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Racconti drammatici

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Mazzacane - cap. IX

È tarda sera, Nino è solo in casa, sprofondato in una poltrona sorseggia del cognac. È in attesa di una visita che tarda a venire quando il silenzio nella stanza è rotto dallo scampanellio della porta d'ingresso. Si alza e va ad aprire, la persona che attendeva è arrivata. È Gibbì. Senza mostrare alcuna sorpresa Nino nota l'abbigliamento trasandato del vecchio bidello, anche l'aspetto lascia a desiderare.
"Tua nipote ti ha rintracciato"
"Non sapevo che mi cercasse, sarei venuto ugualmente domani ma passando ho visto la luce accesa"
"Entra e siediti"
"Grazie. So che sei stato in ospedale.. come sta lei?" Nino lo ferma con un gesto dicendogli..
"Non è di questo che dobbiamo parlare"
"Lo so, dobbiamo parlare di tante cose"
"Voglio delle risposte sincere.. su tutto"
"Saprai la verità.. su tutto, ma prima dimmi come sta lei"
"È più grave delle altre volte. In tanti anni non ho mai immaginato che ti stesse così a cuore"
"Non avevi alcun motivo di chiedermelo"
"Raccontami tutto"
"Sarà una lunga spiegazione"
"Ho tutto il tempo che voglio. Comincia dal principio"
"Sai com'era questa strada trent'anni fa? E questo rione? Già, tu non eri ancora nato, non puoi ricordare ciò che non hai nemmeno visto"
"So che è cambiato molto"
"Puoi ben dirlo. Questa casa esisteva solo come piano terra e faceva da stalla e abitazione di tuo nonno. Qui davanti non c'era una strada così larga ma solo uno stretto vicolo tortuoso e laggiù, in fondo all'angolo, dove oggi c'è quella officina c'era la casa dove sono nato io"
"Perché mi racconti di questo, ha qualcosa a che vedere con me?"
"Perché è da qui che tutto è iniziato, più di mezzo secolo fa"
Nino lo guarda perplesso ma non lo interrompe così Gibbì può continuare.
"Filomena è più grande di me di otto anni. Le nostre famiglie si conoscevano a fondo, non erano imparentate ma si trattavano più che familarmente. I nostri genitori avevano ben poco tempo da dedicarci impegnati com'erano a procurarsi u

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   3 commenti     di: Michele Rotunno


Può succedere

Può succedere a tutti. Può succedere a te.
Ti arriva all'improvviso quel pugno nello stomaco che per giorni immaginavi, temevi, ma non ti auguravi.
Più allontanavi quel pensiero, e più ti tornava addosso, come un boomerang maledetto, e ti si posava sul cuore, sullo stomaco, sulla pancia, ovunque tu potessi provare dolore.
L'attesa sfinisce, logora, consuma, ti spacca sempre il cuore in mille pezzi e l'ansia prende il posto della tua anima.
E arriva il giorno maledetto, quando un anonimo qualcuno prende in mano la tua vita e la fa in mille pezzi, davanti a te, come carta straccia.
Tu, che per un eterno momento, non sai più dove ti trovi, il corpo di ghiaccio, immobile. Una disperata paura ti veste la pelle. Il pugno ti scuote, fissi gli occhi su un punto imprecisato, davanti a te ci sono segni di vita, un quadro, dei fiori, una matita, un cappotto buttato su una sedia. Ma tu non vedi niente di tutto questo, gli occhi spalancati solo sulla tua vita. Su tutto quello che hai fatto da quando sei venuta al mondo, su tutto quello che hai avuto, che hai dato, che ti hanno tolto.
E adesso... cosa avresti fatto adesso?
All'improvviso ti viene in mente una canzone... meraviglioso, quella che dice ma guarda intorno a te, che doni ti hanno fatto, ti hanno inventato il mare, il sole, la vita. Per farne cosa? Per camminarci sopra come su un tappeto di chiodi, questa è stata per te la vita. A cosa serve meravigliarsi d'amore davanti al sole, al cielo, al mare, quando dentro non li hai? Quando dentro forse non li hai mai avuti? E adesso, allora, di cosa hai paura? Di lasciare tutto il dolore che hai sempre provato vivendo? E amando? Perchè piangi? Cosa puoi lasciare qui di così importante da piangere? Hai percorso chilometri di anni bui, qua e là piccole luci che si sono spente al primo alito di vento e non sei riuscita mai a riaccenderne nessuna. Hai amato, si... tanto. Sei stata amata, anche. Ed è stato bello, ti sentivi forte.
E quando poi hai amato da sola ti

