"La lenta agonia di un fuggitivo, incapace di far chiarezza con se stesso. Il finto cuore di pietra. Le mani fredde. Sguardo perso, occhi distrutti dal tempo."
Una chiave, un filo, un nesso. Quale potrà mai essere il significato? Era in pericolo più che mai, forse una trappola, il camuffarsi sarà servito?
E che fine avevano fatto la precisione smisurata e la dedizione all'ordine in quella camera?
Breve resoconto: passato difficile, infanzia triste, carattere indomabile, quel segreto della normale diversità che gli aveva fatto perdere il senno: le cure, l'amore della sua bella amata, la crescita, la maturità, il nuovo crollo psicologico, la triste realtà di veder morire l'anima gemella, l'inganno, l'odio, la cattiveria sviscerale delle sue azioni, la fuga, la fortuna, l'incontro con persone del passato celanti parte del suo segreto, gli amici di famiglia, il ritorno di alcune vecchie azioni, paesi e lande desolate, la ricerca della verità, le paranoie che ritornano, gli indizi, il pericolo.
Dopo questo dilungarsi, si fermò. Scese dalla macchina, accese una sigaretta, cominciando a pensare a quella scritta piuttosto bizzarra, con quei codici.
Come nei più intricati rebus letterari in cui non vi era tempo necessario per spremere le meningi, anche lui faceva appiglio ai fugaci ricordi di quel breve lasso di tempo in cui la sua indole era sana e allegra.
Cosa poteva significare quella scritta, le prime tre lettere, intervallate da una dichiarazione d'amore perenne e duraturo e un codice, forse una password, una chiave d'accesso di un mondo ancora nuovo per lui.
L'unica cosa che capiva in quel momento era la F, l'iniziale del suo nome.
Risalì in macchina, percorrendo molte miglia. Non poteva permettersi di perdere così.
E il fuggitivo continuava la sua risalita.
Fine decima parte
ricordo quel giorno con un nodo alla gola e lacrime negli occhi. Le lacrime sembrava offuscassero i miei pensieri, e mie azioni, la mia capacità di articolare anche solo un'emozione. Adesso le ringrazio e le benedico quasi, nonostante non sia per nulla credente. Una nebbia pesante e densa che scendeva piano su tutti i miei sensi e irretiva emozioni e parole, ecco cos'è stato. Nebbia.
Le pareti erano colorate, vetrose, le facce lunghe e sconosciute intorno a me erano bianche e talvolta grige, in contrasto con i putti sorridenti e pieni di rosa sulle gote, che si trovavano sulle finestre. Persino l'aria era stantia, triste, in un certo qual modo. Quel giorno ho sentito molto parlare di te, entro quelle mura, che a me apparivano così false, proprio come quelle voci che continuavano a descriverti in tutta la tua reale bellezza; quelle stesse voci che non avrebbero esitato un solo momento a distruggerti solo qualche giorno prima. Tutto era esattamente come ci si aspettava che fosse. Perfettamente nella norma e forse proprio per questo, tu l'avresti odiato così tanto, proprio come l'ho odiato io. Mentre continuavo a camminare nella nebbia, mi giunsero sfocate alcune condoglianze, alcune pacche sulle spalle, alcuni sorrisi tirati; c'è stato persino chi, guardandomi in viso, mi disse "bisogna essere forti". Ricordo fiori, colorati, arancioni, gialli, rosa. Un trionfo di rosa. Tu hai sempre odiato il rosa, ma sicuramente avresti apprezzato gli abiti di tutti rigorosamente neri. E questo un po' mi consolava. Mi aggrappavo con forza alle piccole cose, alle piccole vittorie, perchè sapevo che se avessi mollato la presa, se mi fossi resa conto, improvvisamente che Tu non eri più Tu, che tutto ciò che amavo e adoravo in te era venuto a mancare, sarei sprofondata in un delirio di disperazione, da cui non sarei mai più riuscita a liberarmi.
Ricordo quel giorno come il giorno in cui ti ho persa per sempre, amica mia. Non ti avrei più rivista, salutata, abbracciata. Ricor
Passarono pochi minuti e la polizia era già sulla scena del crimine. Le auto erano in fiamme, la strada era crollata e nel fumo non si intravedeva nessun sopravvissuto. Non erano rimaste speranze nel trovar qualcuno vivo. I poliziotti facevano il loro lavoro mentre i pompieri tentavano di spegnere quel fuoco ardente. C'era ancora paura di qualche fuga di benzina che avrebbe potuto causare un'esplosione che in pochi secondi avrebbe ucciso tutti. L'ordine fu quello di spegnere prima tutte le fiamme rimanenti, ormai non avevano speranze di trovare ancora qualcuno vivo. Un vecchio ufficiale di polizia si rivolse a un sergente dicendo: "Ehi, sergente Evans! Dobbiamo andare via da qui, porti il culo sull'autoblindo." Evans era di spalle. Osservava la scena. Il camion con il quale era stato compiuto l'attentato. La strada che crollava a pezzi. Le auto distrutte, incendiate. I morti al loro interno non più riconoscibili. Le fiamme si erano nutrite della loro pelle e della loro carne, erano ancora fumanti.
