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Racconti drammatici

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Discesa negli abissi

La mia pelle bianca è ormai livida a causa del freddo. Il vestito completamente inzuppato d'acqua è diventato pesante e aderisce al mio corpo inerme. I capelli rossi e setosi si muovono fluttuanti come se avessero vita, come se volessero allontanarsi dal resto di me; scappare via e salvarsi, almeno loro. Sono circondata dall'acqua, immersa in un vortice ghiacciato che mi fa ondeggiare come fossi una bandiera in balia del vento.
Prima del tuffo, della caduta, l'unico liquido che mi bagnava era quello salato delle mie lacrime che, copiosamente, si riversavano sulle guance lentigginose, brucianti come il dolore che le aveva scaturite. Piangevo e litigavo, non so più neanche con chi, non so più neanche per cosa.
Non ricordo volti innanzi a me; solo due mani, energiche e nodose, che hanno afferrato le mie spalle e le hanno strattonate, abbandonando la presa proprio quando il mio peso era sbilanciato verso dietro.
Sono caduta nel vuoto immenso che separava l'alta scogliera dalla distesa dell'oceano.
L'impatto con l'acqua è stato violento; il mare agitato non mi ha lasciato scampo. La forza delle onde che si infrangevano sugli scogli non mi ha permesso di risalire, lasciandomi affondare sempre più giù.
Ho provato a dimenarmi, ma qualcosa mi impediva di tornare a galla per riprendere fiato. La caviglia era bloccata, avvolta strettamente da un'alga che non voleva saperne di disciogliersi. Sembrava mi chiedesse di stare lì con lei, di farle compagnia; forse affascinata dalla storia che la mia caduta le stava raccontando; forse attratta da un essere diverso da ciò che era abituata a vedere. Non ero vegetazione marina, né corallo, né cetaceo.
Ero un essere umano. Uno dei pochi, forse l'unico, ad essere riuscito, sia pure senza volerlo, ad arrivare fin laggiù, nell'oscurità degli abissi.
I miei occhi terrorizzati scrutavano lo spazio attorno a me, alla ricerca di un appiglio, qualcosa che mi aiutasse a riemergere. Ma tutto ciò che vedevano era un

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   7 commenti     di: Roberta Criscio


Kunstwollen è il Paradiso

Capitolo primo

La bettola emerse dalla foschia come un miraggio.
L'uomo inspirò, espirò, inspirò di nuovo. Frugò nei taschini dell'impermeabile, tra briciole e fazzoletti raggrinziti, e tirò fuori l'astuccio delle sigarette. Lo rivoltò tra le mani rugose e lo soppesò con indifferenza. Era vuoto. Lo gettò via distrattamente. Sospirò e volse il suo sguardo angosciato verso destra, verso il vicolo avvolto nel miasma delle serpentine di scarico, lugubri luci al neon come stelle in un firmamento indistinto. E la pioggia che si infrangeva obliqua e tintinnante sui telai arrugginiti delle finestre. Oltre tenebre immobili e anfratti dimenticati. E più in là ancora, attraverso miglia di nulla, si dischiudeva misterioso e solenne il tetro orizzonte. Eterne distese di detriti e di frammenti e di cenere. La sagoma aguzza della città. Bassifondi marcescenti. Odore di morte e putrefazione.
Tossì. Il bagliore cinereo del lampione irradiava il suo profilo inflessibile, il suo profilo statuario. Attraverso la sozza vetrata della bettola scrutò di sbieco una giovane donna rischiarata dalla fiamma volubile e incerta di una candela. Una come te non dovrebbe essere da queste parti, amica. Guardala. Gli occhi, buchi neri nell'immensità azzurra. Capelli lucenti e la ciocca che le ricade languida sulla fronte. Le sue labbra vagamente curvate in un sorriso capovolto. Quel lungo abito di seta indaco. Guardala.
Era seduta a un tavolo, sola. Stringeva tra le mani un vecchio Moleskine rosso e lo sfogliava con aria assorta. Un raggio di luce obliquo le rischiarava le mani tremanti, le dita così sottili, gli anelli splendenti. Bevve un sorso di vino, gli occhi smarriti nel vuoto della notte e della città. L'impronta del suo rossetto color porpora si impresse come un fantasma, come un monito, come una profezia, sul bordo del bicchiere. Deglutì e riprese a sfogliare il Moleskine logoro, antico scrigno di ricordi sfuggenti.
L'uomo aprì timidamente la porta sotto l'in

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   1 commenti     di: Dario Russo