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   0 commenti     di: Sandrina


Discesa negli abissi

La mia pelle bianca è ormai livida a causa del freddo. Il vestito completamente inzuppato d'acqua è diventato pesante e aderisce al mio corpo inerme. I capelli rossi e setosi si muovono fluttuanti come se avessero vita, come se volessero allontanarsi dal resto di me; scappare via e salvarsi, almeno loro. Sono circondata dall'acqua, immersa in un vortice ghiacciato che mi fa ondeggiare come fossi una bandiera in balia del vento.
Prima del tuffo, della caduta, l'unico liquido che mi bagnava era quello salato delle mie lacrime che, copiosamente, si riversavano sulle guance lentigginose, brucianti come il dolore che le aveva scaturite. Piangevo e litigavo, non so più neanche con chi, non so più neanche per cosa.
Non ricordo volti innanzi a me; solo due mani, energiche e nodose, che hanno afferrato le mie spalle e le hanno strattonate, abbandonando la presa proprio quando il mio peso era sbilanciato verso dietro.
Sono caduta nel vuoto immenso che separava l'alta scogliera dalla distesa dell'oceano.
L'impatto con l'acqua è stato violento; il mare agitato non mi ha lasciato scampo. La forza delle onde che si infrangevano sugli scogli non mi ha permesso di risalire, lasciandomi affondare sempre più giù.
Ho provato a dimenarmi, ma qualcosa mi impediva di tornare a galla per riprendere fiato. La caviglia era bloccata, avvolta strettamente da un'alga che non voleva saperne di disciogliersi. Sembrava mi chiedesse di stare lì con lei, di farle compagnia; forse affascinata dalla storia che la mia caduta le stava raccontando; forse attratta da un essere diverso da ciò che era abituata a vedere. Non ero vegetazione marina, né corallo, né cetaceo.
Ero un essere umano. Uno dei pochi, forse l'unico, ad essere riuscito, sia pure senza volerlo, ad arrivare fin laggiù, nell'oscurità degli abissi.
I miei occhi terrorizzati scrutavano lo spazio attorno a me, alla ricerca di un appiglio, qualcosa che mi aiutasse a riemergere. Ma tutto ciò che vedevano era un

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   7 commenti     di: Roberta Criscio