Evans osservava un'auto in particolare. Una BMW Berlina. Al suo interno potevano essere scòrsi quattro corpi, ma i loro visi erano indistinguibili. Le fiamme avevano dato fine a quelle quattro vite e fra quelle quattro ce n'era una in particolare per il quale Evans osservava molto. Un tumulto partì dallo stomaco fino alla gola. Il calore salì e la testa scoppiò. Gli occhi cominciarono a farsi rossi. Evans cercò di trattenere le lacrime, ma fu tutto invano. Le lacrime scesero fino ad arrivare alla benda che portava intorno alla bocca. Quella BMW Berlina non aveva vita lunga. La comprò a suo figlio per la laurea al college e adesso era lì, morto. Non riusciva ad accettarlo, si illudeva che quello non fosse suo figlio ma dentro di se sapeva che lo era. Gli occhi di Evans si oscurarono, non vedeva più nulla. Non aveva bisogno di vedere o sentire nulla. Il pezzo più grande della sua vita era scomparso per sempre.
L'ufficiale si diresse vicino a lui: "Evans, ti ho
Estratti repertoriati del diario di Nathaniel Crowe, rinvenuti nei pressi di Cala Scirocco, Isola di Montecristo
(Reperto A)
Forse sto per farcela. Finalmente il sogno di una vita, di studi approfonditi e ricerche infinite sta per regalare i frutti sperati. L’antro è piuttosto stretto ma me lo aspettavo. Dovrei percorrere ancora una distanza di circa trecento metri, dopodiché, secondo la mappa disegnata dal professore, dovrei ritrovarmi direttamente nella grotta della Villa, la misteriosa spelonca nella quale, ormai è certo, la famiglia Spada nascose il proprio prezioso, immenso tesoro.
Per fortuna ho con me la torcia, spero che la luce sia sufficiente per consentirmi di percorrere l’intero tratto che mi divide dalla fortuna che sto per abbracciare. Credo di aver percorso circa duecento metri, eppure la stanchezza inizia a farsi sentire. Il cunicolo presentava un diametro all’incirca di un metro per cui i primi passi sono stati difficoltosi, ma non impossibili. Improvvisamente il tunnel ha iniziato a scendere con pendenza maggiore e la circonferenza si è ristretta. Ma non posso tornare indietro. Ormai sono arrivato fin qui. Devo procedere, a qualsiasi costo.
(Reperto B)
Era un piovoso mattino, il solito piovoso mattino londinese quando di buonora il professor Milton mi convocò a casa sua. Mi presentai trafelato, la sua voce eccitata e scossa m’indusse a ritenere che dovesse comunicarmi qualche evento di particolare importanza, di quelli che non possono attendere oltremodo.
Entrai che sedeva dietro la scrivania, con un cenno mi invitò a sedere di fronte a lui. La governante mi porse una tazza di thè bollente ed ascoltai quanto il professore avesse da riferirmi.
“Mio caro Nathaniel,” esordì “tu sai quanti anni ho dedicato allo studio di questi testi”.
Compresi subito a cosa si riferiva. Per l’ennesima volta mi mostrò i libri e le cartine della misteriosa Isola di Montecristo, nell’Arcipelago Toscano, luogo arcano ed oscuro, l
Una densa nube rossa veniva sollevata dal terreno, ad ogni passo, come se l'inferno stava tentando di risalire i meandri della terra, mentre, veniva avvolto da una spirale di fumo nero.
Gli occhi, ricolmi di vivida rabbia, riversavano lacrime di sangue che gli rigavano il viso e terminavano dinanzi ai propri piedi; evaporando lentamente per unirsi alla nube infernale.
Una danza di arrogante violenza che non aveva nome né forma, solo due occhi rosso sangue...
Improvvisamente la sveglia squillò talmente forte da farlo sobbalzare dal letto, alterando ogni tipo di concezione e mescolando la realtà con quello sconcertante incubo.
L'accelerato battito cardiaco lo stringevano in una robusta morsa di cattivi pensieri e ambigue realtà, insinuandosi pian piano nella propria ragione, prendendone il controllo e riuscendo a capire cosa fosse accaduto.
Un banale incubo. Forse non tanto banale a sua detta...
Balzò in piedi, ricomponendosi fisicamente e moralmente, cercando di non pensarci più, magari affogando la strana sensazione in una tazza di latte e cereali, prima di affrontare l'ennesima giornata scolastica.
La tanto odiata, per precisarne l'importanza.
