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Racconti drammatici

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Sms

Tutto sembrava ingiusto, si guardava intorno; mesto. Cosa si era costruito? A cosa andava incontro? Non lo sapeva nemmeno lui. Era seduto sul banco da lavoro; sistemato con dizionari e copie di raccolte di poesia impilate. Trascorreva le sue giornate in uno scantinato, un bugigattolo dove le pareti aprivano delle masse di aloni grigio verdi di umidità. Seduto ad una scrivania, o meglio un pianale di lavoro alto preso da un rigattiere, dove trascorreva intere giornate a scrivere poesie, riflessioni e tra una breve pausa l'altra a sfogliare i suoi passi preferiti. La casa era un lusso per chi come lui si trovava sotto il giogo dei figli, nulla tenenti e della moglie, fuoriclasse di infamia.
Non si faceva illusioni sul futuro, seppur breve che gli rimaneva; la famiglia era stata una parentesi breve nella sua esistenza. Si era abituato a questo scorrere lungo una via consolidata, ben conosciuta; fin troppo, che non aveva mai avuto cambi di direzione. Ma nella percentuale di individui che si trovava a dover valutare mestamente; ma anche con un margine di consolazione per sé stesso attraverso un giudizio veritiero; arrivava ad una imparziale ed inequivocabile conclusione che, la realtà difficilmente si poteva cambiare; i casi in cui una persona poteva avere una svolta nella vita erano una rarità.
Si era abbarbicato su una torre solitaria, non chiedendo carità o partecipazione altrui alla disgrazia che gli era piombata addosso. Aveva un dono, però, che aveva reso tutto questo meno gravoso, ed ogni giorno ringraziava il fato che si era potuto servire della materia poetica per giungere alla soluzione di problemi con maggiore giudizio, impeto; e valutare gli insuccessi, come i fatti spiacevoli di un'esistenza grama attraverso la materia letteraria, mediandoli come sua fonte, personale, unica ed intoccabile di ispirazione.
Da ragazzo evitava la vacuità di pensiero, straniarsi divenne un recesso nascosto, da seppellire. Ma la cura al veleno di una intensa lotta qu

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   8 commenti     di: Paola


Cinqant'anni

Columbia (SC), 07/01/1999
Mi chiamo Robert Life, nato nei pressi di Fulton St., Columbia nel South Carolina, l'8 Gennaio 1949. Mio padre morì quando avevo sei anni, fu colpito involontariamente da un proiettile vagante durante una sparatoria. Faceva il macellaio. Mia madre non faceva un cazzo oltre a ciò che fanno tutte le madri. Da bambino mi piaceva...
Oh, al diavolo. Sono Robert Life e scrivo questa lettera come ultimo atto di un qualche cosa di meraviglioso. A dir poco. Sono passati cinquant'anni e guardandomi alle spalle, oggi, noto qualcosa che è sempre sfuggito alla mia mente, al mio cuore. Qualcosa che solo gli uomini i quali si trovano attualmente nella mia stessa situazione, possono notare. Proprio ora che dinanzi a me scorgo il buio, la luce entra di prepotenza nella mia testa. E ricordo tutto. Ricordo il mio primo regalo di Natale, uno dei primi, una chitarra. Non potrò mai dimenticare la mia felicità e le mie lacrime ed il sorriso di mio padre. Ricordo il primo giorno di scuola, tra pianti e urla, mi mancava il mio papà, quasi come se già sapessi che dopo quel giorno non l'avrei più rivisto. Ho vissuto nella merda e con astuzia sono sopravvissuto fino ad oggi. Ho sempre guardato le mie tasche, ragguagliato mia madre, difeso il mio fratellino e mangiato quello che c'era. E ricordo quando attraversavo quei bui e stretti vicoli, osservato anche dal cane randagio. E piansi, piansi per la scomparsa di colui che per sei anni mi ha amato, difeso, addestrato. Ma nel South Carolina non c'è tempo per piangere. Nella mia vita non c'era tempo per piangere.
Non scordo il mio primo lavoro. Ero un fottuto lustrascarpe come quei negri figli di puttana. Ero il miglior lustrascarpe del Sud. Lustravo signori, ricchi, mafiosi. Era un lavoro di merda, ma mia madre era lì, povera ed indifesa, con due figli da sfamare anche con un dollaro a settimana. Li ricordo tutti quegli stronzi: Vincent Langella, Sonny Cady, Johnny "la roccia" Corrado, Michael Winnfi

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   1 commenti     di: Claudio Morgese


Ca'Trame

Una mattina d'inverno, più tardi del suo solito, Trame, un vecchio tossico sulla quarantina aspettava di fare il suo consueto giro. Prima però, si portò di malavoglia in bagno e con la porta spalancata iniziò ad urinare.
- Ma cristo santo, - urlò sua madre con una voce roboante, incamminandosi dalla cucina. Poi continuò, rincarando la dose: - Ti è dato di volta il cervello? Non vedi dove stai pisciando?