Pizza, mondiali e maturità

Sera. Solo la luce debole di un lampione di strada illuminava la stanza.
Appena entrato, si era buttato sul divano, tolto le scarpe, e aveva pesantemente abbandonato la testa all'indietro. Neanche casa sua gli dava pace. Aveva sperato che entrando in casa l'angoscia si sarebbe placata. Anzi forse era peggio, gli sembrava che le sue cose si girassero dall'altra parte quando le guardava.
Si sforzava di rimane immobile: se si fosse alzato avrebbe spaccato tutto.
Forse parlare con qualcuno gli avrebbe fatto bene, ma si vergognava come un pedofilo. Tanto era solo questione di tempo e ne avrebbero parlato tutti.
Per ora gli toccava ascoltare la voce paciosa di Jerry Scotti col suo quiz che il professor Di Natale del piano di sotto sparava a mille visto che era duro di orecchi così quanto era buono di cuore.
Prese il telefono. Mike rispose quasi subito.
"Hi Mike. I'm Calò. Listen, I've changed my mind. I'll accept your offer. If you want I can be at London even tomorrow. Actually I'll be there tomorrow."
"Really? Oh, it's fantastic. I knew it. It's a great opportunity. We sign the contract and we can leave for Nairobi as soon as possible".
"As soon as possible. I'll call you soon after my lending in London".
In realtà non aveva mai pensato di accettare. Avrebbe dovuto stare tre anni senza tornare a Roma. Erano tanti soldi, ma prima non ci aveva mai pensato veramente. Stasera avrebbe accettato anche di andare a cercare petrolio sulla luna, gratis.
La furia gli era passata: l'idea della lunga fuga lo aveva placato. Oramai scappare per lui era diventata un'abitudine. Il dolore che gli lacerava il cuore però era rimasto lì. Allora aprì una bottiglia di Lame del Tenente, un vino salentino denso e deciso. Si sedette e iniziò a bere, proprio come quella volta. Accese il pc e si prenotò il primo volo per Londra e visto che c'era si cancellò da facebook. Non si fosse mai iscritto.

"Zio, bisogna che ti fai facebook anche tu. A parte che puoi vedere tutte

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   0 commenti     di: luigi bosco


Rosa purpurea

"Squadrone.. alt!"
Al perentorio comando i cinquantadue soldati componenti il reparto delle nuove reclute provenienti dal CAR si fermarono all'unisono e restando sull'attenti. Poco dopo, un secondo ordine ordinava loro di mettersi in posizione di riposo. Sulla ghiaia che rappresentava il piano di calpestio dello spazio antistante gli uffici del distaccamento di artiglieria contraerea il rumore degli scarponi veniva maggiormente amplificato e più di qualche birba, come già venivano scherniti dal loro sbarco dai camion, non abituata a quel particolare piano stradale sembrò comicamente sbandare provocando ancor più ilarità tra la dozzina di "veci" che bigollonavano nei dintorni pronti a inquadrare le future prede degli scherzi da bullismo a cui saranno sottoposti nell'immediato futuro.
Lo spazio in cui lo squadrone si era fermato era quello delimitato dai vari uffici del distaccamento, Fureria, Amministrazione, Sala riunione, Comando distaccamento, Comando di batteria, Magazzino, Dispensa, Cucina, ed infine OATIO, il secondo per ampiezza dopo quello delle riunioni. Era, quest'ultimo, l'anima dell'intero distaccamento, qui veniva ospitato il centro pianificatore di tutte le attività militari, esercitazioni varie, vi aveva sede il centro degli avvistatori PAO (pattuglie di avvistamento ottico) nelle varie esercitazioni, il centro NTBS (l'apparato radar di primo avvistamento aereo) ed infine quello delle trasmissioni radio.
A gestire tutte le attività dell'OATIO era un maresciallo capo, ma essendo sempre introvabile (dicasi grande imboscato) il tutto era sotto il ferreo controllo del sergente maggiore Loddu Enrico, per tutti "capo" e solo per pochi intimi Rico. Alto un metro e ottanta e con oltre novanta chili di peso, quasi tutti muscoli eccessivamente malriposti, incuteva più che rispetto un vero e proprio timore fisico convalidato da una maschera impressionante che rappresentava il volto, zigomi sporgenti e naso distorto e schiacciato erano solo alcuni dei

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Perché

Anche oggi una splendida giornata di sole, esco per la mia solita passeggiata. Mi piace uscire da solo, non che i ragazzi o Piero mi diano impiccio ma camminare da solo mi da davvero una sensazione di libertà particolare, fermarmi quando mi pare, osservare, scegliere le strade che mi intrigano di più, tanto la meta è sempre la stessa: il parco in fondo alla strada. Che meraviglia stare distesi sull'erba umida appena irrorata dagli annaffiatori automatici, sentire i raggi dal sole che mi riscaldano, la leggera brezza che muove i fili d'erba che mi accarezzano lungo il corpo e poi ho il mio solito posticino con un punto di osservazione ideale, questa cunetta di terra al centro fra i due castagni e un posto perfetto, da qui vedo quasi tutto il parco, posso vedere chi entra, chi esce e quello che fanno quasi tutti i frequentatori.

