamente il pesante mantello. Coprii la testa con il cappuccio, perfetto riparo dalle prime gocce di pioggia, a tratti leggere a tratti più pesanti. I miei passi, veloci e sicuri, furtivi e attenti. "Evitare di percorrere le strade illuminate dalla luna" mi ripetevo ogni istante, lungo i saliscendi di ponti e scale. Osservai la grande città con gli occhi di chi, costretto alla schiavitù, non può che ritrovarsi a odiarla ogni giorno. E poi tutta quell'acqua, regina di canali e fiumi. Acqua ovunque. Odiavo trovarmela intorno. Odiavo il sole che riflette su di lei con un abbaglio, il pesce che nuota attirato dall'amo. Odiavo perfino il rumore schioccante dei sassi che inabissano, lanciati da un bambino. E il tutto dal giorno del mio settimo anno di vita in cui rischiai di affogare nella laguna. Ricordo ancora l'uomo in maschera che mi afferrò trascinandomi a terra. Seppure la sua gentile voce paterna chiedeva se stessi bene, non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sua maschera giullaresca che gocciolava su di me, perdeva forma e diventava una torbida chiazza azzurrastra. Cercai di coprirmi, di urlare, di agitarmi come potevo, di distogliere lo sguardo da quella folle visione opaca, ma le gocce avevano il potere di impedirmi di usare qualsiasi senso cercassi di mettere in atto per implorare aiuto. L'artista di strada riuscì a calmarmi dopo un tempo immemore, ma quel momento sarebbe rimasto nello scantinato della mia esistenza, fra una botte di speranze perdute e un vaso di sogni andato in frantumi.
Mentre attraversavo la grande piazza del mercato lanciai un'occhiata alla cattedrale che regna sul mare. La luna, un disco chiaro fra le nubi del cielo nero, disegnava i contorni delle statue lungo la facciata. Dalle loro nicchie come giudici inquisitori puntavano il loro sguardo ferreo e duro, un dito su me e sulle mie intenzioni. Prima o poi sarei morto per quello che stavo facendo, ma a che scopo vivere se non

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   2 commenti     di: Andrew Abel


La quadratura del cerchio

Rilevai Ferretti alle quattro e dieci. Non era proprio il mio turno, ma Valle era un anziano del settimo scaglione e a uno che si fa una polveriera a venti giorni dalla fine bisogna almeno risparmiargli il turno di notte, e così il caporale svegliò me, che ero solo del secondo. Muto e compresso e allucinato dal sonno, con il fucile su una spalla e la coperta sotto braccio, lo seguii fino al cancello che chiudeva la Zona Attiva e salii da solo per il sentierino che portava alla mia altana, la numero 10, dove Ferretti di certo dormiva, dietro al fucile che spuntava dalla feritoia.
Invece no, non dormiva.
"Alt! chi va là!" urlò nel silenzio frusciante della notte e io, col fiato troncato dai gradini di pietra troppo alti, sorrisi, senza rispondergli.
"Alt! chi va là!" urlò di nuovo, più cattivo, e allora io mi fermai, ansante e un po' preoccupato.
"Ohè, non fare cazzate!" dissi forte, agitando un braccio, "sono io... guarda che salgo..."
Mi arrampicai sugli ultimi gradini e arrivai allo spiazzo terroso e spelacchiato su cui si alzavano le gambe di cemento dell'altana. Ferretti stava scendendo in fretta, vedevo il suo sedere ondeggiare sulla scaletta di metallo, dritta, con l'elmetto appeso al cinturone che sbatteva contro la ringhiera. Saltò a terra accanto a me, col fucile stretto lungo il fianco e il basco di traverso. Era pallido, e aveva gli
occhi spalancati, ancora più allucinati dei miei.
"Ti sei svegliato male?" gli dissi, "se lo sapevo ti lasciavo dormire..."
“Mazzi, sei proprio un coglione del secondo! La prossima volta che non ti fai riconoscere giuro che ti sparo!”
Il suo alito sapeva di alcool.
“Oh, ma che cazzo dici? Vedi di andartene, che è già pesante così…”
“Si, si, me ne vado, ma tu dormi preoccupato, rana!”
“Ma vattene va’. “
Così dicendo gli passai oltre urtandolo di proposito e presi a salire la scaletta che portava in cima all’altana; non era un buon modo di cominciare il mio turno di