Non ci volle molto per tornare alle proprie facoltà e riuscire a prendere il bus in tempo, bastò poco tempo e già era ritornato ad essere il solito ragazzo che ambisce alla ragazza più bella del liceo, che viene schernito, che accumula passioni, ma nulla di tutto ciò può portare a buon fine se prima non termina tutti gli anni rimasti.
Sedici anni, con una vita in procinto di cambiamento e tanta, tanta, arroganza da offrire gratuitamente insieme alla indole indifesa di fronte al mondo maturato.
I banchi di scuola erano l'unica ancora di salvezza per redimersi dalla mentalità offuscata dal bighellonare e fantasticare su come avrebbe scuoiato il bullo di turno che continuava a lanciargli palline di carta.
Patetico, davvero. Lo era.
Studiare per lui era abbastanza importante, riusciva sempre nei suoi ob
LA SOGLIA
Nella stanza abbastanza capiente, costeggiata da corridoi
informi, ripieni di dolore per il troppo.
Sopra la caldaia, che un po’ riscalda vicino la macchinetta
del caffé, non lontano dallo stanzone dei ticket.
La stanza è costruita in prefabbricato.
I tavolini sono originali. Un designer pagato da una banca
li ha progettati e colorati sinuosi.
Il sole fa capolino dall’unica finestra. Gli infissi sono
vecchi. Il legno si scrosta (forse è come una lucertola).
In questa primavera non c’è niente da pensare.
Proprio nulla.
Gaetano è seduto ma la sua testa gira vorticosamente, capita
che sia la stanza a girare, le sue orecchie percepiscono
qualcuno che voglia fare il furbo: è un sussurrare.
Nel pomeriggio a casa ci sono tutti.
È un ambiente familiare.
Padre, madre, sorella, sorellina, morosa, un amico.
Dentro c’è un insopportabile caldo.
I familiari non fiatano.
Non c’è odore di chiuso, solo musica classica.
Tutti resistono, tutti vanno oltre.
Ogni mattina Gaetano si alza presto, si cambia.
Non sopporta la puzza che in una sola notte si accumula
nella biancheria intima.
Deve essere pulito.
Poi torna.
Ogni volta si guarda attorno: solo camici bianchi, solo
minuscole fotografie e nomi e cognomi.
I corridoi sono sempre popolati. Le stanze si popolano.
Parlano la sua lingua, il corpo trasmette gli stessi
messaggi.
Lui si incanta a guardare lungo le pareti: sfoghi, divieti,
annunci.
È come in gruppo, è come con gli amici: se trovi…. se
hai perso... perché loro sanno come vestirti.
Poi arriva il dottore. Sua sorella corrompe i vicini per
tenerlo fermo.
Tutti ci parlano, tutti lo toccano. Lei chiude la porta
dello studio.
Il medico la vede. Lavora in mezzo ad un ammasso di carte.
È l’unico dottore senza camice, senza cartellino, che non
si cura la barba.
Stiamo lavorando, cara ragazza, la massa tumorale di tuo
fratello è diminuita, adesso dobbiamo fermarci per un po’
perc
Era uno sguardo allenato alle atrocità del mondo, quello che scorreva l'orizzonte sfuggente di uno spazio recintato da spine, analizzandone con scrupolo la struttura anomala, differenziata da curve inspiegabilmente non lineari.
La necessità di sopravvivenza lo imponeva sadica e la sua serva, la fame di conoscenza, offuscava occhi che non provavano più pietà per un universo che si era sempre mostrato con ostilità, nei confronti dei suoi bisogni più elementari.
Un lampo diverso, scoccato dal fango della vita, attirò la sua attenzione famelica, e l'insieme di ossa, tenute assieme da scarni legamenti attaccati a muscoli e nodi di grasso sanguigno, scattò teso e deciso verso la fonte della nuova luce, la quale prometteva di essere la chiave che avrebbe aperto la porta per fuggire da un dolore senza fine, confinato con lui nell'antro dell'aspettativa di morte, certa solo della propria atrocità. L'energia della spinta fece scivolare il corpo, sofferente dietro a quel cercare furioso, fino a fargli sfondare col muso l'ultimo ostacolo di feci, impastate di argilla e piscio, che celava il prezioso brillio e quegli occhi, dall'avamposto della disperazione che ansimava, misero a fuoco, con un'occhiata rapida, il nuovo bagliore affascinante e misterioso.
La delusione gli sorrise sprezzante, in un tremito che percorse tutto il suo piagato corpo, dal naso fino alla coda, aggiungendo un'altra ferita alla sua affievolita speranza: aveva trovato un'altra perla inutile, e la sua fame lasciata sola si vendicò, con un lancinante crampo di solitudine, spingendo i suoi occhi a cercare di nuovo, tra il liquame spento di quell'angusto e lurido porcile.
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