Centro estetico

Credo di poter dire senza falsa modestia che il mio centro massaggi è il migliore della città. Io, sono il migliore. Infatti lavoro da solo, non ho bisogno di nessuno.
Forse è perché non ho mai avuto in me la bellezza che sono così bravo a riconoscerla e a custodirla. Ma le mie clienti sembrano ormai abituate al mio aspetto, anzi, alcune le direi persino affezionate, intenerite dalla mia stranezza. Certo, l'impatto iniziale non è mai facile. D'altra parte ci sono abituato, fin da ragazzino. Quando a quindici anni raggiunsi i due metri e i duecento chilogrammi pensai che il mio corpo maledetto non avrebbe mai smesso di crescere, e con esso la mia vergogna.
Una malattia rara fa sì che non vi cresca alcun pelo, nemmeno sul viso. Nemmeno la barba, nemmeno le ciglia. Un corpo enorme, liscio, da neonato gigantesco. Non ne sopporto nemmeno la vista, mi spoglio al buio, mi lavo in penombra e non ho specchi.
L'unica parte di me che amo sono le mie mani, le dita lunghe e affusolate, i polsi forti, i palmi accoglienti. È come se in esse si concentrasse la grazia di cui tutto il resto del mio involucro è completamente privo. Sono fortunato in fondo, è l'unica parte di me che non potrei evitare di avere sempre sotto gli occhi. Guardo le mie mani e vedo bellezza, dimentico il resto e divento le mie mani.
D. prende appuntamento sempre al pomeriggio, di mattina studia all'università. Ricordo il suo sguardo la prima volta che mi vide. So che avrebbe voluto scappare, solo per educazione non ci riuscì, e per i miei prezzi particolarmente economici. Oggi invece è tranquilla, ha capito che non costituisco un pericolo, anzi. Così arriva, mi saluta sorridente, si spoglia, si sdraia sul lettino e aspetta le mie mani.
D. è bellissima. Le mie mani scorrono sul suo corpo perfetto, dal collo alle spalle, giù lungo la schiena fino alle punte dei piedi. Poi le chiedo di girarsi e lei obbedisce, non si vergogna di mostrarmi i seni poco più che da ragazzina, tiene

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   0 commenti     di: Viviana


L'amico scomparso

- Ecco, vede, veniva ogni mattina a guardar sorgere il sole. Si accovacciava sulla sabbia, con le spalle rivolte a est, verso l’Alberese, e s’incantava a osservare il promontorio dell’Argentario che prendeva forma poco a poco mentre la luce si diffondeva.
- Diceva qualche cosa, parlava?
- No, stava muto e solo una volta, mentre aggiustavo le reti, l’ho sentito mormorare qualche parola, ma a voce molto bassa, tanto che non ho capito.
Fausto guardava il lontano promontorio dell’Argentario che sembrava emergere dalle acque del Tirreno, una specie di vascello fantasma diafano nella luce del tramonto.
Il vecchio pescatore gli si accostò e gli rivolse nuovamente la parola.
- Uno spettacolo che vedo da anni, ma che non finisce di stupirmi. Non c’è niente di più magico di un tramonto in questo posto.
- Veniva anche a quest’ora?
- No, mai che io mi ricordi. Gli interessava solo l’alba.
- Grazie, per quanto mi ha detto.
Risalì l’arenile nel silenzio ovattato dell’ora, interrotto solo dallo stridio di qualche gabbiano,
e dal rumore della corrente dell’Alberese che lì in mare se ne andava a morire.
Sì, come il fiume che nasce e che poi muore, anche il suo amico Alfredo, lo stimato professore di latino del liceo classico di Mantova, un giorno se n’era andato da casa, senza dire nulla alla moglie. Si erano avviate le ricerche in tutta Italia e poco a poco, sulla base delle segnalazioni, si era ricostruito il percorso che aveva intrapreso.
Una prima tappa di poche ore a Firenze, ove qualcuno si ricordava di quell’uomo non più giovane, magro e quasi scheletrico che era rimasto per più di un’ora estatico di fronte a Palazzo Pitti.
Il suo peregrinare l’aveva portato poi a Bolgheri,
dove aveva passeggiato a lungo su e giù per la stradina che portava alla chiesa di San Guido, sostando più volte a guardare i filari di cipressi.
Sì, lo ricordo bene?" aveva detto il sagrestano.
E quando gli si chiese il perché, questi rispose in