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La stagione della neve

Nevica. I fiocchi cadono dal cielo, soffici e silenziosi, e si adagiano sul terreno polveroso. La gente in strada si ferma un attimo ad osservare quel miracolo candido. Un bambino tira il braccio della sua mamma e grida felice, tuffandosi in mezzo alla neve. Sembra anche a me di essere tornata bambina.
Quando ero piccola, arrivato l’inverno, mio padre ritirava le reti dal mare e si prendeva una piccola vacanza, l’unica di tutto l’anno. La mia era sempre stata una famiglia povera: mio padre pescava crostacei che rivendeva ad una catena di ristoranti, mia madre lavorava per un imprenditore che produceva kimono. Il nostro unico lusso erano i dieci giorni di vacanza che miei genitori si prendevano all’inizio di dicembre, per portarci in visita da mia zia, a Sapporo sull’isola di Hokkaido. Hokkaido in giapponese significa “via per il mare settentrionale” ed è così che il resto della nazione la considera, una via di passaggio. È un’isola fredda e poco sviluppata, che d’inverno scompare sotto una spessa coltre di neve candida. Quella neve era la gioia più grande mia e di mia sorella.
Ci svegliavamo la mattina fresche come fiori di ciliegio e la zia ci lasciava bere un po’ di sakè, la bevanda tradizionale giapponese, utilissima quando si ha freddo perchè il sakè è ottenuto dalla fermentazione del riso e quindi è alcolico. Ci coprivamo come potevamo ed uscivamo fuori a rotolarci nella neve. Le nostre mattine passavano così: giocando con gli altri bambini del quartiere. A volte innalzavamo muri altissimi come barricate, ci dividevamo in due eserciti e giocavamo a colpire gli avversari difendendoci dietro i nostri muri. Sono passati tanti anni. Troppi.
- “Harumi, Harumi... Hai visto? Nevica... ”
Sento la voce squillante di mia zia, ancora prima di vedere il suo profilo fiero aprire la porta della mia camera. Sorride, proprio come una bambina, proprio come allora. Solo che adesso, quando sorride, ai lati dei suoi occhi ed intorno alle sue l

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   4 commenti     di: Elisa Tronci


GLI ALBERI DI NATALE SONO TRISTI

Mi affacciai alla finestra, sperando che l’aria fredda del mattino riuscisse a tirarmi fuori dal clamoroso doposbronza che mi incatenava ormai da diverse ore. Il lattaio stava appoggiando con le mani nere le bottiglie bianche sugli scalini dei palazzi, stando attento a non scivolare sulla neve fresca. Natale era alle porte. Dio aveva spennellato qua e là i colori giusti, e New York sembrava una vecchia stanca che si spalma tonnellate di trucco per apparire qualche anno più giovane. Milioni di abeti addobbati luccicavano allegri, e finti babbi natali barbuti regalavano dolcetti e buoni sconti con sorrisi più sintetici della loro stessa barba. Il Natale mi stava sulle palle, erano tutti troppo felici per i miei gusti. Scolai l’ultimo goccio di whiskey rimasto nella bottiglia e sputai sulla strada coperta di neve grigiastra.

L’aria del mattino mi fece sentire un po' meglio. Guardai giù. Una negretta niente male passò sculettando di brutto davanti al negozio di liquori. Qualcosa nelle mie mutande si mosse improvvisamente verso l’alto.
Non capii mai se per colpa della negretta dal culo danzante o per la luce che si rifletteva sulle lucide e invitanti bottiglie di whiskey nella vetrina del negozio. Se ne stavano lì, l’una accanto all’altra, con le loro etichette colorate a coprire solo parzialmente la bellezza dei liquidi densi. Impettite, ammiccavano verso di me. Puttane, avrebbero ammiccato anche ad altri.

La donna sparì dietro l’angolo, accompagnata dallo “yeah” dei negri di Harlem che bighellonavano appoggiati ai loro muri, cantando le loro canzoni e ballando le loro danze, chiusi nei segni distintivi del loro modo di essere.
Pensai che qualsiasi uomo di ogni razza presente sulla terra avrebbe esclamato qualcosa davanti a quel culo, chi uno “ehi ehi”, chi un “ooooooh”, chi un “miiinchia”... Chiunque avrebbe esclamato qualcosa, perché forse un bel culo avvicina le razze.

Ad ogni modo, se la donna sparì dietro l’an

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L'albero maledetto

In Ospedale, quel giorno d’Agosto 1994, il personale discuteva di una vicenda accaduta qualche giorno prima e che rappresentava l'argomento del momento, forse perché non c'era altro d’interessante, in quel periodo relativamente tranquillo, a Matany.
Fu Roberto, il responsabile tecnico dell'Ospedale, piemontese dalle mani d'oro, a parlarmene quel pomeriggio, mentre io, stupito e con la faccia di chi si sente tenuto all'oscuro di tutto e si domanda “come mai solo io non so nulla”, cercavo delle informazioni il più dettagliate possibili. Discutevamo davanti all'officina dell'Ospedale, quando arrivò John Bosco con aria da caporione che sa sempre tutto. Ci raccontò dell'accaduto come se fosse stato presente ai fatti, mentre io pensavo: "Qui in Africa, da un piccolo fatto si ricamano leggende infinite, che, passando poi di villaggio in villaggio, crescono in particolari, come da noi con la misura del pesce del pescatore”; facevo fatica a credergli, mentre John Bosco, con il sostegno di Roberto, appariva già deciso ad intervenire.
Il fatto, che mi pareva ricamato da tanta fantasia africana, era questo: un bambino era caduto dentro un albero.
Arrampicandosi sui rami di un grande ed ombroso albero sulle rive del fiume, assieme ad altri ragazzini, si era introdotto nel buco di un grosso ramo ed era scivolato, proprio come in uno scivolo, nel cavo vuoto del ramo fino alla base del tronco.
Fin qui niente di drammatico; mi appariva anzi proprio uno scherzo.
Il problema, che John Bosco riferiva serio, era che tutto questo era accaduto già da una settimana e il bambino era sempre lì dentro prigioniero. Veniva nutrito attraverso un buco nell'albero, però nessuno era riuscito a farlo uscire.
Si era intanto formato intorno a noi un bel capannello di persone ed ognuno che arrivava portava nuovi particolari come, per esempio, che il parroco del vicino villaggio e poi alcuni missionari avessero provato a tirare fuori il bambino senz