Trame quasi cadde all'indietro per lo spavento, tanto che dovette tenersi con una mano sul muro, facendo fuoriuscire il piscio su tutto il pavimento. E con voce strascicata: - Oh, mamma! Lasciami in pace. Cazzo!

- Te lo farei leccare, porco diavolo, - disse Teresa guardando il figlio pisciare sul bidet. Poi ritornò in cucina, dove ad aspettarla c'era una borbottante moca di caffè, pronta a straripare.
Trame riprese il suo lavoro. Non si era accorto che si stava muovendo ritmicamente a destra e a sinistra inondando tutto l'intonaco del bagno, oltre che il bidet. Grande mossa Trame.
Il suo sguardo finì poi, fuori dalla finestra. Gli piaceva immaginare la temperatura, basandosi solamente sulla posizione delle nuvole. Le nuvole erano l'unica cosa che poteva vedere per intero. Infatti, un geometra poco attento aveva fatto installare finestre ad un'altezza consona solo ai giganti del viaggio di Gulliver. Lo skyline risultava a dir poco ridotto. Si poteva cogliere, impegnandosi, una porzione di tetto della casa adiacente e una distesa immensa di cielo; quello che, oggi, appariva a Trame come un etere bigio che non prometteva nulla di buono. Si presupponeva una mattina fredda. Mattina da giacca a vento, chiusa fino all'ultimo bottone per ripararsi dal vento più pungente.
Anche a Teresa, piaceva l'idea di poter vedere suo figlio un giorno, vestito come ci si aspettava da un quarantenne in carriera. Vederlo rientrare dal lavoro, in una casa dove una moglie lo aspettava felice. Invece a casa di Trame ad aspettarlo c'era solo un'altra dose di metadon

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Lo sfregiato

Era un uomo alto con folti e ondulati capelli rossi, occhi verdi, barba rada e corta e una piccola cicatrice sulla guancia destra. portava un'ampia giacca a frangie finemente decorata con amuleti indiani, una sgargiante collana indiana, e aveva anche una frusta con cui poteva persino uccidere i lupi. Cavalcava un bianco destriero arabo di nome Thunder e ovunque passasse incideva col coltello una A iniziale di anarchia, era un bastardo, uno dei peggiori che potessero circolare a quei tempi nelle pianure dell'ovest. Era nato trentatre anni prima in un piccolo villaggio di coloni, di quei coloni che per trovare una vita migliore, migravano all'ovest sfidando le insidie di una terra sconosciuta e la furia degli indigeni. Suo padre era stato un agricoltore ed era morto prima che lui nascesse, e la madre una donna religiosa e caritatevole, morta quando il figlioletto aveva sei anni. Il bambino che non aveva parenti era stato affidato ad un fattore che lo faceva sgobbare sodo, senza quasi dargli da mangiare e lo picchiava spesso. Ma il peggio doveva ancora arrivare! E in fatti in una fredda notte d'inverno vennero gli indiani, quelli che la gente chiamava Sioux anche se in realtà si chiamavano Dakota. Costoro uccisero, rapinarono e presero prigionieri donne e bambini fra i quali lui. Il trattamento che gli aveva riservato il fattore gli sembrò di tutto riguardo in confronto a quello che aveva dai nativi i quali lo costrinsero a cacciare bestie selvaggie, senza dargli niente di quel che prendeva obbligandolo così a sfamarsi con tuberi, funghi, frutti selvatici e radici. Gli insegnarono il proprio idioma a suon di bastonate, a combattere con l'arco, il bastone il coltello, e a lottare corpo a corpo, picchiandolo e umiliandolo ogni giorno. Guai a piangere perchè avrebbero raddoppiato i maltrattamenti. Il bambino disperato, trattato come un verme e senza neanche la possibilità di piangere (quando invece avrebbe voluto urlare), per sopravvivere dovette imparare bene l

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La notte che ho incontrato un angelo Cap. V

Non riuscì a spiegarsene il motivo ma fin da subito si sentì inspiegabilmente attratta dal ragazzo che le sedeva di fronte, era incuriosita, stranamente eccitata e proprio non riusciva a capire il perchè di tanto interessamento. Apparentemente era un ragazzo come tanti altri se non fosse per quel... come definire quell'alone magnetico quasi tangibile che irradiava e che, pertanto, lo rendeva così irresistibilmente attraente ai suoi occhi? Quasi non riusciva a vederlo in viso intento com'era a scrivere o disegnare tranquillamente qualcosa su di un grande blocco per appunti; i capelli neri, lisci e lucidissimi gli coprivano la fronte, le sue mani erano lunghe, affusolate, mani che non avevano conosciuto la fatica, e ogni tanto lentamente le staccava dal blocco per passarle delicatamente tra i capelli, quasi una carezza, inutile tentativo di scostarli dalla fronte. Scuro di carnagione, doveva essere giovane, "molto più giovane di me" si sorprese a pensare Erica mentre lo osservava. Snello e muscoloso, le spalle ben delineate, sul braccio destro dalla t-shirt bianca spuntava un tatuaggio dal soggetto indefinibile, coperto quasi completamente dalla manica della maglietta.
"Chissà come si chiama" pensò meravigliandosi del suo interesse per quello sconosciuto, "Simòn" rispose il giovane in un sussurro e senza alzare lo sguardo. Lo pronunciò con un lievissimo accento straniero forse sudamericano: "mi chiamo Simòn, e ho da poco compiuto 30 anni. Era questo che ti stavi chiedendo vero?" continuò lui alzando finalmente il capo. Stupefatta oltre l'inverosimile Erica non riusciva a capire, era come ipnotizzata, come poteva aver letto nella sua mente, capire ciò che stava pensando, senza aver mai alzato lo sguardo su di lei nemmeno una volta? Solo quando finalmente riuscì a guardarlo negli occhi, solo allora capì, ebbe un sussulto, una scossa di adrenalina che sfrecciando veloce partì dal cervello ed esplose nel cuore... in quegli occhi, grandi scuri e profondi,