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Il mazzo di rose

Un nuovo colpo mi ferì.
L'ennesimo.
Mi chiesi per quanto tempo sarebbe andato avanti così. Non sapevo quanto avrei resistito ancora.
Cercai di coprirmi il volto con le mani, salvando almeno quello.
Stavo accucciata in posizione fetale, mentre lui mi colpiva con il piede.
Il dolore affondava nel mio stomaco regolarmente, come una lama senza pietà.
Non sentivo nulla, ormai vi ero abituata.
"Amore, amore mio, ti amo troppo ma ogni tanto sbaglio. Non volevo farti del male, ma non ero in me, perdonami. Sono stato stupido e impulsivo".
Sapevo che sarebbe andata così: mi avrebbe picchiata fino a stare male, sarei rimasta distesa per ore, immobile, a piangere.
Lui, finite la rabbia e le energie, se ne sarebbe andato, senza dire nemmeno una parola, come se nulla fosse accaduto, come se io non esistessi.
Avrei aspettato che la porta si chiudesse alle sue spalle, poi mi sarei alzata, anch' io come se niente mi avesse scossa. Mi sarei fatta una doccia, avrei messo il ghiaccio sui lividi, i cerotti sulle ferite e avrei sorriso allo specchio.
Sorridevo sempre al mio volto tumefatto e alla mia prigione infinita.
Lui sarebbe tornato poco dopo, con l'espressione da martire, le lacrime agli occhi e un mazzo di rose rosse, pronunciando sempre la solita frase.
Cos'altro potevo fare, se non credergli? Così avrei preso un bel vaso per le rose e avrei baciato il mio uomo selvaggio.
Lo amavo e bisogna prendere il proprio marito per quello che è, se si vuole che lui ci ami a sua volta. La realtà è cruda e se si vuole un frammento di felicità bisogna soffrire.
La mia felicità erano le rose che mi regalava, tutte le mie amiche ne erano invidiose. I mariti delle altre donne sono sempre troppo impegnati per regalare loro dei fiori.
Io, le mie rose, me le sudavo, me le stavo guadagnando in quel momento, a suon di calci e schiaffi.
Smisi di gemere dal dolore, smisi di udire le sue grida ossesse.
Ormai avevo imparato a non gridare più, quando aveva i suoi momenti. Suss

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L'ultimo bacio

Un urlo atroce straziò la notte, rimbombando come un'eco tra i muti grattacieli che si ergevano cupi e minacciosi sulla città. La pioggia cadeva fitta, il cielo nuvoloso era a tratti rischiarato da qualche lampo, ma il rumore del tuono si udiva a stento. I lampioni funzionavano ad intermittenza, come se proprio quella sera dovesse saltare la corrente.
Se il vicolo non fosse stato al buio, se lei non fosse stata così paranoica, probabilmente tutto ciò non sarebbe mai accaduto.
Là, inginocchiata sul selciato e seminascosta da dei bidoni della spazzatura, una ragazza teneva in grembo il capo di un giovane uomo - chi poteva dire se si trattava del fidanzato o il fratello? - ma dal modo in cui gli accarezzava i capelli era chiaro che doveva volergli bene. Il suo corpo era scosso dai singhiozzi, e il trucco le colava sulle guance trasfigurandole il volto, abbruttendolo: i lunghi capelli rossi, appesantiti dall'acqua e da essi resi più brillanti, le cadevano sulla faccia nascondendole il viso ad altri che non fossero il ragazzo che teneva stretto a sé.
Quest'ultimo inspirava a stento, il volto una maschera di sangue. Il petto gli si sollevava e alzava a fatica, come se ogni respiro gli provocasse un estremo dolore: doveva avere qualche costola incrinata, e forse anche una grave lesione interna, a giudicare dal sangue che gli scorreva in rivoletti dalle labbra socchiuse. Molto probabilmente non avrebbe visto la prossima alba, e questo lo sapeva.
Malgrado la sofferenza riuscì però a sollevare un braccio, stringendo gli occhi e mordendosi il labbro inferiore per non lasciarsi sfuggire un gemito. Avvicinò la mano pallida al volto della ragazza, riuscendo ad accarezzarla e macchiandosi le dita del suo trucco ormai completamente sciolto. Fece per parlare, voleva disperatamente dire qualcosa, ma la voce sembrava essere intrappolata nella sua gola: niente sarebbe riuscito a fargli muovere le labbra e vibrare le corde vocali, e ormai era troppo tardi. L'ambulanza

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   2 commenti     di: Giulia



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