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   0 commenti     di: Antonio Sattin


GIULIA 7 L'azione

Scena: una stanzetta in un anonimo corridoio di un altrettanto squallido e mortificante ospedale.

Personaggi: Giulia, oramai incapace anche di alzarsi per andare in bagno, andirivieni di infermiere, caposale, medici; un’affacciatina alla porta, una breve visita più di cortesia che sanitaria; io, oramai ospite fisso della struttura (potenza delle raccomandazioni) ho un falso tesserino-pass che mi autorizza, come “sanitario” ad essere presente anche fuori orario di visita parenti.

Situazione: per le sue condizioni, Giulia ha una flebo attaccata alla macchina della terapia del dolore, di tanto in tanto, in funzione dei suoi lamenti, alzo il livello di droga iniettata.

Atto finale: ho il tasca, da giorni, oramai, una siringa già pronta, so, mi è stato ben insegnato, come usarla; devo solo trovare il coraggio di farlo, e sto aspettando che sia la mia piccola Giulia a darmi l’input.

Sono le 15 e 15 del giorno 15, e Giulia, oggi compie 15 anni; mi stringe spasmodicamente l’avanbraccio, lacrime scorrono dai suoi occhi più stupendi che mai, infilo l’ago nel tubicino della flebo, un ultimo tentennamento, poi premo lo stantuffo.

Pochi minuti e la sua stretta si rilascia.

Mi allontano dalla sua stanza, passando davanti al banchetto della caposala le sussurro?"“ sta dormendo serena, vado a casa, ci vediamo domattina.”-

Nel giardino, sporco e maltenuto dell’ospedale, mi siedo su una panchina semidivelta dai vandali di turno, e resto a fissare il terreno fra le mie scarpe.
E resto a fissare il terreno fra le mie scarpe.
E resto a fissare il terreno fra le mie scarpe………

E mi sento ancora una volta solo, ancora una volta inutile, ancora una volta uomo.

Vorrei poter dire che per una istantanea reincarnazione, magari sotto forma di passerotto, Giulia volando, si fosse fermata sulla mia spalla, e beccandomi il lobo dell’orecchio m’abbia detto, sto bene, sono felice, sto con te, cosa voglio di più?
Ma così non è stat

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   16 commenti     di: luigi deluca


La lista

Il suono del mio cellulare si alzava dentro la mia piccola auto con insistenza. Mi fermai nella piazzola luminosa e vuota, erano le ventitre e stavo tornando a casa dopo due ore di yoga. Il numero che compariva sul mio cellulare non mi era noto, avrei potuto ignorare la chiamata, di solito lo faccio coi numeri sconosciuti, ma ormai mi ero fermata: “Si?! ” risposi. Dall’altra parte, una voce soffocata, prese il coraggio per chiedermi: “Sei tu Ale? L’amica di Giò? ” Continuai : “Si, posso esserti d’aiuto? Stai bene? ” La voce prese un po’ di tempo sospirando: “Scusami se ti disturbo, non sto molto bene, anzi sto malissimo. Sono Claudia, non so se Giò ti ha mai parlato di me, neanch’io so molto di te… Ho conosciuto Giò al mare due anni fa. Stavo attraversando un brutto periodo per via della separazione da mio marito, se n’è andato con un’altra. Dopo tale esperienza, il pensiero che un uomo potesse ancora avvicinarsi a me mi pareva impossibile. Il suo telo era steso accanto al mio. Era un uomo attraente, con lo sguardo chiaro e allo stesso tempo profondo. Giocò per tutto il giorno con i miei due bambini, quasi disinteressandosi a me, così come il giorno successivo, ma i nostri sguardi cominciarono ad incontrarsi. Alla fine della settimana eravamo già amici e pensai che fosse una benedizione poter trascorrere dei momenti così sereni, voglio dire, senza i soliti pensieri. Mi disse che era un uomo felicemente sposato, che amava profondamente la moglie dalla quale si era momentaneamente allontanato perché aveva scoperto che lei lo tradiva. Considerai quest’incontro un dono, uno spiraglio di sole nella mia squallida vita; dunque... non solo le donne venivano tradite! Ci separammo con la promessa di rivederci. Così accadde; mi parve ancora più bello a Milano, ma lo guardavo come si guarda qualcosa d’irraggiungibile… di sacro poiché, al di là di qualsiasi tradimento, lui continuava ad essere completamente innamorato di sua

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