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Attenta ai lupi!

Attenta ai lupi!
Dramma
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Dalla metropolitana a casa sua erano poco più di un centinaio di metri ma doveva attraversare un logoro e buio sottopassaggio. Rientrava tutte le sere, dal lavoro, dopo le venti e mentre d'estate procedeva tranquillamente, nelle fredde serate invernali camminava speditamente e spesso ad ogni piccolo rumore si voltava indietro impaurita.
Ogni giorno la stessa storia, gli anziani genitori le raccomandavano di stare attenta perché lì intorno gironzolavano diversi ragazzi neri e a loro dire erano molto pericolosi. Benito il papà di Laura era stato una camicia nera ed aveva condiviso le idee di Hitler sulla purezza della razza. Anche Christine, la mamma, la pensava allo stesso modo.
Laura, una gran bella ragazza, alta dal fisico slanciato e con un seno prosperoso, aveva ormai superato i trent' anni, era single per colpa di una delusione d'amore e sembrava non avesse più intenzione di riviverne una storia.
Lavorava presso i grandi magazzini della città ormai da tantissimo tempo, i proprietari, che ormai la trattavano come una persona di famiglia, le avevano più volte consigliato l'acquisto di un'utilitaria, l'avrebbe portata fino a casa e tutti sarebbero stati più tranquilli. La città con il passare del tempo stava diventando invivibile, ad ogni angolo, ogni sera, si vedevano spacciatori e prostitute.
Le forze dell'ordine spesso intervenivano, era come tagliare la coda ad una lucertola. Gli arrestati od i fermati nell'arco di qualche giorno tornavano in strada.
Quel sabato sera Laura si era attardata un po' di più, un bizzarro cliente le aveva fatto perdere un sacco di tempo. Telefonò ai suoi per avvertirli del ritardo e prese la metropolitana delle venti e trenta.
Scese alla fermata, si tirò su il bavero del cappotto, la serata era abbastanza fredda, e incominciò a camminare a passi veloci.
La strada pareva deserta, illuminata dai pochi lampioni ancora funzionanti, a molti mancav

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   1 commenti     di: andrea


il paese stregato

Questa è opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale.

CAPITOLO PRIMO

"Vielle 15 Novembre Vostra zia è morta stop Funerali dopodomani stop Severin..."

Partiamo col furgone alle prime ore del pomeriggio io e mio cugino Tom.
Fino a un certo punto conosco la via da seguire, ma poi sono costretto a chiedere indicazioni a dei contadini intabarrati alla guida di un carro. Quando arrivo in vista di quella strada stretta che taglia in diagonale i campi in direzione nord provo un senso di familiarità che solleva nella mia anima ricordi tenui e sopiti dall'infanzia: immagini di posti inondati di sole, di luce bianca...
É una giornata grigia di novembre. Tom non dice una parola e nemmeno io ho tanta voglia di parlare.
Il paesaggio è viscido, sfumato, il cielo coperto di nubi. L'aria ha un tepore gradevole dovuto alla troppa umidità.
Il primo paese che incontriamo è un raggruppamento di casolari anneriti sparsi ai fianchi della strada.
Ne incontriamo altri così, sono piccole frazioni non segnate sulla carta che l'auto non impiega molto ad attraversare, gruppi di cascinali smorti e privi di vita, affondati nella pianura. A volte leggo senza interesse i loro nomi: Michellorie, Mieg, Caselle... Grossi topi ci passano davanti con una andatura goffa.
La campagna ha una lucidità irreale sotto i ristagni di nebbia leggera. Vorrei conoscere i sogni di quelle cappellette romantiche e semidiroccate che vediamo talvolta ai crocevia. Sogni senza fine, come la lenta ondulazione dei campi sotto la foschia lattiginosa. Pensieri di morte si susseguono nella mia mente.
Un grassone con la faccia rossa che non bada al nostro passaggio, seguita a ridere smoderatamente su uno spiazzo deserto in riva al fiume.
C'è un ponticello da oltrepassare al di là del quale la strada diventa infangata sotto gli alberi spogli. Dai rami bassi cade un perenne sgocciolìo d'acqua e di umidità. Una luce giallognola che si diffonde talvolta nel cielo

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   0 commenti     di: sergio bissoli



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