Oggi c'è poca gente, la signora Elisa col figlio un po' scemo che viene sempre col solito pantaloncino corto... ma dovrebbe avere già l'età per portarli più lunghi, e poi si porta sempre quello stupido aquilone che alla fine si impiglia ovunque, una volta hanno dovuto chiamare anche il guardiano del parco con la scala per toglierlo dai fili della luce... ma che imbranato... C'è pure Rosy una bambina dolcissima che mi sorride sempre, ha sempre parole gentili e gesti affettuosi davvero un tesoro. Anche i miei ragazzi sono affettuosi ma hanno sempre la testa ad altro, Giacomo è sempre appiccicato la suo portatile come in una simbiosi: metà ragazzo metà computer.. penso che se un giorno dovesse perderlo dovremo affrontare un lutto grave in famiglia. Anna invece ha la sua simbiosi col telefonino, da quando ne ho memoria sarà il sesto o settimo che cambia, al contrario di Giacomo che col portatile ci dorme e che in ogni momento della giornata è sempre sotto il suo sguardo attento, Anna il suo telefonino lo va lasciando sempre dove le capita.. che testa... infatti ne ha già perduti una cifrà... poi due lacrimucce e ne compare subit

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Abissi di paura

Estratti repertoriati del diario di Nathaniel Crowe, rinvenuti nei pressi di Cala Scirocco, Isola di Montecristo

(Reperto A)
Forse sto per farcela. Finalmente il sogno di una vita, di studi approfonditi e ricerche infinite sta per regalare i frutti sperati. L’antro è piuttosto stretto ma me lo aspettavo. Dovrei percorrere ancora una distanza di circa trecento metri, dopodiché, secondo la mappa disegnata dal professore, dovrei ritrovarmi direttamente nella grotta della Villa, la misteriosa spelonca nella quale, ormai è certo, la famiglia Spada nascose il proprio prezioso, immenso tesoro.
Per fortuna ho con me la torcia, spero che la luce sia sufficiente per consentirmi di percorrere l’intero tratto che mi divide dalla fortuna che sto per abbracciare. Credo di aver percorso circa duecento metri, eppure la stanchezza inizia a farsi sentire. Il cunicolo presentava un diametro all’incirca di un metro per cui i primi passi sono stati difficoltosi, ma non impossibili. Improvvisamente il tunnel ha iniziato a scendere con pendenza maggiore e la circonferenza si è ristretta. Ma non posso tornare indietro. Ormai sono arrivato fin qui. Devo procedere, a qualsiasi costo.

(Reperto B)
Era un piovoso mattino, il solito piovoso mattino londinese quando di buonora il professor Milton mi convocò a casa sua. Mi presentai trafelato, la sua voce eccitata e scossa m’indusse a ritenere che dovesse comunicarmi qualche evento di particolare importanza, di quelli che non possono attendere oltremodo.
Entrai che sedeva dietro la scrivania, con un cenno mi invitò a sedere di fronte a lui. La governante mi porse una tazza di thè bollente ed ascoltai quanto il professore avesse da riferirmi.
“Mio caro Nathaniel,” esordì “tu sai quanti anni ho dedicato allo studio di questi testi”.
Compresi subito a cosa si riferiva. Per l’ennesima volta mi mostrò i libri e le cartine della misteriosa Isola di Montecristo, nell’Arcipelago Toscano, luogo arcano ed oscuro, l

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L'americano

Così all’improvviso come se ne era andato, altrettanto inaspettatamente Cosimo Gasparini riapparve in paese, uno dei primi giorni di agosto del 1950, dopo ben 15 anni di assenza.
Scese dall’autobus, ritirò dal bagagliaio la valigia e si guardò intorno: nulla sembrava cambiato. Stava respirando a pieni polmoni l’aria umida, olezzante del putridume del vicino fiume quasi in secca, quando un’esclamazione lo fece trasalire.
- Ma sì, sei proprio tu, Cosimo! È ritornato, gente, è ritornato!
Si volse a guardare chi lo chiamava e vide un uomo in tuta da meccanico, sulla porta di un’officina da fabbro, che gli si faceva incontro. Gli sembrò che il viso non gli fosse nuovo, ma c’era qualche cosa che non quadrava in quel volto, che un tempo doveva essergli stato familiare: una benda nera infatti copriva l’occhio sinistro.
- Non mi riconosci, cavolo. Non vedi che sono io, il Guercio.
- Il Guercio?
- Ah sì, è vero che tu mi puoi ricordare con tutti e due gli occhi; uno l’ho perso quando non c’eri ed è stato in guerra. Però non puoi esserti dimenticato delle nuotate che facevamo nel Po, io nudo e tu pudico con le mutande tutte scucite.
Cosimo si portò la mano alla fronte, fissò il suo interlocutore ed esplose:
?" Ma certo! E quando andavamo a rane di notte con la lampada ad acetilene e tu riempivi il sacco e poi ti divertivi a guardare quelle che cercavano di saltar fuori? Sì, ti riconosco, sei il mio vecchio amico Annibale!
- Sei vestito come un damerino, da gran signore. Hai fatto fortuna via e io ci avrei scommesso perché, anche se non hai studiato, hai sempre avuto una mente sveglia. Senti, facciamo un salto all’osteria, che lì troviamo senz’altro qualcun altro che ti conosce, e poi, detto fra noi, questo caldo, la polvere di ferro e l’urlata mi hanno fatto venir sete.
Nell’osteria erano in pochi ma, come si suol dire, di quelli buoni, cioè tutta gente che era in paese da una vita e che, avendo già udito l’urlata

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